Il sogno di don Bosco è più vivo che mai

Davanti a tutto quello che sto vedendo nel mondo salesiano, mi sento di dire con un po’ di autorità: amato Don Bosco, il tuo Sogno continua a realizzarsi.

            Cari amici, lettori del Bollettino Salesiano, come ogni mese, vi invio il mio personale saluto dal cuore e dalle mie riflessioni, motivate da ciò che sto vivendo, perché credo che la vita arrivi a tutti noi e che ciò che condividiamo, se è buono, ci fa bene e ci dona nuovo entusiasmo.
            Quaresima e Pasqua ci invitano a rinascere. Ogni giorno. Rinascere alla fiducia, alla speranza, alla serena pace, alla voglia di amare, di lavorare e creare, di custodire e coltivare persone e talenti e creature, tutto intero il piccolo o grande giardino che Dio ci ha affidato.
            A noi salesiani la festa di Pasqua ricorda sempre quella del 1846 a Valdocco, quando don Bosco passò dalle lacrime del prato Filippi alla povera tettoia Pinardi e alla striscia di terreno intorno, dove il sogno cominciò a diventare realtà.
            Ho visto il sogno continuare a realizzarsi.
            Vi scrivo in questo momento da Santo Domingo, nella Repubblica Dominicana. Ho fatto in precedenza una visita magnifica, molto significativa a Juazeiro do Norte (nel nord-est brasiliano di Recife) e questi ultimi giorni sono stati dominicani.
            Tra poche ore proseguirò per il Vietnam, e in mezzo a questo “trambusto”, che può essere vissuto anche con molta tranquillità, ho nutrito il mio cuore salesiano di belle esperienze e di confortanti certezze.
            Ve le racconterò, perché parlano della missione salesiana, ma permettetemi di iniziare con un aneddoto che un salesiano mi ha raccontato ieri, che mi ha fatto ridere, mi ha commosso e mi ha parlato di “cuore salesiano”.

Un piccolo lanciatore di sassi
            Un confratello mi ha raccontato che qualche giorno fa, mentre viaggiava lungo una delle strade dell’interno di questo Paese, è passato vicino a un luogo dove alcuni bambini avevano preso l’abitudine di lanciare sassi contro le auto per provocare piccoli incidenti – come rompere un finestrino – e nella confusione rubare qualcosa al viaggiatore.
            Ebbene, è così che gli è successo. Stava attraversando il villaggio e un bambino ha tirato una pietra per rompere un finestrino della sua auto e ci è riuscito. Il salesiano scese dall’auto, prese in braccio il bambino e si fece portare dai suoi genitori. Solo che in quella famiglia non c’era un padre (li aveva abbandonati da tempo).  C’era solo una madre sofferente che era rimasta sola con questo figlio e una bambina più piccola. Quando il salesiano disse alla madre che il figlio aveva rotto il finestrino dell’auto (cosa che il ragazzo riconobbe), e che costava parecchio, e che avrebbe dovuto ripagarlo, la povera donna tra le lacrime si scusò, chiedendo perdono, ma facendogli capire che non aveva alcun modo di pagarlo, che era povera, che avrebbe rimproverato il figlio… In quel momento, la bambina, la sorellina del “piccolo Magone di Don Bosco”, si avvicinò timidamente con il pugnetto chiuso, lo aprì e porse al salesiano l’unica moneta, quasi senza valore, che aveva. Era tutto il suo tesoro e gli disse: “Ecco, signore, per pagare il vetro”. Il mio confratello mi disse che era così commosso che non riusciva più a parlare e finì per dare alla donna un po’ di soldi per un piccolo aiuto alla famiglia.
            Non sapevo come interpretare la storia, ma era così piena di vita, dolore, bisogno e umanità che mi sono ripromesso di condividerla con voi. E poche ore dopo, molto vicino a dove alloggiavo nella casa salesiana, mi è stata mostrata un’altra piccola casa salesiana dove accogliamo i bambini senza nessuno che vivono per strada.
            La maggior parte di loro sono haitiani. Conosciamo bene la tragedia che si sta consumando ad Haiti, dove non c’è ordine, non c’è governo, non c’è legge… Solo le mafie dominano su tutto. Ebbene, sapere che questi bambini, minori arrivati qui non si sa come, che non hanno un posto dove stare,  vengono accolti nella nostra casa (in tutto 20 al momento), per passare poi in altre case, una volta stabilizzati, con altri obiettivi educativi (dove abbiamo, tra varie case e sempre con salesiani ed educatori laici, altri 90 minori), mi ha riempito il cuore di gioia e mi ha fatto pensare che Valdocco a Torino, con Don Bosco, è nato così, e così siamo nati noi salesiani, e un piccolo gruppo di quei ragazzi di Valdocco, insieme a Don Bosco, ha dato vita “de facto” alla congregazione salesiana quel 18 dicembre 1859.
            Come non vedere “la mano di Dio in tutto questo”? Come non vedere che tutto questo lavoro è il risultato di molto più di una strategia umana? Come non vedere che qui e in migliaia di altri luoghi salesiani nel mondo si continua a fare del bene, sempre con l’aiuto di tante persone generose e di tante altre che condividono la passione per l’educazione?
            Quest’anno, in Spagna-Madrid e in altri luoghi (anche in America), è stato presentato il magnifico cortometraggio “Canillitas”, che mostra la vita di tanti di questi giovani. Sono stato felice di toccare con mano e con gli occhi questa realtà. Ed è proprio vero, amici miei, che il sogno di Don Bosco si sta realizzando ancora oggi, 200 anni dopo.
            Ieri ho poi trascorso l’intera giornata con giovani del mondo salesiano che si definiscono e si sentono leader in tutta l’America Latina salesiana di un movimento che cerca di far sì che almeno il mondo educativo salesiano prenda molto sul serio la cura del creato e l’ecologia con la sensibilità di Papa Francesco espressa nella “Laudato Si’“. I giovani di 12 Paesi dell’America Latina erano presenti (di persona o online) nel loro movimento “America Latina Sostenibile”. È bello che i giovani sognino e si impegnino in qualcosa che è buono per loro, per il mondo e per tutti noi. Perché il mondo sia salvato: salvare vuol dire conservare, e nulla andrà perduto, non un sospiro, non una lacrima, non un filo d’erba; non va perduta nessuna generosa fatica, nessuna dolorosa pazienza, nessun gesto di cura per quanto piccolo e nascosto: se potremo impedire a un Cuore di spezzarsi, non avremo vissuto invano. Se potremo alleviare il Dolore di una Vita o lenire una Pena, o aiutare un bambino a crescere non avremo vissuto invano.
            Mi sento, di fronte a tutto questo, di dire con un po’ di autorità: amato Don Bosco, il tuo Sogno è ancora MOLTO VIVO.
            State bene e siate felici.




Il piacere di amare Dio come san Francesco di Sales

            Nel suo famoso Trattato sull’amore di Dio, san Francesco di Sales ha voluto presentare al suo lettore una sintesi di tutta la sua dottrina in dodici punti. Come Gesù, che praticò dodici “atti d’amore”, vuole incoraggiarci a praticare a nostra volta i seguenti atti: compiacenza, benevolenza e unione; umiltà, estasi e ammirazione; contemplazione, riposo e tenerezza; gelosia, malattia e morte d’amore. Parlando degli atti d’amore, non sminuisce affatto il ruolo dei sentimenti, ma propone gli esercizi pratici che il vero amore richiede. Non sorprende che l’autore di questo Trattato sia stato proclamato “dottore dell’amore”.

Il piacere del cuore umano
            Il primo atto dell’amore verso Dio – ma questo vale anche per l’amore verso il prossimo – consiste nel praticare la “compiacenza”, cioè nel cercare e trovare piacere con Lui e in Lui. Non c’è amore senza piacere, come si dice. Per illustrare questa verità, san Francesco di Sales offre l’esempio dell’ape: “Come l’ape nasce nel miele, si nutre di miele e vola solo per il miele, così l’amore nasce dalla compiacenza, si mantiene con la compiacenza e tende alla compiacenza”. Questo vale per l’amore umano, ma vale anche per l’amore divino.
            Quando Francesco era un giovane studente a Parigi, aveva cercato e trovato questo piacere nella storia d’amore raccontata in quel meraviglioso libro della Bibbia chiamato “il Cantico dei Cantici”, al punto da esclamare in un trasporto di gioia: “Ho trovato Colui che il mio cuore ama e non lo lascerò mai più!”.
            Il piacere muove il nostro cuore in direzione di una bellezza che ci attrae, di un bene che ci delizia, di una gentilezza che ci rende felici. Come nell’amore umano, il piacere è il grande motore dell’amore di Dio. L’amata del Cantico dei Cantici ama il suo amato perché la sua vista, la sua presenza, tutte le sue qualità le procurano una grande felicità.
            Meditando sul Cantico dei Cantici, il dottore dell’amore non ha voluto soffermarsi sui piaceri carnali ivi descritti. Non che siano cattivi in sé, perché è il Creatore che li ha ordinato nella sua saggezza, ma in certi casi possono dare origine a comportamenti sbagliati. Da cui questo avvertimento: “Chi non sa spiritualizzarli bene ne godrà solo nel male”.
            Per evitare eventuali inconvenienti, Francesco di Sales preferisce spesso descrivere il piacere del bambino al seno della madre: “Il seno e le mammelle della madre sono le stanze dei tesori del bambino; non ha altre ricchezze che queste, che sono per lui più preziose dell’oro e del topazio, più amabili del resto del mondo”.
            Con queste considerazioni sull’amore umano, san Francesco di Sales vuole introdurci all’amore di Dio. Sappiamo per fede che “la Divinità è un abisso incomprensibile di ogni perfezione, sovranamente infinito nell’eccellenza e infinitamente sovrano nella bontà”. Se dunque consideriamo con attenzione l’immensità delle perfezioni che sono in Dio, è impossibile per noi non provare un grande piacere. È questo piacere che fa dire all’amata del Cantico: “Come sei bello, mio amato, come sei bello! Sei tutto desiderabile, anzi sei il desiderio stesso!”.

Il piacere di Dio
            La cosa più bella è che nell’amore divino il piacere è reciproco, cosa che non sempre avviene nell’amore umano. Da un lato, l’anima umana riceve piacere nello scoprire tutte le perfezioni di Dio, dall’altro Dio si rallegra nel vedere il piacere che le dà. In questo modo, questi piaceri reciproci “rendono l’amore di incomparabile compiacimento”. Così l’anima può gridare: “O mio Re, come sono amabili le tue ricchezze e come sono ricchi i tuoi amori! Ehi, chi ne ha più gioia, tu che ne godi o io che ne gioisco?”.
            Nel duetto d’amore tra Dio e noi, in realtà è Dio ad avere più piacere di noi. Francesco di Sales lo afferma espressamente: Dio ha “più piacere nel dare le sue grazie che noi nel riceverle”. Gesù ci ha amati con un amore di compiacenza perché, come dice la Bibbia, “il suo piacere era stare con i figli degli uomini”.
            Dio non si è fatto uomo a malincuore, ma volentieri e con gioia, perché ci ha amati da sempre. Sapendo questo, e sapendo che Dio stesso è la fonte del nostro amore, “ci dilettiamo nel piacere di Dio infinitamente più che nel nostro”.
            Quando pensiamo a questa felicità reciproca, come non pensare a un pasto condiviso con gli amici? È questa felicità che fa dire al Signore nell’Apocalisse: “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e mangerò con lui ed egli con me”.
            Un’altra immagine, trovata anch’essa nel Cantico dei Cantici, è quella del giardino pieno di “meli di delizia”. È in questo giardino, immagine dell’anima umana, che lo Sposo divino viene ad abitare con tutti i suoi doni. Ci viene volentieri, perché si diletta a stare con i figli degli uomini che ha fatto a sua immagine e somiglianza. E in questo giardino è lui stesso che ha piantato l’amorevole compiacimento che abbiamo nella sua bontà.
            Niente esprime meglio la felicità reciproca di coloro che si amano dell’espressione usata dalla sposa nel Cantico per descrivere la loro reciproca appartenenza: “Il mio amato è mio e io sono sua”. In altre parole, lei può anche dire: “La bontà di Dio è tutta mia, poiché godo delle sue eccellenze, e io sono tutta sua, poiché i suoi piaceri mi possiedono”.

Un desiderio senza fine
            Chi ha già assaporato l’amore di Dio non smetterà di desiderare di assaporarlo sempre di più, perché “nel saziarci vorremmo sempre mangiare, così come nel mangiare ci sentiamo sazi”. Gli angeli che vedono Dio continuano a desiderarlo.
            Il godimento non è diminuito dal desiderio, ma è perfezionato da esso; il desiderio non è soffocato, ma affinato dal godimento. Il godimento di un bene che soddisfa sempre non appassisce mai, ma si rinnova e fiorisce continuamente; è sempre amabile e allo stesso tempo sempre desiderabile.
            Si dice che esista un’erba dalle proprietà straordinarie: chi la tiene in bocca non ha mai fame né sete, tanto è piena, eppure non fa mai perdere l’appetito. Il riposo del cuore non consiste nel rimanere immobile, ma nel non aver bisogno di nient’altro che di Dio; non consiste nel non muoversi, ma nel non avere alcun impedimento a muoversi.
            Si dice che il camaleonte viva dell’aria e del vento; ovunque vada, ha qualcosa da mangiare. Allora perché va sempre da un posto all’altro? Non perché cerca qualcosa per soddisfare la sua fame, ma per esercitarsi sempre a nutrirsi dell’aria del tempo. Chi desidera Dio possedendolo non lo desidera per cercarlo, ma per esercitare l’affetto di cui gode.
            Quando camminiamo verso un bel giardino, non smettiamo di camminare una volta arrivati, ma ne approfittiamo per passeggiare e passare piacevolmente il tempo.
            Seguiamo quindi l’esortazione del Salmista: “Cercate il Signore con grande coraggio, senza mai smettere di cercare il suo volto”. Cerchiamo sempre colui che amiamo sempre, dice sant’Agostino; l’amore cerca ciò che ha trovato, non per averlo, ma per averlo sempre.

Il piacere oltre la sofferenza
            La sofferenza non è contraria al compiacimento. Secondo san Francesco di Sales, Gesù provava piacere nella sofferenza, perché amava i suoi tormenti. Al culmine della sua passione, morì soddisfatto di morire nel dolore per me. È stato questo piacere a fargli dire sulla croce: “Tutto è compiuto”.
            Sarà lo stesso per noi, se condivideremo le nostre sofferenze con le sue. “Quanto più il nostro amico ci è caro”, dice il dottore dell’amore, “tanto più ci piace condividere le sue gioie e i suoi dolori”. “Morirò felice”, disse Giacobbe dopo aver visto suo figlio Giuseppe, che credeva morto. È stato il compiacimento per la passione di Gesù ad attirare le sue stimmate su san Francesco e santa Caterina da Siena. Curiosamente, il miele rende l’assenzio ancora più amaro, ma il dolce profumo delle rose viene affinato dalla vicinanza dell’aglio dal sapore aspro. Allo stesso modo, la compassione che proviamo per le sofferenze di Gesù non ci toglie il compiacimento per il suo amore.
            San Francesco di Sales vuole insegnarci sia la sofferenza che viene dall’amore sia l’amore della sofferenza, la compassione amorosa e il compiacimento doloroso, l’estasi amorosamente dolorosa e l’estasi dolorosamente amorosa. Quando le grandi anime sante furono stigmatizzate, assaporarono il “gioioso amore di sopportazione per l’amico” morto sulla croce. L’amore dava loro una tale felicità che condividere le sofferenze di Gesù li riempiva di un senso di consolazione e di felicità.
            L’amore di san Paolo per la vita, la passione e la morte del suo Signore era così grande che ne traeva un piacere straordinario. Lo vediamo chiaramente quando dice di volersi gloriare della croce di Nostro Signore Gesù Cristo. Altrove dice anche: “Non sono io che vivo, ma Cristo vive in me; e ciò che vivo ora nella carne, lo vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato sé stesso per me”. Santa Chiara si compiaceva talmente della passione del Salvatore da attirare su di sé tutti i segni della sua passione: “il suo cuore era fatto come le cose che egli amava”.
            Tutti dovrebbero sapere quanto il Salvatore desideri entrare nelle nostre anime attraverso questo amore di dolorosa compassione. Nel Cantico dei Cantici, l’amato implora la sua amata: “Aprimi, mia cara sorella, mio amore, mia colomba, mia pura, perché il mio capo è pieno di rugiada e i miei capelli di gocce della notte”. Questa rugiada e queste gocce della notte sono le afflizioni e i dolori della sua passione. Il divino Amante, carico dei dolori e dei sudori della sua passione, dice anche a me: “Aprimi dunque il tuo cuore e io verserò su di te la rugiada della mia passione, che si trasformerà in perle di consolazione”.




Maraviglie della Madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice (3/13)

(continuazione dall’articolo precedente)

Capo III. Maria manifesta nelle nozze di Cana il suo zelo e la sua potenza presso suo figlio Gesù.
            Nel Vangelo di s. Giovanni troviamo un fatto che dimostra chiaramente la potenza e lo zelo di Maria nell’accorrere in nostro aiuto. Noi riferiamo il fatto quale ce lo narra l’evangelista s. Giovanni al c. II.
            In Cana di Galilea vi fu uno sposalizio ed era quivi la madre di Gesù. E fu invitato anche Gesù coi suoi discepoli alle nozze. Essendo venuto a mancare il vino, disse a Gesù la madre: Essi non hanno più vino. E Gesù le disse: Che ho io a fare con te, o donna? non è per anco venuta la mia ora. Disse la madre a coloro che servivano: Fate quello che lui vi dirà. Ora vi erano sei idrie di pietra preparate per la purificazione giudaica, le quali contenevano ciascuna da due a tre metrete. Gesù disse loro: Empite d’acqua quelle idrie. Ed essi le empirono fino all’orlo. E Gesù disse loro: Attingete adesso e portate al maestro di casa. E ne portarono. E appena ebbe fatto il saggio dell’acqua convertita in vino, il maestro di casa, che non sapeva d’onde questo uscisse (lo sapevano però i servi che avevano attinta l’acqua), il maestro di casa chiama lo sposo e gli dice: Tutti servono da principio il vino di miglior qualità, e quando la gente si è esilarata, allora danno dell’inferiore, ma tu hai serbato il migliore fino ad ora. Così Gesù in Cana di Galilea diede principio a far miracoli e manifestò la sua gloria e in lui credettero i suoi discepoli.
            Qui s. Giovanni Grisostomo domanda: Perché Maria aspettò a questa occasione delle nozze di Cana ad invitare Gesù a far miracoli e non lo pregò di farne prima? E risponde, che ciò fece Maria per spirito di sommissione alla divina provvidenza. Per trent’anni Gesù aveva menato vita nascosta. E Maria che faceva preziosa conserva di tutti gli atti di Gesù, conservabathaec omnia conferens in corde suo, come dice s. Luca (capo II, v. 19), venerava con rispettoso silenzio quell’umiliazione di Gesù. Quando poi si accorse che Gesù aveva cominciata la sua vita pubblica, che s. Giovanni nel deserto aveva già cominciato nelle sue prediche a parlare di lui e che Gesù aveva già dei discepoli, allora secondò l’avviamento della grazia con quello stesso spirito di unione a Gesù con cui aveva per trent’anni rispettato il suo nascondimento ed interpose la sua preghiera per sollecitarlo a fare un miracolo e manifestarsi agli uomini.
            S. Bernardo, nelle parole Vinum non habent, non, hanno vino, ravvisa una grande delicatezza di Maria. Ella non fa una prolissa preghiera a Gesù come Signore, né gli comanda come a figlio; non fa che annunziargli il bisogno, la mancanza del vino. Coi cuori benefici e propensi alla liberalità non occorre di strappare colle industrie e colla violenza la grazia, basta proporre l’occasione. (S. Bernardo serm. 4 in cant.)
            L’angelico dottore s. Tommaso ammira in questa breve preghiera la tenerezza e la misericordia di Maria. Imperciocché è proprio della misericordia il reputar nostro il bisogno altrui, giacché la parola misericordioso vuol quasi dire cuore fatto pei miseri, per sollevare i miseri, e cita qui il testo di s. Paolo ai Corinti: Quis infirmatur et ego non infirmor? Chi è infermo, che non sia io infermo? Or siccome Maria era piena di misericordia, voleva provvedere alla necessità di questi ospiti e perciò dice il Vangelo: Mancando il vino, lo disse la Madre di Gesù a lui. Onde ci anima s. Bernardo a ricorrere a Maria perché se ebbe tanta compassione della vergogna di quella povera gente e loro provvide, quantunque non pregata, quanto più avrà pietà di noi se la invochiamo con fiducia? (S. Bernardo serm. 2 dominiate II Èpif.)
            S. Tommaso loda poi ancora la sollecitudine e diligenza di Maria nel non aspettare che il vino fosse del tutto mancato ed i convitati venissero ad accorgersene con disonore degli invitanti. Appena fu imminente il bisogno trasse opportuno il soccorso secondo il detto del Salmo 9: Adiutor in opportunitatibus, in tribulatione.
            La bontà di Maria verso di noi dimostrata in questo fatto splende maggiormente nella condotta che tenne dopo la risposta del suo divin figliuolo. Alle parole di Gesù un’anima meno confidente, meno coraggiosa di Maria, avrebbe desistito dallo sperare più in là. Maria invece per nulla conturbata si rivolge ai servi della mensa e dice loro: Fate quello che egli vi dirà. Quodcumque dixerit vobis, facite (cap. II, v. 4). Come se dicesse: Sebbene sembra che neghi di fare, tuttavia farà (Beda).
            Il dotto P. Silbeira enumera un gran complesso di virtù che risplendono in queste parole di Maria. Diede la Vergine (dice questo autore) luminoso esempio di fede, imperciocché sebbene udisse dal figliuolo la dura risposta: “Che ho da fare con te”, tuttavia non esitò. La fede quando è perfetta, non esita a fronte di qualunque avversità.
            Insegnò la fiducia: imperciocché sebbene udisse dal figliuolo parole che sembravano esprimere una negativa, anzi, come dice il ven. Beda sopracitato, poteva la Vergine credere benissimo che Cristo avrebbe respinto le sue preghiere, tuttavia operò contro la speranza, molto confidando nella misericordia del figlio.
            Insegnò l’amore verso Dio, mentre procurò che con un miracolo se ne manifestasse la gloria. Insegnò l’obbedienza mentre persuase ai servi di obbedire a Dio non in questo né in quello ma in ogni cosa senza distinzione; quodcumque dixerit, qualunque cosa vi dirà. Diede pure esempio di modestia mentre non approfittò di questa occasione per gloriarsi d’essere madre d’un tanto figlio giacché non disse: Qualunque cosa vi dirà mio figlio; ma parlò in terza persona. Inspirò ancora la riverenza verso Dio col non pronunziare il santo nome di Gesù. Non ho ancora mai trovato, dice questo autore, nella Scrittura che la beata Vergine abbia pronunziato questo santissimo nome per la somma venerazione che ne professava. Diede esempio di prontezza, imperciocché non li esorta ad udire ciò che avrebbe detto, ma a farlo. Insegnò finalmente la prudenza colla misericordia, poiché disse ai servi che facessero qualunque cosa avesse loro detto affinché quando avessero inteso l’ordine di Gesù di riempir d’acqua le idrie, non lo avessero imputato una ridicolaggine: era proprio d’una misericordia somma e prudente il prevenire che altri cada nel male (P. Silveira tom. 2, lib. 4, quest. 21).

Capo IV. Maria eletta aiuto dei Cristiani sul monte Calvario da Gesù moribondo
            La più splendida prova che Maria è aiuto dei Cristiani noi la troviamo sul monte Calvario. Mentre Gesù pendeva agonizzante sulla croce, Maria superando la naturale debolezza lo assisteva con fortezza inaudita. Pareva che nulla più rimanesse a Gesù da fare per dimostrar quanto ci amava. Il suo affetto però gli fece ancora trovare un dono che doveva suggellare tutta la serie dei suoi benefizi.
            Dall’alto della croce volge lo sguardo moribondo sulla sua madre, l’unico tesoro che gli rimanesse sulla terra. Donna, disse Gesù a Maria, ecco il tuo figliuolo; dipoi disse al discepolo Giovanni: ecco la madre tua. E da quel punto, conchiude l’evangelista, il discepolo la prese fra i beni suoi.
            I santi Padri in queste parole riconoscono tre grandi verità:
            1. Che s. Giovanni successe in tutto e per tutto a Gesù come figliuolo di Maria;
            2. Che perciò tutti gli uffizi di maternità che Maria esercitava sopra Gesù passarono in favore del nuovo figliuolo Giovanni;
            3. Che nella persona di Giovanni Gesù ha inteso di comprendere tutto il genere umano.
            Maria, dice s. Bernardino da Siena, colla sua cooperazione amorosa al ministero della Redenzione ci ha veramente generati sul Calvario alla vita della grazia; nell’ordine della salute tutti siamo nati dai dolori di Maria come dall’amore del Padre Eterno e dai patimenti del suo Figliuolo. In quei preziosi momenti Maria divenne rigorosamente nostra Madre.
            Le circostanze che accompagnarono quest’atto solenne di Gesù sul Calvario confermano quanto asseriamo. Le parole scelte da Gesù sono generiche ed appellative, osserva il detto P. Silveira, ma bastano a farci conoscere che qui si tratta d’un mistero universale, che comprende non già un solo uomo, ma tutti quegli uomini ai quali conviene questo titolo di discepolo diletto di Gesù. Sicché le parole del Signore sono una dichiarazione amplissima e solenne, che la Madre di Gesù è divenuta la madre di tutti i cristiani: Ioannes est nomen particulare, discipulus commune ut denotetur quod Maria omnibus detur in Matrem.
            Gesù sulla croce non era una semplice vittima della malignità dei Giudei, era un Pontefice universale che operava come riparatore a pro di tutto il genere umano. Quindi nella stessa maniera che implorando il perdono ai crocifissori lo ottenne a tutti i peccatori; aprendo il Paradiso al buon ladrone lo apri a tutti i penitenti. E come i crocifissori sul Calvario secondo l’energica espressione di s. Paolo rappresentarono tutti i peccatori, ed il buon ladrone tutti i veri penitenti, così s. Giovanni rappresentò tutti i veri discepoli di Gesù, i cristiani, la Chiesa Cattolica. E Maria divenne, come dice s. Agostino, la vera Eva, la madre di tutti coloro che spiritualmente vivono, Mater viventium; o come s. Ambrogio afferma, la madre di tutti coloro che cristianamente credono; Mater omnium credentium.Maria pertanto diventando nostra madre sul monte Calvario non solo ebbe il titolo di aiuto dei cristiani, ma ne acquistò l’uffizio, il magistero, il dovere. Noi abbiamo dunque un sacro diritto di ricorrere all’aiuto di Maria. Questo diritto è consacrato dalla parola di Gesù e garantito dalla tenerezza materna di Maria. Ora che Maria abbia interpretato l’intenzione di Gesù Cristo in croce in questo senso e che Egli la facesse madre ed ausiliatrice di tutti i cristiani lo prova la condotta che essa tenne di poi. Sappiamo dagli scrittori della sua vita quanto zelo essa dimostrasse in tutti i tempi per la salute del mondo e per l’incremento e la gloria di santa Chiesa. Essa dirigeva e consigliava gli Apostoli ed i discepoli, esortava, animava tutti a mantener la fede, a conservar la grazia e renderla operosa. Sappiamo dagli atti degli Apostoli come ella fosse assidua a tutte le radunanze religiose che tenevano quei primi fedeli di Gerusalemme, perché non mai si celebravano i divini misteri senza che ella vi prendesse parte. Quando Gesù salì al cielo ella lo seguì coi discepoli sul monte Oliveto, al luogo della Ascensione. Quando lo Spirito Santo discese sugli Apostoli, il giorno della Pentecoste, ella si trovava nel cenacolo con essi. Così racconta s. Luca il quale dopo aver nominato ad uno ad uno gli Apostoli radunati nel cenacolo dice: “Tutti questi perseveravano di concordia nell’orazione insieme colle donne e con Maria madre di Gesù.”
            Gli Apostoli inoltre e i discepoli e quanti cristiani vivevano in quel tempo in Gerusalemme e nei dintorni, tutti accorrevano a Maria per essere consigliati e diretti.

(continua)




I protomartiri salesiani: Luigi Versiglia e Callisto Caravario

Luigi e Callisto: stessa vocazione missionaria per la salvezza delle anime, ma con una storia diversa.
Il 25 febbraio di questo anno si celebra il 94° anniversario del martirio di Mons. Luigi Versiglia e don Callisto Caravario, missionari in terra cinese.
Luigi Versiglia e Callisto Caravario: due figure diverse per molti aspetti ma accomunate da un grande zelo apostolico e dal loro ultimo atto di puro amore in difesa della religione cattolica e della purezza di tre ragazze cinesi.

Luigi: l’aspirante veterinario che divenne salesiano missionario

Luigi Versiglia, nato il 5 giugno 1873 a Oliva Gessi (PV), da bambino, benché assiduo chierichetto nella chiesa parrocchiale del suo paese, non intende minimamente farsi prete. Anzi, si infastidisce quando i suoi compaesani, vedendolo tanto devoto in chiesa, profetizzano un suo futuro da prete. La cosa non è affatto nei suoi progetti di vita, neppure quando a 12 anni viene mandato a studiare al collegio di Torino Valdocco. Lui ama i cavalli e sogna di diventare veterinario. Studiare a Torino rafforza in lui la speranza di poter poi iscriversi alla prestigiosa facoltà di Veterinaria dell’Università torinese.

Versiglia con Don Braga e gli allievi dell’Istituto S. Giuseppe di Ho Sai

A Valdocco, però, conosce don Bosco, ormai anziano e malato, e rimane quasi ammaliato dal suo carisma. In questi anni a Valdocco, nell’animo di Versiglia inizia a delinearsi qualcosa.
La carità e la devozione irradiate dall’ambiente salesiano, insieme al fascino di don Bosco, lavorano pian piano nell’animo di Luigi, finché accade un fatto che risulta decisivo, e da quel giorno egli non avrà più dubbi. L’11 marzo 1888 nella Basilica di Maria Ausiliatrice assistendo alla cerimonia di addio ad un gruppo di missionari in partenza per l’Argentina, rimane impressionato dal contegno tanto modesto e raccolto di uno dei sei giovani in partenza. Di lì la sua vocazione. Da quel giorno nasce in lui il forte desiderio di diventare prete, prete salesiano missionario. (La storia della sua vocazione missionaria è ben descritta nella lettera che lui stesso scrive al suo Direttore don Barberis nel 1890.)
Luigi frequenta, dunque, il noviziato a Foglizzo (1888-1890), dove tiene una condotta irreprensibile in tutto: caritatevole con i compagni, molto pio e nello stesso tempo intraprendente e pieno di vita.  Vince poi una borsa di studio per il corso di filosofia all’Università Gregoriana di Roma e a vent’anni riceve il baccellierato in filosofia.
È ordinato sacerdote a soli ventidue anni con una dispensa concessagli dalla Santa Sede in virtù della sua maturità psichica e morale, superiore all’età.
Subito viene mandato ad insegnare filosofia ai novizi a Foglizzo, dove, con il suo carattere schietto e sempre allegro, è stimato e ammirato da tutti per la sua competenza, affabilità e imparzialità. Esige l’osservanza delle regole, precedendo tutti con l’esempio.
Dopo Foglizzo, gli viene affidata la direzione del nuovo noviziato a Genzano di Roma dove trasmette anche ai suoi chierici l’ideale missionario.

Callisto: un giovane puro desideroso di essere missionario

Il chierico Caravario a Shanghai con don Garelli e 20 battezzandi

Tutt’altra storia ha, invece, la vocazione di Callisto Caravario, che nasce l’8 giugno 1903, esattamente trenta anni dopo Luigi Versiglia a Courgnè (TO), e all’età di cinque anni si trasferisce a Torino con la famiglia. Di indole buona, attaccatissimo alla mamma, per la quale ha gesti e attenzioni singolari, fin da piccolo manifesta una spiccata vocazione al Sacerdozio. I suoi primi divertimenti sono imitare i gesti del Sacerdote che celebra la messa. Impara presto a servire la Messa, lo fa con devozione, frequenta con passione e impegno l’oratorio San Giuseppe di Torino, che diventa la sua seconda casa.

Alla scuola elementare del Collegio San Giovanni Evangelista per due anni ha come maestro il chierico Carlo Braga, oggi Servo di Dio.
Alla mamma ripete costantemente che da grande si farà prete.
Nel 1914 inizia il ginnasio all’Oratorio di Valdocco, dove è particolarmente attratto dai missionari che vanno lì in visita ai Superiori e con i quali spesso si intrattiene nelle ricreazioni alimentando il suo desiderio per le Missioni.
Nel 1918 inizia il noviziato a Foglizzo e l’anno dopo emette i voti religiosi. Frequenta l’Oratorio San Luigi di Via Ormea dove avvia al Sacerdozio più di un giovane.
Nel 1922 incontra Mons. Versiglia, arrivato dalla Cina a Torino per partecipare al Capitolo Generale, e gli esprime il suo forte desiderio di seguirlo in Missione. I Superiori, tuttavia, non gli consentono di realizzare subito il suo sogno, perché questo l’obbligherebbe a troncare gli studi, ma Callisto assicura Versiglia: “Monsignore, vedrà che sarò di parola: la seguirò in Cina. Vedrà che la seguirò certamente”.
L’anno dopo, tramite un gruppo di missionari in partenza per la Cina, fa recapitare una lettera a don Braga, missionario a Shiu-chow, chiedendogli di “preparare un posticino per lui”.

Luigi e Callisto: esperienze missionarie diverse ma accomunate dalla completa dedizione al prossimo e dalla conquista dell’affetto e dell’attaccamento dei giovani
Don Versiglia conserva vivo negli anni il suo ideale di missionario e l’occasione di partire in Missione gli si presenta nel 1906, quando il Rettor Maggiore dei Salesiani, a seguito di trattative intercorse con il vescovo di Macao, lo nomina capo di una spedizione per l’appunto a Macao, colonia portoghese sulla costa meridionale della Cina, per la direzione e la gestione di un orfanotrofio.
La spedizione è composta da altri due sacerdoti e da tre coadiutori: un sarto, un calzolaio e un tipografo. I Missionari arrivano a Macao il 13 febbraio 1906.
Don Versiglia adotta il metodo educativo di don Bosco cercando di creare un ambiente familiare fondato sull’amorevolezza. Per gli orfani il loro “Luì San-fù” (Padre Luigi) ha una dedizione totale e amorevole e lui è da loro pienamente ricambiato. Appena arriva gli corrono incontro e lo accolgono festosamente. Per questo a Macao don Versiglia diventa noto come il “padre degli orfani”.
Nell’orfanotrofio diretto da Versiglia il gioco e la musica sono strumenti educativi fondamentali. É il motivo che lo spinge ad aprire un oratorio festivo e a costituire una banda musicale, con ottoni e tamburi, che cattura da subito la curiosità e la simpatia di tutti i cinesi, agli occhi dei quali i piccoli musicisti sembrano «una comitiva fantastica, piovuta da un altro mondo».
Nel corso degli anni don Versiglia trasforma l’orfanotrofio in una scuola professionale di Arti e Mestieri per alunni orfani che è così stimata da essere presa a modello per le altre scuole di Macao. I ragazzi che ivi si diplomano trovano subito impiego negli uffici amministrativi della città o riescono ad aprire negozi di artigianato in proprio. Questa scuola dà un valido contributo di promozione sociale e culturale e la sua importanza viene riconosciuta da tutti.
Il Vescovo di Macao nel 1911 affida a Versiglia l’evangelizzazione del distretto dell’Heung Shan, regione compresa nel vasto delta del Fiume delle Perle.
In questo territorio il compito di evangelizzazione è particolarmente difficile. “C’è tutto da fare, preparare catechisti, maestri, scuole…” scrive don Versiglia. Compito difficile soprattutto a motivo della mancanza di personale, maschile e femminile, e della grande diffidenza del popolo cinese verso i missionari, considerati come stranieri inviati dai paesi colonialisti e quindi nemici.
Pochi mesi dopo, la millenaria monarchia cinese viene rovesciata e a partire dall’ottobre 1911 si instaura la Repubblica, ma continuano gli scontri tra i reparti imperiali e le truppe rivoluzionarie. La pirateria rifiorisce e scoppiano epidemie. Si diffonde addirittura la peste bubbonica e don Versiglia non lesina sacrifici per soccorrere chiunque abbia bisogno, visita i lazzaretti dando conforto ai malati e amministrando battesimi. Una volta al mese va anche a visitare i lebbrosi relegati in un’isola vicina.
Nella ferma volontà di Versiglia di aiutare tutti, anche i più miserabili, allontanati e dimenticati, di assisterli sia materialmente nei bisogni quotidiani della vita, sia spiritualmente salvando le loro anime non possiamo che cogliere in lui uno sconfinato amore per il prossimo.

Nel 1918 prende vita la prima Missione salesiana completamente autonoma in Cina, la Missione dello Shiu-Chow, che comprende una regione montuosa molto vasta, dove ci si può spostare solo in barca, a piedi o a cavallo, e gli abitanti sono dispersi in villaggi molto distanti gli uni dagli altri.

Nel 1921 viene consacrato Vescovo.
I vari confratelli daranno tutti testimonianza della grande carità di Versiglia che lo porta a fare quasi il servo dei suoi missionari, e nelle malattie li assiste giorno e notte. Carità anche nelle piccole cose. Don Garelli, ad esempio, racconterà che giunto dall’Italia alla residenza di Shiu-chow, piccola, povera e sprovvista di arredi, Versiglia gli dice: “Vedi, qui c’è un solo letto ad una sola piazza. Io sono ormai rotto alla vita missionaria, ma tu no! Sei ancora abituato agli agi della vita civile. Dunque, su quel letto ci dormi tu, e qui sul pavimento ci dormo io”.
Anche da Vescovo, egli continua a sacrificarsi per i confratelli e per i cinesi e si presta a qualunque servizio: tipografo, sacrestano, giardiniere, imbianchino, persino barbiere.
Compie visite pastorali faticosissime e lunghissime, alcune durano anche due mesi, sono in condizioni molto disagevoli, Gli capita di dormire sugli assiti delle barche pubbliche in mezzo alla gente che ti calpesta, in alberghi fatiscenti, in mezzo a diluvi…
Costruisce scuole, residenze, chiese, dispensari, orfanotrofio, brefotrofio, ricovero per anziani, tutto ciò grazie a sue doti particolari: 1) ha abilità di architetto; infatti, disegna e progetta lui stesso tutte le costruzioni e poi ne dirige i lavori, 2) ha grandi abilità oratorie che gli consentono di raccogliere i fondi necessari. Nei suoi due unici viaggi in Italia nel 1916 e 1922 e in quello al Congresso Eucaristico di Chicago, dove si reca per motivi specifici, tiene diversi seminari in cui incanta la gente aprendo i cuori di molti benefattori.
Quelli a Shiu-chow sono anni ancora più difficili. Il governo repubblicano, per scacciare potenti generali che ancora controllano vaste zone del nord, chiede aiuto alla Russia che manda i suoi armamenti ma inizia anche a fare propaganda bolscevica contro l’imperialismo occidentale, e i missionari vengono visti come nemici che devono esser allontanati, le loro residenze spesso vengono occupate dai militari, ecc. Negli anni il clima si fa sempre più scottante, diventa sempre più pericoloso viaggiare, la pirateria imperversa, alcuni missionari vengono rapiti dai pirati.
Mons. Versiglia si prodiga in tutti i modi per difendere le residenze e le persone in pericolo e dice: “Se per il Vicariato è necessaria una vittima, prego il Signore di prendere me”.

Callisto: giovane missionario appassionato di Cristo fino al dono totale di sé
Diversa e più breve è l’esperienza missionaria di Callisto ma ugualmente condotta con la massima dedizione di sé.
Egli riesce a realizzare il suo sogno missionario a ventuno anni (1924), quando ottiene il permesso di seguire don Garelli a Shanghai, dove viene affidata ai Salesiani la direzione di un grande istituto professionale.
Alla consegna della croce missionaria nella Basilica di Maria Ausiliatrice, il chierico Caravario formula questa preghiera: “Signore, la mia croce io non desidero che sia né leggera né pesante, ma come vuoi tu. Dammela Tu come vuoi. Solo ti chiedo che io la possa portare volentieri”. Parole che tanto ci dicono sulla sua disposizione ad accettare la volontà di Dio anche nelle sofferenze e nelle criticità.
Caravario arriva dunque a Shanghai nel novembre 1924, e qui, oltre allo studio del cinese, gli viene affidata un’ingente mole di lavoro: l’assistenza completa, ventiquattro ore su ventiquattro, di cento orfanelli, la scuola di catechismo, la preparazione al battesimo e alla cresima, l’animazione delle ricreazioni. Perseguendo il suo ideale di diventare sacerdote, inizia anche a studiare teologia con grande serietà.
Nel 1927 deve lasciare Shanghai per lo scatenarsi della rivoluzione e viene destinato alla lontana isola di Timor, colonia portoghese nell’arcipelago indonesiano, ecclesiasticamente dipendente dal Vescovo di Macao, per aprire una scuola di arti e mestieri. A Timor resterà due anni, che sfrutterà per arricchire la sua cultura religiosa e la sua relazione con Dio in vista del Sacerdozio. Anche a Timor, come a Shanghai, il suo apostolato ha il frutto di diverse vocazioni, e si guadagna la fiducia e l’affetto dei giovani “che piangono tutti alla sua partenza” quando nel 1929 la casa salesiana a Dili viene chiusa.
Viene, dunque, destinato alla Missione di Shiu-chow dove ritrova il suo maestro delle elementari, don Carlo Braga, e Mons. Versiglia che il 18 maggio 1929 lo ordina Sacerdote. Quel giorno, alla mamma scrive: “Mamma, ti scrivo col cuore pieno di gioia. Stamani sono stato ordinato, sono sacerdote in eterno. Ormai il tuo Callisto non è più tuo: egli dev’essere completamente del Signore. Sarà lungo o breve il tempo del mio sacerdozio? Non lo so. L’importante è che presentandomi al Signore io possa dire di aver fatto fruttare la grazia che mi ha dato”.
Caravario è estremamente magro e debole a causa della malaria contratta a Timor e Versiglia gli affida la Missione di Lin-chow, pensando che il buon clima di quella zona possa giovare alla sua salute fisica.
Come Versiglia, anche Caravario affronta le fatiche dei viaggi apostolici con spirito di sacrificio e adattamento. “In questa terra ci sono molte anime da salvare e gli operai sono pochi; perciò, noi dobbiamo, con l’aiuto del Signore, salvarle anche a costo di qualsiasi sacrificio.”
Grazie alle sue qualità di purezza, pietà, dolcezza e sacrificio, dai confratelli viene considerato il perfetto modello di Sacerdote missionario.

Luigi e Caravario: insieme nell’ultimo sacrificio
Il 24 febbraio 1930 Mons. Versiglia parte per la visita pastorale alla residenza di Lin-chow insieme a Don Callisto Caravario, a due maestri e a tre giovani ragazze che hanno studiato al collegio di Shiu-chow. Il 25 febbraio durante la risalita del fiume di Lin-chow la loro barca è fermata da una decina di pirati bolscevichi che chiedono cinquecento dollari come lasciapassare (che ovviamente i missionari non hanno con sé) e tentano di rapire le ragazze, ma Versiglia e Caravario si oppongono fermamente per proteggere la purezza delle giovani. Mons. Versiglia è risoluto a compiere il suo dovere fino a dare la vita: “Se per salvare coloro che sono state affidate alle mie cure, è necessario morire per difenderle, io sono pronto”. I pirati si scagliano su di loro, insultando la religione cattolica, e li bastonano in modo brutale. Poi li conducono in una boscaglia, li fucilano e si accaniscono sui loro corpi.
Le ragazze, liberate qualche giorno dopo dall’esercito regolare, testimonieranno la serenità con cui i due missionari vanno incontro alla morte.
Luigi e Callisto hanno immolato sé stessi per difendere la fede e la purezza delle tre giovani.
Chi li ha conosciuti testimonia che la forza di volontà e l’attaccamento a Dio hanno permeato tutta la loro vita in modo eroico, e che il loro zelo per la salvezza delle anime è stato peculiare.
La santità di queste anime belle è stata la conquista d’ogni giorno e il Martirio ne è stato il coronamento.

dott.ssa Giovanna Bruni




Essere amabili come don Bosco (2/2)

(continuazione dall’articolo precedente)

5) Essere autentici
Nell’era digitale, le persone autentiche sono molto importanti. Non si mettono in mostra, non cercano di adattarsi a uno stampo, si sentono a proprio agio con chi sono e non hanno paura di mostrarlo. Esprimono i loro pensieri e sentimenti con totale onestà, senza preoccuparsi di ciò che gli altri potrebbero pensare, creando un ambiente di onestà e accettazione.
Nelle sue Memorie è registrata questa compiaciuta affermazione: «Io da tutti i compagni, anche maggiori di età e di statura, ero temuto per il mio coraggio e per la mia forza gagliarda».
«È inutile, – dirà a sua volta don Cafasso – vuol fare a suo modo; eppure bisogna lasciarlo fare; anche quando un progetto sarebbe da sconsigliare, a don Bosco riesce»; risentita per non averlo guadagnato alla sua causa, la Marchesa Barolo lo taccerà di «cocciuto, ostinato, superbo».
Sono buoni mattoni. Li sa usare bene per costruire un capolavoro.

La semplicità.
Molte persone hanno bisogno di fingere di essere diversi, di apparire più forti di quello che sono. Per voler essere quello che non sono.
I fiori semplicemente fioriscono. Leggeri silenziosi sono quello che sono. La persona semplice come gli uccelli del cielo. Il canto qualche volta, il silenzio più sovente, la vita sempre. Don Bosco vive come respira. È sempre lui. Mai doppio, mai pretenzioso, mai complesso. L’intelligenza non è arruffamento, complicazione, snobismo. La realtà è complessa senza dubbio. Non riusciremmo facilmente a descrivere un albero, un fiore, una stella, un sasso… Questo non impedisce loro di essere semplicemente quello che sono. La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce, non si preoccupa per sé stessa, non desidera essere vista…
Le Memorie raccontano che nel 1877, ad Ancona «don Bosco andò a celebrare verso le dieci nella chiesa del Gesù, ufficiata dai Missionari del Preziosissimo Sangue. Gli servì la messa un giovanetto, che per tutta la vita non dimenticò più quell’incontro. Vide egli entrare in sacrestia un «pretarello» basso, modesto nel viso e nell’atteggiamento, affatto sconosciuto. Però «in quel viso bruno» scorse un non so che di bontà attraente, che destò subito in lui un misto di curiosità e riverenza. Nel celebrare poi notò che aveva qualche cosa di speciale, d’invitante al raccoglimento e al fervore. Terminata la messa, dopo il ringraziamento, il prete gli pose la mano sul capo, gli regalò dieci centesimi, volle sapere chi fosse e che cosa facesse e gli disse alcune buone parole. A quarantotto anni di distanza quel giovane, che si chiamava Eugenio Marconi ed era alunno dell’Istituto Buon Pastore, doveva poi scrivere: «Oh la dolcezza di quella voce! l’affabilità, l’affetto racchiusi in quelle parole! Io rimasi confuso e commosso». Scoprì poco dopo che il «pretarello» era don Bosco e gli fu amico devoto per tutta la vita.
Il contrario del semplice non è il complicato, ma il falso. Semplicità è nudità, spoliazione, povertà. Senz’altra ricchezza che tutto. Senza altro tesoro che niente. Semplicità è libertà, leggerezza, trasparenza. Semplice come l’aria, libero come l’aria. Come una finestra aperta al grande soffio del mondo, all’infinita e silenziosa presenza di tutto.
Dove soffia lo Spirito del Vangelo: «Guardate gli uccelli che vivono in libertà: essi non seminano, non mietono e non mettono il raccolto nei granai… eppure il Padre vostro che è in cielo li nutre! Ebbene, voi non siete forse molto più importanti di loro?» (Mt 6,26).
Le Memorie Biografiche tranquillamente affermano: «Era evidente essersi egli gettato nelle braccia della divina Provvidenza, come un bambino in quelle di sua madre» (MB III, 36).
Tutto è semplice per Dio. Tutto è divino per i semplici. Anche il lavoro. Anche lo sforzo. 

6) Essere resistenti
La vita è piena di sorprese. Le cose non vanno sempre lisce e a volte affrontiamo sfide che mettono alla prova la nostra forza e la nostra determinazione. In questi momenti, la resilienza è una qualità potente. Si tratta di avere la forza mentale ed emotiva di riprendersi di fronte alle avversità, di andare avanti anche quando le cose si fanno difficili. Ed è qualcosa che le persone ammirano. Avere accanto qualcuno che incarna il coraggio può essere un’incredibile fonte di ispirazione. Il miglior titolo per una vita di don Bosco credo sia Giovannino Semprinpiedi.
Monsignor Cagliero ricorda: «Non ricordo di averlo visto un solo momento, nei 35 anni in cui stetti al suo fianco, scoraggiato, infastidito o inquieto per i debiti dei quali era sovente carico. Sovente diceva: «La Provvidenza è grande, e come pensa agli uccelli dell’aria, così penserà ai miei giovanetti».
“Guarda, io sono un povero prete, ma se rimanessi anche solo più con un pezzo di pane, lo farei a metà con te”. Era la frase più ripetuta da don Bosco.
I veri amici sono come le stelle… non sempre le vedi, ma sai che ci sono sempre.

7) Essere umili
Le persone umili non hanno bisogno di continui elogi o riconoscimenti per sentirsi bene con sé stesse e non sentono il bisogno di dimostrare il proprio valore agli altri. Inoltre, hanno una mente aperta e sono sempre disposte a imparare dagli altri, indipendentemente dal loro status o dalla loro posizione.
Don Bosco non si vergognò mai di chiedere l’elemosina. Umile e forte, come gli aveva chiesto la Maestra. A testa alta con tutti.

8) Diffondere la tenerezza
Michele Rua si affezionò a don Bosco, quel prete accanto al quale ci si sentiva allegri e come pieni di calore. Abitava alla Regia Fabbrica d’Armi, Michelino, dove suo papà era stato impiegato. Quattro dei suoi fratelli erano morti giovanissimi, e lui era molto gracile. Per questo sua madre non lo lasciava andare molte volte all’oratorio. Ma incontrò ugualmente don Bosco dai Fratelli delle Scuole Cristiane, dove andò a frequentare la terza elementare. Raccontò:
«Quando don Bosco veniva a dirci la Messa e a predicare, appena entrava in cappella pareva che una corrente elettrica passasse per tutti quei numerosi fanciulli. Saltavamo in piedi, uscivamo dai nostri posti, ci stringevamo attorno a lui. Ci voleva un gran tempo perché egli potesse arrivare in sacrestia. I buoni Fratelli non potevano impedire quell’apparente disordine. Quando venivano altri preti non capitava niente di simile».
Don Bosco era attraente come una calamita. C’è un episodio comico e tenero, raccontato nelle Memorie Biografiche di don Bosco con la leggerezza dei Fioretti:
«Una sera don Bosco camminando lungo un marciapiede in via Doragrossa, ora chiamata via Garibaldi, passò innanzi all’invetriata di un magnifico fondaco da panni il cui cristallo teneva tutta l’ampiezza della porta. Un buon giovanetto dell’Oratorio, il quale ivi serviva da fattorino, visto don Bosco, nel primo slancio del suo cuore, senza riflettere che l’invetriata era chiusa, corre per andarlo a riverire; ma dà col capo nel cristallo e lo riduce a pezzi. Al rovinoso cader dei vetri don Bosco si ferma e apre la vetrata; il fanciullo tutto mortificato gli si fa da presso; il padrone esce di bottega, alza la voce e grida; i passeggeri fanno crocchio. «Che cosa hai fatto?» domandò don Bosco al giovanetto; ed egli ingenuamente risponde: «Ho veduto Lei a passare e, pel gran desiderio di riverirla, non ho più badato che doveva aprire la vetriera e l’ho rotta» (Memorie Biografiche MB III, 169-170).
Era un senso di amicizia esplosivo, quello che i ragazzi provavano per don Bosco. Sulla linea di san Francesco di Sales, cantore dell’amicizia spirituale, don Bosco sentiva che l’amicizia fondata sulla benevolenza e sulla confidenza reciproca pareva essenziale al suo sistema preventivo.
L’amicizia per don Bosco è quel “tocco in più” che ha trasformato un metodo educativo simile ad altri in un capolavoro unico ed originale.
Don Rua, Monsignor Cagliero e gli altri lo chiamavano papà
In fin dei conti, la gentilezza è ciò che conta di più. È il modo in cui trattate gli altri, la compassione che mostrate e l’amore che diffondete che definisce davvero chi siete come persona. La gentilezza può essere semplice come un sorriso, una parola di incoraggiamento o una mano tesa. L’idea è quella di far sentire gli altri apprezzati e amati. I ragazzi di don Bosco testimonieranno con un’insistenza quasi monotona: «Mi voleva bene». Uno di loro, san Luigi Orione, scriverà: «Camminerei sui carboni ardenti per vederlo ancora una volta, e dirgli grazie».
Il ragazzo non riusciva a capacitarsi come don Bosco, che aveva incontrato per caso settimane prima in cortile, ricordasse ancora il suo nome. Si fece coraggio e gli domandò: “Don Bosco, come ha fatto a ricordarsi del mio nome?
I miei figli io non li dimentico mai!“, egli rispose.

Ad un ragazzo che lasciava l’Oratorio di sua spontanea volontà, don Bosco, incontrandolo, gli chiese:
“Che cosa hai in mano?”.
“Cinque lire che mia mamma mi ha fatto avere per comprare il biglietto del treno”.
“Tua mamma ti ha pagato il biglietto per il viaggio dall’Oratorio a casa tua, e va bene. Adesso prendi queste altre cinque lire. Sono per il tuo biglietto di ritorno. In qualunque momento ne avessi bisogno, vieni a trovarmi!”.
L’attenzione è una forma di gentilezza, come la disattenzione è lo sgarbo più grande che si possa fare. A volte è una violenza implicita, soprattutto se si tratta di bambini: la negligenza è giustamente considerata un abuso quando arriva a una soglia insopportabile, ma in piccole dosi fa parte delle ordinarie ignominie che molti bambini sono costretti a subire. La disattenzione è gelo: ed è difficile crescere nel gelo, dove l’unica consolazione è magari una televisione piena di sogni violenti o consumistici. L’attenzione è calore e affetto, che permette alle potenzialità migliori di svilupparsi e fiorire.
«Ho anche bisogno che si venga a conoscere l’importanza dei Cooperatori Salesiani. Finora pare una cosa da poco; ma io spero che con questo mezzo una buona parte della popolazione italiana diventi salesiana e ci apra la via a moltissime cose. L’Opera dei Cooperatori Salesiani… si dilaterà in tutti i paesi, si diffonderà in tutta la Cristianità, verrà un tempo in cui il nome di cooperatore vorrà dire vero cristiano… già mi par di vedere non solo famiglie, ma città e paesi interi a farsi Cooperatori Salesiani».
Dal momento che le previsioni di don Bosco si sono avverate, in questo secolo preparatevi a vederne delle belle!

9) Così don Bosco predicava Dio
Quelli che scrivono di lui sbagliano clamorosamente quando tentano di trasformarlo in un pedagogista o anche un geniale innovatore sociale. Certo don Bosco si occupò di opere caritative come molti altri, e ancora di giustizia sociale. La sua forza eccezionale è riposta, però, nel fatto che in tutto ciò che faceva egli contava unicamente e completamente su Dio.
«È mirabile davvero, esclamò uno dei presenti, il modo con cui procedono le cose. Don Bosco incomincia, e non si dà mai indietro».
 «Per questo, riprese don Bosco, non diamo mai indietro, perché noi andiamo sempre avanti sul sicuro. Prima d’intraprendere una cosa ci accertiamo che è volontà di Dio che le cose si facciano. Noi incominciamo le opere nostre con la certezza che è Dio che le vuole. Avuta questa certezza, noi andiamo avanti. Parrà che mille difficoltà s’incontrino per via; non importa; Dio lo vuole, e noi stiamo intrepidi in faccia a qualunque ostacolo. Io confido illimitatamente nella Divina Provvidenza; ma anche la Provvidenza vuol essere aiutata da immensi sforzi nostri».
I suoi sforzi hanno sempre il colore dell’infinito.
Perfino Nietzsche afferma che la percezione della vita interiore delle persone è istintiva. I giovani poi hanno una naturale attitudine per l’osservazione di ciò che sta dietro l’esterno di una persona.  Hanno delle antenne speciali per captare i segnali che non sono osservabili con mezzi ordinari. Sono in grado di percepire ciò che per gli altri è nascosto. 
La nostra antenna spirituale ci rende sensibili alla bellezza morale nelle persone, istintivamente ci fa notare la dimensione morale e spirituale della loro vita. 
Nel 1864 don Bosco arriva a Mornese con i suoi ragazzi, durante le passeggiate autunnali. È già notte. La gente gli viene incontro preceduta dal parroco don Valle e dal sacerdote don Pestarino. La banda suona, molti s’inginocchiano al passaggio di don Bosco chiedendo che li benedica. I giovani e la gente entrano in chiesa, si da la benedizione con il Santissimo, quindi tutti a cena.
Dopo, incoraggiati dagli applausi, i ragazzi di don Bosco danno un breve concerto di marce e musica allegra. In prima fila c’è Maria Mazzarello, 27 anni. Al termine, don Bosco dice poche parole: «Siamo tutti stanchi, e i miei ragazzi hanno voglia di fare una bella dormita. Domani però ci parleremo più a lungo».
Don Bosco a Mornese si ferma cinque giorni. Maria Mazzarello ogni sera riesce ad ascoltare la «buona notte» che dà ai suoi giovani. Scavalca le panchette per arrivare più vicino a quell’uomo. Qualcuno la rimprovera di questo come di un gesto sconveniente. E lei risponde: «Don Bosco è un santo, io lo sento».

È molto di più di una semplice sensazione. A quante donne cambierà la vita? Basta un movimento, un semplice movimento di quelli che compiono i bambini quando si slanciano in avanti con tutte le loro forze, senza timore di cadere o di morire, dimentichi del peso del mondo.
È di nuovo un problema di specchio: nessuno più di Gesù Cristo ha rivolto il suo viso verso le donne, come si volge lo sguardo verso le fronde degli alberi, come ci si china sull’acqua di un fiume per attingervi forza e voglia di proseguire il cammino. Le donne nella Bibbia sono numerose. Sono là all’inizio e sono là alla fine. Esse danno la luce a Dio, lo guardano crescere, giocare e morire, poi lo risuscitano coi gesti semplici dell’amore folle.

C’è ancora chi si affanna intorno alle dimostrazioni dell’esistenza di Dio. La più perfetta dimostrazione di Dio non è difficile.
Il bambino chiese alla mamma: «Secondo te, Dio esiste?».
«Sì».
 «Com’è?».
La donna attirò il figlio a sé.
Lo abbracciò forte e disse: «Dio è così».
«Ho capito».
Don Paolo Albera: «Don Bosco educava amando, attirando, conquistando e trasformando. […] Ci avvolgeva tutti e interamente quasi in un’atmosfera di contentezza e di felicità, da cui erano bandite pene, tristezze, malinconie… Tutto in lui aveva per noi una potente attrazione: il suo sguardo penetrante e talora più efficace d’una predica; il semplice muover del capo; il sorriso che gli fioriva perenne sulle labbra, sempre nuovo e variatissimo, e pur sempre calmo; la flessione della bocca, come quando si vuoi parlare senza pronunziar le parole; le parole stesse cadenzate in un modo piuttosto che in un altro; il portamento della persona e la sua andatura snella e spigliata: tutte queste cose operavano sui nostri cuori giovanili a mo’ di una calamita a cui non era possibile sottrarsi; e anche se l’avessimo potuto, non l’avremmo fatto per tutto l’oro del mondo, tanto si era felici di questo suo singolarissimo ascendente sopra di noi, che in lui era la cosa più naturale, senza studio né sforzo alcuno».

Sempre presente e vivo. Dio come compagnia, aria che si respira. Dio come l’acqua per i pesci. Dio come il nido caldo di un cuore che ama. Dio come il profumo della vita. Dio è ciò che sanno i bambini, non gli adulti.

Adesso andiamo a cambiare il mondo (Willy Wonka)




Le profezie di don Bosco e i re d’Italia

“La famiglia di chi ruba a Dio non giunge alla quarta generazione”.

            È morto pochi giorni fa il pretendente al trono d’Italia, Vittorio Emanuele di Savoia (n. 12.02.1937 – † 03.02.2024), il quinto discendente del primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II di Savoia. È stata concessa la sepoltura nella cripta della Basilica di Superga, Torino, dove si trovano altre decine di resti mortali della Casa di Savoia. Questo evento ci fa ricordare altri sogni di don Bosco che si sono avverati pienamente.

            Nel novembre 1854, si stava preparando una legge sulla confisca dei beni ecclesiastici e sulla soppressione dei conventi. Per la validità, doveva essere sancita dal Re d’Italia, Vittorio Emanuele II di Savoia. Alla fine di questo mese di novembre, don Bosco ebbe due sogni che erano delle vere profezie riguardanti il re e la sua famiglia. Ricordiamo con don Lemoyne i fatti.

            Don Bosco adunque anelava a dissipare una minacciosa nube che andava sempre più oscurandosi sulla Real Casa.
            Egli in una notte verso il fine del mese di novembre, aveva fatto un sogno. Gli era parso di trovarsi ove è il portico centrale dell’Oratorio, costrutto allora solo per metà, presso alla pompa idraulica fissa al muro della casetta Pinardi. Era circondato da preti e da chierici: ad un tratto vide avanzarsi in mezzo al cortile un valletto di Corte, col suo rosso uniforme, il quale, con passo affrettato venuto alla sua presenza, gli parve che gridasse:
            – Grande notizia!
             – E quale? gli chiese D. Bosco.
             – Annunzia: gran funerale in Corte! gran funerale in Corte!
            Don Bosco a questa improvvisa comparsa, a questo grido, restò come di sasso, e il valletto ripetè: – Gran funerale in Corte! – Don Bosco allora voleva domandargli spiegazione di questo suo ferale annunzio, ma quegli erasi dileguato. D. Bosco, risvegliatosi, era come fuori di sè e, inteso il mistero di quell’apparizione, prese la penna e preparò subito una lettera per Vittorio Emanuele, palesando quanto gli era stato annunziato, e raccontando semplicemente il sogno.
[…]
…era di conoscere ciò che Don Bosco aveva scritto al Re, tanto più che sapevano cosa egli pensasse intorno all’usurpazione dei beni ecclesiastici. Don Bosco non li tenne in indugio e loro palesò quanto aveva scritto pel Re, perché non permettesse la presentazione dell’infausta legge. Quindi narrò il sogno, concludendo: Questo sogno mi ha fatto star male e mi ha affaticato, molto. – Egli era sopra pensiero ed esclamava a quando, a quando: – Chi sa?… chi sa?… preghiamo!
            Sorpresi i chierici presero allora a discorrere, interrogandosi a vicenda se avessero sentito a dire che nel palazzo reale vi fosse qualche nobile signore infermo; ma tutti conchiusero, non constare in nessun modo questo. Don Bosco intanto, chiamato presso di sè il Ch. Angelo Savio, gli consegnò la lettera: – Copia, gli disse, ed annunzia al Re: Grande funerale in Corte! – E il Ch. Savio scrisse. Ma il Re, come Don Bosco venne a sapere dai suoi confidenti impiegati a palazzo, lesse con indifferenza quel foglio e non ne tenne conto.
            Erano passati cinque giorni da questo sogno, e Don Bosco, dormendo, nella notte, sognò di bel nuovo. Gli pareva di essere in sua camera a tavolino, scrivendo; quando udì lo scalpitare di un cavallo in cortile. Ad un tratto vede spalancarsi la porta ed apparire il valletto nella sua rossa livrea, che entrato fino a metà della camera gridò:
            Annunzia: non grande funerale in Corte, ma grandi funerali in Corte! -E ripetè queste parole due volte. Quindi ritirossi con passo rapido e chiuse la porta dietro di sè. Don Bosco voleva sapere, voleva interrogarlo, voleva chiedergli, spiegazione; quindi si alzò da, tavolino, corse sul balcone e vide il: valletto nel cortile che saliva a cavallo. Lo, chiamò, chiese perchè fosse venuto a ripetergli quell’annunzio; ma il valletto gridando: – Grandi funerali in Corte! – si dileguò. Venuta l’alba, Don Bosco stesso indirizzò al Re un’altra lettera, nella quale raccontavagli il secondo sogno e concludeva dicendo a sua Maestà “che pensasse a regolarsi in modo da schivare i minacciati castighi, mentre la pregava di impedire a qualunque costo quella legge”.
Alla sera dopo cena Don Bosco esclamò in mezzo a’ suoi chierici: – Sapete che ho da dirvi una cosa ancor più strana, che quella dell’altro giorno? – E raccontò ciò che aveva visto nella notte. Allora i chierici, più stupiti di prima, si domandavano che cosa indicassero questi annunzi di morte; e si può immaginare quale fosse la loro ansietà nell’attendere come si sarebbero verificate queste predizioni.
            Al chierico Cagliero e ad alcuni altri svelava intanto apertamente essere, quelle, minacce di castighi che il Signore faceva sentire a chi più danni e mali già aveva arrecati alla Chiesa ed altri stava preparandone. In quei giorni egli era addoloratissimo e ripeteva frequentemente: – Questa legge attirerà sulla casa del Sovrano gravi disgrazie. – Tali cose diceva a’ suoi alunni per impegnarli a pregare per il Re, e per intercedere dalla misericordia del Signore che impedisse la dispersione eli tanti religiosi e la perdita di tante vocazioni.
            Intanto il Re aveva confidate quelle lettere al Marchese Fassati, che avendole lette, venne all’Oratorio e diceva a D. Bosco: – Oh! le pare la maniera questa di mettere sossopra tutta la Corte? Il Re ne è rimasto più che impressionato e turbato!… Anzi montò sulle furie.
            E Don Bosco gli rispose – Ma se ciò che fu scritto è verità? Mi rincresce di aver cagionato questi disturbi al mio Sovrano; ma insomma, si tratta del suo bene e di quello della Chiesa.
            Gli avvisi di Don Bosco non furono ascoltati. Il 28 novembre 1854 il Ministro guardasigilli Urbano Rattazzi presenta va ai deputati un disegno di legge per la soppressione dei conventi. Il Conte Camillo di Cavour, Ministro delle finanze, era risoluto di farlo approvare a qualunque costo. Questi signori stabilivano come principio incontrastato e incontrastabile, che fuori del gran corpo civile, non v’ha e non può darsi società a lui superiore e da lui indipendente; che lo Stato è tutto, e che perciò nessun ente morale, e neppure la Chiesa Cattolica può sussistere giuridicamente senza il consenso e riconoscimento dell’autorità civile. Perciò tale autorità non riconoscendo nella Chiesa universale il dominio dei beni ecclesiastici, e attribuendo questo dominio a ciascun ente delle corporazioni religiose, sostenevano essere queste creazione della sovranità, civile e la loro esistenza modificarsi od estinguersi per volontà della sovranità medesima, e lo Stato, erede d’ogni personalità civile che non abbia successioni, divenire solo ed assoluto proprietario di tutti i loro beni quando fossero soppresse. Errore grossolano perchè tali patrimonii, per qualsivoglia causa una Congregazione Religiosa cessasse d’esistere, non rimanevano senza padroni, dovendo essere devoluti alla Chiesa di G. C., rappresentata dal Sommo Pontefice, per quanto gli statolatri perfidiassero a negarlo (MB V, 176-180).

            Che fossero ammonimenti che venivano dal Cielo, lo conferma anche la lettera scritta quattro anni prima, il 9 aprile 1850, che la madre de Re, Regina Madre Maria Teresa, vedova di Carlo Alberto, aveva indirizzato a suo figlio, il Re Vittorio Emanuele II di Savoia.

Iddio te ne compenserà, ti benedirà, ed invece chi sa quanti castighi, quanti flagelli di Dio ci attirerà per te, la famiglia ed il paese se la sanzioni [la legge Siccardi sull’abolizione del foro ecclesiastico]. Pensa qual sarebbe il tuo dolore se il Signore facesse ammalare gravemente od anche se si prendesse la tua cara Adele che tu con santa ragione tanto ami, o la tua Chichina (Clotilde’) oil tuo Betto (Umberto); e se potessi vedere dentro il mio cuore, quanto sono addolorata, angustiata, spaventata dal timore che tu sanzioni subito questa legge per le tante disgrazie, che son certa che ci porterà se sarà fatta senza il consentimento del Santo Padre, forse il tuo cuore che è proprio buono e sensibile, e che ha sempre tanto amato la sua povera Mammina si lascerebbe intenerire. (Antonio Monti, Nuova Antologia, 1° gennaio 1936, pag. 65; MB XVII, 898).

            Però il re non fece caso a questi avvertimenti e le conseguenze non tardarono. Le trattative per l’approvazione continuarono e anche le profezie si compirono:
            – il 12 gennaio 1855 morì Maria Teresa, Regina madre, a 53 anni;
            – il 20 gennaio 1855 morì la Regina Maria Adelaide, a 33 anni;
            – l’11 febbraio 1855 morì il Principe Ferdinando, fratello del Re, a 32 anni;
            – il 17 maggio 1855 morì il figlio del re, il principe Vittorio Emanuele Leopoldo Maria Eugenio, di appena 4 mesi.

            Don Bosco continuo ad avvertire, pubblicando la carta di fondazione di Altacomba (Hautecombe) con l’esposizione di tutte le maledizioni comminate a chi osasse distruggere od usurpare i beni dell’Abbazia d’Altacomba, inserite in quel documento proprio dagli antichi Duchi di Savoia per proteggere quel luogo, dove sono inumate decine di illustri antenati della casa Savoia.
E continuò anche pubblicando nel mese di aprile 1855, nelle «Letture Cattoliche» un opuscolo scritto dal Barone Nilinse intitolato: I beni della chiesa, come si rubino e quali siano le conseguenze; con breve appendice sulle vicende del Piemonte. Sul frontispizio stava scritto: Come! Per nessun diritto si può violare la casa di un privato, e tu hai ardimento di mettere la mano sopra la casa del Signore! S. Ambrogio. In quello scritto si dimostrava che non solo gli spogliatori della Chiesa e degli Ordini Religiosi, ma eziandio le loro famiglie ne andarono colpite quasi sempre, avverandosi il terribile detto: La famiglia di chi ruba a Dio non giunge alla quarta generazione! (MB V, 233-234).

            Il 29 maggio Vittorio Emanuele II firmò lui stesso la legge Rattazzi, con la quale si confiscavano i beni ecclesiastici e si sopprimevano le corporazioni religiose, senza tener conto di quanto predetto da don Bosco e dei lutti che avevano colpito la sua famiglia dal mese di gennaio… non sapendo che così firmava anche il destino della famiglia reale.

            Infatti, anche qui la profezia si avverò, come vediamo.
            – il re Vittorio Emanuele II di Savoia (n. 14.03.1820 – † 09.01.1878), regnante dal 17.03.1861 al 09.01.1878, morì a soli 58 anni di età;
            – il re Umberto I (n. 14.03.1844 – † 29.07.1900), figlio del re Vittorio Emanuele II di Savoia, regnante dal 10.01.1878 al 29.07.1900, fu ucciso a Monza a 56 anni;
            – il re Vittorio Emanuele III (n. 11.11.1869 – † 28.12.1947), nipote del re Vittorio Emanuele II di Savoia, regnante dal 30.07.1900 al 09.05.1946, fu costretto ad abdicare il 9 maggio 1946 e morì un anno dopo.
            – il re Umberto II (n. 15.09.1904 – † 18.03.1983) ultimo Re d’Italia, regnante dal 10.05.1946 al 18.06.1946, pronipote di Vittorio Emanuele II (la quarta generazione), dovette abdicare dopo soli 35 giorni di regno, a seguito del Referendum istituzionale del 2 giugno dello stesso anno. Morì il 18 marzo 1983 a Ginevra e fu sepolto nell’Abbazia di Altacomba…

            Alcuni interpretano questi avvenimenti come semplici coincidenze, perché non possono negare i fatti, ma chi conosce l’agire di Dio, sa che nella sua misericordia avverte sempre in un modo o in un altro delle gravi conseguenze che possono avere certe decisioni di grande importanza, che influiscono sul destino del mondo e della Chiesa.
            Ricordiamo solo il fine della vita del più saggio uomo della terra, il re Salomone.

Quando Salomone fu vecchio, le sue donne l’attirarono verso dei stranieri e il suo cuore non restò più tutto con il Signore suo Dio come il cuore di Davide suo padre.
Salomone seguì Astàrte, dea di quelli di Sidòne, e Milcom, obbrobrio degli Ammoniti.
Salomone commise quanto è male agli occhi del Signore e non fu fedele al Signore come lo era stato Davide suo padre.
Salomone costruì un’altura in onore di Camos, obbrobrio dei Moabiti, sul monte che è di fronte a Gerusalemme, e anche in onore di Milcom, obbrobrio degli Ammoniti.
Allo stesso modo fece per tutte le sue donne straniere, che offrivano incenso e sacrifici ai loro dei.
Il Signore, perciò, si sdegnò con Salomone, perché aveva distolto il cuore dal Signore Dio d’Israele, che gli era apparso due volte e gli aveva comandato di non seguire altri dei, ma Salomone non osservò quanto gli aveva comandato il Signore.
Allora disse a Salomone: “Poiché ti sei comportato così e non hai osservato la mia alleanza né i decreti che ti avevo impartiti, ti strapperò via il regno e lo consegnerò a un tuo suddito. (1Re 11,4-11).

            Basta leggere con attenzione la storia, sia sacra che profana…




Alberto Marvelli, il cristiano che piaceva anche ai comunisti

Alberto Marvelli (1918-1946), un giovane formato nell’oratorio salesiano di Rimini, ha vissuto la sua breve vita nell’impegno quotidiano di servizio per gli altri, con tutta l’intensità che le permettevano le forze. La sua vita normale ma intensamente cristiana lo ha portato alla santità, essendo beatificato nel 2004 dal papa san Giovanni Paolo II.

Alberto Marvelli, «ingegnere della carità», ha il fascino di una santità straordinariamente normale. Alberto ha un papà direttore di banca e una famiglia cristianissima. È nato a Ferrara nel 1918, ma a 13 anni con la sua famiglia si stabilisce definitivamente a Rimini, seguendo papà nei suoi spostamenti di lavoro. È un ragazzo di salute robusta e di temperamento impetuoso, ma è anche così serio che a tratti fa pensare a un uomo adulto. Il ginnasio lo supera tra tirate di studio e gare sportive clamorose. A 15 anni si iscrive al liceo classico. Ma proprio in quei mesi la famiglia è colpita duramente dalla morte di papà. Lui è già delegato aspiranti e animatore dell’oratorio nella parrocchia Maria Ausiliatrice. Insegna catechismo, anima le adunanze, organizza la messa dei giovani. A soli 18 anni diventerà presidente dell’Azione Cattolica.
Iniziando il liceo, Alberto comincia il suo Diario e scrive: «Dio è grande, infinitamente grande, infinitamente buono». Ma vi registrerà per tutta la vita la sua crescita di uomo e di cristiano. Vi leggiamo un «piccolo schema» rigido e forte che egli si dà. Si propone in particolare: preghiera e meditazione al mattino e alla sera, l’incontro con l’eucaristia, possibilmente anche tutti i giorni, la lotta contro i difetti più grossi: la pigrizia, la gola, l’impazienza, la curiosità… Un programma che Alberto attuerà per tutta la vita.

Studente pendolare
Tra i 60 candidati alla maturità classica Alberto si classifica secondo. Il 1° dicembre 1936 (a 18 anni) inizia il primo anno di ingegneria all’Università di Bologna. Comincia così la vita dello studente pendolare tra Rimini e Bologna. Studio e apostolato in entrambe le città. La donna di servizio della zia che lo ospita a Bologna testimonierà con le parole dei semplici: «Lo vedevo di giorno e di notte ammazzato di lavoro per l’università e l’apostolato. Qualche volta lo trovavo addormentato sui libri e con la corona in mano. Al mattino lo vedevo in chiesa alle 6 per messa e comunione. Se gli impegni non gli consentivano di comunicarsi prima, stava digiuno fino a mezzogiorno. Imponeva una formidabile penitenza al suo appetito».
Mentre Alberto sta terminando l’università, sull’Europa scoppia il ciclone della seconda guerra mondiale. Anche l’Italia vi è coinvolta. Laureando in ingegneria, dall’agosto al novembre 1940 Alberto è a Milano, impiegato nella fonderia Bagnagatti, sotto i primi bombardamenti. L’industriale testimonierà: «Trascorse presso di me alcuni mesi. Familiarizzò subito con tutti i dipendenti e particolarmente con i più giovani e i più umili. S’interessò dei bisogni familiari degli operai e mi prospettò le particolari necessità di ognuno, sollecitando gli aiuti che riteneva opportuni. Visitava gli ammalati, incitava gli apprendisti a frequentare le scuole serali. Infondeva in tutti un immediato e vivo senso di simpatia e cordialità».
30 giugno 1941. Mentre l’Italia inizia il suo secondo anno di guerra, Alberto si laurea in ingegneria industriale con il massimo dei voti. Subito dopo indossa pure lui la divisa grigioverde e parte per fare il soldato.

Il servizio militare e la guerra
Nel rigidissimo gennaio 1943 i russi scatenano l’offensiva su tutto il fronte ovest. L’Armir (armata italiana in Russia), che occupa il fronte sul Don, è costretta a una leggendaria ritirata sugli sconfinati campi ghiacciati, mentre i russi e il gelo uccidono. Lassù è appena arrivato Raffaello Marvelli, ed è ucciso in combattimento. Per mamma Maria è un’ora durissima. Alberto scrive sul Diario parole scarne, sanguinanti: «La guerra è un castigo per la nostra cattiveria, per punire il nostro poco amore a Dio e agli uomini. Manca lo spirito di carità nel mondo, e perciò ci odiamo come nemici invece di amarci come fratelli».
È destinato a una caserma di Treviso. Ed è qui che si compie il «miracolo» di Marvelli. Don Zanotto, parroco di S. Maria di Piave, ha scritto: «Quando l’ingegner Marvelli arrivò a Treviso, nella caserma di duemila soldati, tutti bestemmiavano e la malavita imperava. Dopo qualche tempo nessuno più bestemmiava, dico proprio nessuno, nemmeno i superiori. Il colonnello, da bestemmiatore, si diede a reprimere lui stesso, nei soldati, la bestemmia». In settembre l’Italia si ritira dalla guerra. L’esercito si sfascia. Alberto è a casa. Ma la guerra non è finita. I soldati tedeschi hanno occupato l’Italia, e gli alleati intensificano i bombardamenti sulle nostre città.

Tra i rifugiati a San Marino
Il 1° novembre Rimini è investita dal primo bombardamento aereo. Ne subirà trecento e sarà ridotta a un tappeto di macerie. Occorre fuggire lontano, nella libera Repubblica di San Marino. In poche settimane, quel francobollo di terra libera passa da 14 mila a 120 mila abitanti.
Alberto vi arriva reggendo la cavezza di un asino. Sul calesse è la mamma. Giorgio e Geltrude spingono biciclette cariche di cibo con cui sopravvivere. Vengono accettati in uno dei cameroni del collegio Belluzzi. Altre famiglie sono nei magazzini della Repubblica, moltissime altre si ammucchiano nelle gallerie ferroviarie.
È facilissimo, in momenti come questi, chiudersi in sé stessi, pensare alla sopravvivenza dei propri cari e basta. Alberto è invece al centro dell’assistenza, a disposizione di tutti. Scrive una testimone: «A sera recitava forte il rosario nei cameroni del collegio Belluzzi, poi andava a dormire alla meglio presso i conventuali; e al mattino, nella chiesa zeppa di sfollati, serviva la messa e si comunicava. Poi via di nuovo per tutte le vie e per andare incontro a tutti i bisognosi. Prendeva nota delle necessità, e quando non poteva arrivare, affidava ad altri il lavoro. C’era da andare nelle gallerie da dove la gente non osava uscire». Aggiunge Domenico Mondrone: «Ogni giorno faceva chilometri di strada in bicicletta, raccogliendo roba da mangiare. Talvolta tornò a casa con il tascapane forato dalle schegge di granate che scoppiavano da ogni parte. Ma lui, con gli amici che ne emulavano il coraggio, non si arrestava».

Lo volevano sindaco
21 novembre 1944. Gli alleati entrano in Rimini. Tutto intorno sono paesi e boschi che bruciano, ingorghi di carri, camion, macchine. Morti e desolazione. Alberto vi torna con la famiglia. Trova la sua casa (colpita, ma ancora abitabile) occupata da ufficiali inglesi. I Marvelli si sistemano alla meglio nello scantinato. In quel terribile inverno (l’ultimo di guerra) Alberto diventa servo di tutti. Il Comitato di Liberazione lo incarica dell’ufficio alloggi, il comune gli affida il genio civile per la ricostruzione, il vescovo gli consegna i «Laureati cattolici» della diocesi. I poveri assediano in permanenza le due stanzucce del suo ufficio, lo seguono a casa quando va a mangiare un boccone con sua madre. Alberto non ne allontana mai neppure uno. Dice: «I poveri passino subito, gli altri abbiano la cortesia di aspettare». Dopo la pace, la miseria della gente continua. Nella guerra molti hanno perso tutto.
L’anno 1946 è mangiato giorno per giorno da infinite necessità, tutte urgenti. Alberto va a messa, poi è a disposizione. Alla fine di quell’anno ci sono le prime elezioni amministrative. Battaglie roventi tra comunisti e democratici cristiani. Un comunista, che vede ogni giorno in Marvelli non un democristiano ma un cristiano, dice: «Anche se perde il mio partito… purché risulti sindaco l’ingegnere Marvelli». Non lo diventerà. La sera del 5 ottobre cena in fretta accanto alla mamma, poi esce in bicicletta per tenere un comizio a San Giuliano a Mare. A 200 metri da casa sua, un camion alleato correndo a velocità pazzesca lo investe, lo scaglia nel giardino di una villa e scompare nella notte. Viene raccolto dal filobus. Due ore dopo muore. Ha 28 anni. Quando la sua bara passa per le strade, i poveri piangono e mandano baci. Un manifesto proclama a caratteri cubitali: «I comunisti di Bellariva si inchinano riverenti a salutare il figlio, il fratello, che ha sparso su questa terra tanto bene».

don Mario PERTILE, sdb




“Voglio essere utile al mio popolo”. Lezioni di vita in Africa missionaria

Nel 1995, 28 anni fa, ho lasciato la mia amata Argentina per l’Africa missionaria con lo stesso ideale di Zeffirino Namuncurà: diventare salesiano e sacerdote “utile al mio popolo” nella mia amata Africa.
Ed eccomi qui, seduto sotto un nobile e centenario albero africano, con 36 gradi di temperatura e il 70% di umidità, a riflettere sulla mia vita missionaria. Da qui contemplo la bellissima foresta pluviale dipinta in mille sfumature di verde infinito, traboccante di vita, piena di misteri e di mille domande in attesa di risposta. Un vero e proprio murales multicolore come la mia vita missionaria: tratteggiata in mille colori, dipinta con sfumature e toni diversi, benedetta da sfide e ricompense, da progetti e sogni, da pennellate di luce per sfumare i toni più scuri e difficili della missione.

I primi passi
I miei primi passi in Africa sono stati passi di scoperta e di riverenza. Mi sono detto: “L’Africa è ricca!” e, come un adolescente, me ne sono innamorato a prima vista… Mi sono innamorato della molteplicità dei suoi paesaggi e della sua esuberante geografia, della sua fauna e della sua flora, dei suoi mari e delle sue giungle, delle sue immense savane e dei suoi deserti. È ricca di risorse naturali: oro, diamanti, petrolio, uranio, legname, agricoltura e pesca. Ho capito subito che l’Africa non è povera, ma è gestita molto male. Mi sono innamorato delle sue culture, delle lingue, dei colori, degli odori e dei sapori. Sono stato catturato dai loro ritmi, dalla musica, dalla vibrazione dei timpani, dal suono dei loro strumenti musicali, dalle loro canzoni e dalle loro danze piene di vita. E soprattutto mi sono innamorato della sua gente e dei suoi giovani, perché questa è certamente la sua più grande ricchezza: i suoi bambini, i suoi giovani che rappresentano il presente e il futuro del continente della speranza.

Tentazione missionaria
Quando si è giovani, inesperti, e si arriva in terra di missione con mille aspettative e il cuore pieno di sogni, la prima tentazione è quella di pensare che si viene per “salvare”, che si è un “inviato”, chiamato a “cambiare il mondo”, a “trasformare”, a “insegnare”, a “evangelizzare”, a “guarire”. È lì che la vostra terra promessa vi insegna il valore dell’umiltà. E il tuo popolo ti insegna che, per essere missionario, devi farti piccolo come un bambino, devi nascere di nuovo: devi imparare a parlare nuove lingue, a capire nuovi e diversi costumi, a cambiare stili di vita, modi di pensare e di sentire. In missione si impara a tacere, a ricevere correzioni, ad accettare umiliazioni e a subire shock culturali. Il vero missionario disimpara per imparare di nuovo, fino ad arrivare alla scoperta più bella: è la tua gente, la tua gente che ti “educa”, ti “evangelizza”, ti “trasforma”, ti “guarisce”. Diventano il tuo “Kairos”, il tuo “tempo di Dio”, sono il “luogo teologico” in cui Dio si manifesta a te e finalmente ti “salva”.

Lezioni africane
Dall’emisfero meridionale, l’Africa ha molto da insegnare all’Occidente e al Nord, cristiani e “sviluppati”. Ecco alcune lezioni che ho imparato in Africa.

La prima lezione è “Ubuntu”: “Io sono, perché noi siamo”
Gli africani amano la famiglia, la comunità, lavorare e festeggiare insieme. Sono profondamente generosi e premurosi, sempre pronti a dare una mano a chiunque ne abbia bisogno. Sanno che l’individualista muore nell’isolamento. La saggezza africana lo conferma: “Se cammini da solo, vai più veloce, ma se cammini in gruppo, vai più lontano”. “Ci vogliono tre pietre per tenere la pentola sul fuoco”. “L’albero che è solo appassisce; l’albero che è nella foresta vive”. “Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”. E sulla stessa linea: “Ci vuole un intero villaggio per uccidere un cane rabbioso”. “Se due elefanti combattono, è l’erba a perdere”. La vita fraterna e la comunità mantengono in vita la famiglia, il clan e la tribù.

Il secondo è il rispetto per la vita e per gli anziani
Un figlio o una figlia sono sempre una benedizione del cielo, una gioia per tutta la famiglia, e mani per lavorare la terra e per il raccolto. La vita è un dono di Dio. Per questo si dice “dove c’è vita, c’è speranza” e “proteggendo il seme si protegge il raccolto”. E poiché l’aspettativa di vita è bassa, gli anziani sono apprezzati, amati e “curati”. Qui non ci sono case di cura o case di riposo. I nonni sono il patrimonio del villaggio. I bambini si siedono intorno agli anziani per ascoltare le storie ancestrali e la saggezza degli antenati. Ecco perché qui diciamo che “quando muore un anziano, è come se bruciasse una biblioteca” e “se dimentichi gli anziani, dimentichi la tua ombra”.

Il terzo riguarda la sofferenza e la resilienza
La saggezza africana dice che “il dolore è un ospite silenzioso” e afferma che “attraverso la sofferenza si acquisisce saggezza”. Ecco perché si dice che “la pazienza è la medicina per ogni dolore”. Trasformano gli ostacoli in opportunità. Non hanno paura del sacrificio o della morte. Per loro, perdere un raccolto, un bene materiale, una persona cara, è un’opportunità per ricominciare, per creare qualcosa di nuovo. Sanno che non si ottiene nulla senza sforzo e sacrificio; che l’unico modo per avere successo è entrare dalla porta stretta e benedicono Dio che dà e toglie allo stesso tempo.

Una quarta lezione riguarda la spiritualità e la preghiera
Gli africani sono “spirituali” per natura. Sono disposti a dare la vita per ciò in cui credono. Dio è onnipresente nella loro vita, nella loro storia, nei loro discorsi, nelle loro celebrazioni. Ogni attività inizia con una preghiera e finisce con una preghiera. Ecco perché i loro proverbi dicono: “Quando preghi, muovi i piedi”, “non guardare a Dio solo quando sei nei guai” e “dove c’è preghiera, c’è speranza”. Se non si prega, la vita diventa insipida e sterile. Pregano come se “tutto dipendesse da Dio, sapendo che alla fine tutto dipende da loro”, come direbbe un grande santo africano.

Nella mia vita missionaria, io sono missione
In tre decenni abbiamo costruito scuole e centri di formazione professionale, edificato chiese e santuari, cappelle e centri comunitari, fatto interventi di emergenza durante le guerre civili in Sierra Leone e Liberia, aperto case per i bambini soldato, aiutato gli orfani dell’Ebola, fornito assistenza ai bambini di strada o alle ragazze che si prostituiscono. Ma queste attività non si identificano con la missione. I frutti dell’attività missionaria si misurano in termini di trasformazione della vita. E in questo senso confesso di aver visto miracoli: ho visto bambini soldato ricostruire la loro vita, ho visto bambini di strada diventare avvocati all’università, li ho visti sorridere di nuovo e tornare a scuola, ho visto ragazze in prostituzione tornare dalle loro famiglie, imparare un mestiere e ricominciare.

Come dice papa Francesco, “non abbiamo una missione, o facciamo missione”. Noi siamo missione. Io sono la missione. La mia missione è essere il “sacramento dell’amore di Dio” per i più vulnerabili. Cioè, che loro, attraverso le mie mani, i miei occhi, le mie orecchie, le mie gambe, il mio cuore, possano sperimentare che Dio li ama follemente, che dà loro la vita, attraverso la mia vita donata a loro. Questo è ciò che significa per me essere missionario salesiano. Per questo sono missione quando mi inginocchio davanti all’Eucaristia chiedendo la loro salvezza; sono missione quando sono in cortile o in casa ad accompagnare i bambini, sono missione quando viaggio per raggiungere le zone più lontane e pericolose, sono missione quando celebro l’Eucaristia, ascolto le confessioni o battezzo. Sono missione quando mi siedo a leggere o a studiare pensando a loro. Sono in missione quando metto insieme un piano strategico con i miei fratelli e sorelle o scrivo un progetto per migliorare la qualità della vita della mia gente. Sono in missione quando costruisco una scuola o una cappella. Sono missione quando condivido la mia vita con voi che state leggendo.

Tutti siamo missionari per vocazione
Cari amici, con il battesimo siamo tutti chiamati a essere missionari, a essere missione. Non dobbiamo andare in Africa per essere missionari. La chiamata missionaria è una chiamata interiore a lasciare tutto, a dare tutto dove Dio ci ha piantato. Non per dare cose, ma per “darsi”, per “condividere” il mio tempo, i miei talenti, la mia fede, la mia professionalità, il mio amore, il mio servizio con i più vulnerabili. Se sentite questa chiamata, non rimandate. La carità di Cristo e l’urgenza del Regno vi chiamano.

don Jorge Mario CRISAFULLI, sdb, ispettore Africa Niger Niger




Essere amabili come don Bosco (1/2)

Essere amabili è una qualità umana che si coltiva, accettando la fatica che tante volte comporta. Per don Bosco non era una finalità a sé stessa, ma una via per condurre le anime a Dio. Intervento alla 42° edizione delle Giornate di Spiritualità Salesiana a Valdocco, Torino.

Tutte le cose belle di questo mondo sono incominciate da un sogno (Willy Wonka).
Non mollare il tuo (La mamma di Willy Wonka).

Uno scultore stava lavorando alacremente col suo martello e il suo scalpello su un grande blocco di marmo. Un ragazzino, che passeggiava leccando il gelato, si fermò davanti alla porta spalancata del laboratorio.
Il ragazzino fissò affascinato la pioggia di polvere bianca, di schegge di pietra piccole e grandi che ricadevano a destra e a sinistra.
Non aveva idea di ciò che stava accadendo; quell’uomo che picchiava come un forsennato la grande pietra gli sembrava un po’ strano.
Qualche settimana dopo, il ragazzino ripassò davanti allo studio e con sua grande sorpresa vide un grande e possente leone nel posto dove prima c’era il blocco di marmo.
Tutto eccitato, il bambino corse dallo scultore e gli disse: «Signore, dimmi, come hai fatto a sapere che c’era un leone nella pietra?».

Il sogno di don Bosco è lo scalpello di Dio.
Il semplice e singolare consiglio della Madonna nel sogno dei nove anni «Renditi umile, forte e robusto» divenne la struttura di una personalità unica e affascinante. E soprattutto uno “stile” che possiamo definire “salesiano”.

Tutti amavano don Bosco. Perché? Era attraente, leader nato, una vera calamita umana. Per tutta la vita sarà sempre un “conquistatore” di amici affezionati.
Giovanni Giacomelli che gli rimase amico per la vita ricorda: «Entrato in seminario un mese dopo gli altri, non conoscevo quasi nessuno, e nei primi giorni ero come sperso in mezzo ad una solitudine. Fu il chierico Bosco, che si avanzò a me la prima volta che mi vide solo, dopo il pranzo, e mi tenne compagnia tutto il tempo di ricreazione, raccontandomi varie cose graziose, per divagarmi dai pensieri che potessi avere di casa o dei parenti lasciati. Discorrendo con lui, venni a sapere che durante le vacanze era stato alquanto ammalato. Egli poi mi usò molte gentilezze. Tra le altre mi ricordo che, avendo io una berretta sproporzionatamente alta per cui vari compagni mi prendevano in giro, e ciò rincrescendo a me e a Bosco che veniva sovente con me, me la aggiustò egli stesso, avendo seco l’occorrente ed essendo molto abile nel cucire. D’allora in poi incominciai ad ammirare la bontà del suo cuore. La sua compagnia era edificante».
Possiamo rubare qualcuna delle sue qualità per diventare anche noi “amabili”?

1) Essere una forza positiva
Qualcuno che mantiene costantemente un atteggiamento positivo ci aiuta a vedere il lato positivo e ci spinge ad andare avanti.
«Quando Don Bosco visitò per la prima volta la misera tettoia, che doveva servire pel suo oratorio, dovette far attenzione per non rompersi la testa, perché da un lato non aveva che più di un metro di altezza; per pavimento aveva il nudo terreno, e quando pioveva l’acqua penetrava da tutte le parti. Don Bosco sentì correre tra i piedi grossi topi, e sul capo svolazzare pipistrelli». Ma per don Bosco era il più bel posto del mondo. E partì di corsa: «Corsi tosto da’ miei giovani; li raccolsi intorno a me e ad alta voce mi posi a gridare: “Coraggio, miei figli, abbiamo un Oratorio più stabile del passato; avremo chiesa, sacristia, camere per le scuole, sito per la ricreazione. Domenica, domenica andremo nel novello Oratorio che è colà in casa Pinardi. E loro additava il luogo”.

La gioia.
La gioia, uno stato d’animo positivo e felice, era la normalità della vita di don Bosco.
Più che mai vera per lui è l’espressione «La mia vocazione è un’altra. La mia vocazione è di essere felice nella felicità degli altri».
Davanti all’amore non vi è nessun adulto, solo dei bambini, questo spirito infantile che è abbandono, spensieratezza, libertà interiore.

«Passava da un punto all’altro del cortile, sempre riportando il vanto di abile giocatore, cosa che richiedeva sacrificio e fatica continua. “Innamorava il vederlo in mezzo a noi, diceva uno di questi allievi, ora già in età avanzata. Alcuni di noi erano senza, giubba, altri l’avevano, ma tutta a brandelli; questi a stento teneva ai fianchi i calzoni, quell’altro non aveva cappello, o le dita dei piedi sì affacciavano dalle scarpe rotte. Si era scarmigliati, talora sudici, screanzati, importuni, capricciosi, ed egli trovava le sue delizie stare coi più miserabili. Pei più piccini, aveva poi un affetto da madre. Talora due fanciulli per questioni di giuoco si ingiuriavano e si percuotevano. Don Bosco tosto si faceva presso di loro invitandoli a smettere. Accecati dalla rabbia alcuna volta non gli badavano, ed egli allora alzava la mano come in atto di percuoterli; ma ad un tratto si fermava, prendendoli per un braccio li divideva, e tosto quei birichini cessavano come per incanto da ogni alterco”.
Sovente schierava in due campi opposti i giovani per la barrarotta, e facendosi egli stesso capo di una parte, si incamminava un giuoco così animato che, parte giocatori e parte spettatori, tutti i giovani si infiammavano per quelle partite. Da un lato si voleva la gloria di vincere don Bosco, dall’altro si, faceva festa per la sicurezza della vittoria.
Non di rado egli sfidava tutti i giovani a sopravanzarlo nella corsa, e fissava la meta destinando il premio al vincitore. Ed eccoli allineati. Don Bosco solleva la veste al ginocchio: – Attenti, grida: Uno, due, tre! – E un nugolo di giovani si slancia, ma don Bosco è sempre il primo a toccar la meta. L’ultima di queste sfide ebbe luogo precisamente nel 1868 e don Bosco, non ostante le sue gambe enfiate, correva ancora con tanta rapidità da lasciarsi indietro 800 giovani fra i quali moltissimi di una snellezza meravigliosa. Noi presenti, non potevamo credere ai nostri occhi (MB III,127).

2) Preoccuparsi sinceramente degli altri
Una delle caratteristiche delle persone “attiranti” è l’attenzione e la preoccupazione genuina e sincera per gli altri. Non si tratta solo di chiedere a qualcuno come è andata la giornata e di ascoltare la sua risposta. Si tratta di ascoltare davvero, entrare in empatia e mostrare un interesse genuino per la vita degli altri. Don Bosco piangerà con il cuore in pezzi alla morte di don Calosso, di Luigi Comollo, alla vista dei primi ragazzi dietro le sbarre di una prigione.

Il giovane anticlericale
Di questo giovane daremo qualche cenno perché è come il rappresentante di cento e cento altri suoi compagni. Don Bosco nell’autunno, del 1860 entrava nella bottega da caffè, così detta della Consolata, perché presso al celebre Santuario di tal nome, e prendeva posto in una stanza appartata per leggere con tranquillità la corrispondenza che soleva recar seco. In quella bottega un cameriere disinvolto e cortese serviva gli avventori. Si chiamava Cotella Giovanni Paolo, nativo di Cavour (Torino), dell’età di 13 anni. Era fuggito da casa nell’estate di quell’anno stesso, perché insofferente de’ rimproveri e della severità de’ suoi genitori. Lasciamo a lui la descrizione del suo incontro con Don Bosco, come la narrò a D. Cerruti Francesco.
Una sera, raccontò egli, il padrone mi disse: «Porta una tazza di caffè ad un prete che è nella camera di là». «Io portare il caffè ad un prete?» soggiunsi tosto come trasecolato. I preti erano allora malveduti come adesso, anzi più, che adesso. Ne avevo sentite e lette di tutti i colori e mi era quindi formato dei preti un pessimo concetto.
Andato con aria beffarda: «Che vuole da me, lei prete?» chiesi malamente a Don Bosco. Ed egli guardandomi fisso: «Desidero da te, bravo giovane, una tazza di caffè» mi rispose con grande amabilità «ma ad un patto». «Quale?»  «Che me la porti tu stesso».
Quelle parole e quello sguardo mi vinsero e dissi fra me: «Questo non è un prete come gli altri».
Gli portai il caffè; una forza arcana mi teneva presso di lui, che prese ad interrogarmi, sempre colla più grande amorevolezza, sul mio paese natio, la mia età, le mie occupazioni e soprattutto perché fossi fuggito di casa. Poi: «Vuoi venire con me?» mi disse. «Dove?» «All’Oratorio di D. Bosco. Questo luogo e questo servizio non fanno per te». «E quando sarò là?» «Se ti piace, potrai studiare». «Ma lei mi terrà bene?» «Oh, pensa! Là si giuoca, si sta allegri, ci si diverte…» «Bene, bene» risposi «vengo. Ma quando? Subito? Domani?» «Di stasera» soggiunse D. Bosco.
Mi licenziai dal padrone, che avrebbe voluto mi fermassi ancora alcuni giorni, ed io, presi i miei pochi cenci, andai nella stessa sera all’Oratorio. Il domani Don Bosco scrisse a miei genitori per rassicurarli sul conto mio, e invitandoli a recarsi da lui per le necessarie intelligenze intorno al concorso loro per vitto e spese relative. Venne infatti mia madre cui, dopo aver ascoltato quanto espose intorno alle condizioni della famiglia: «Bene, concluse D. Bosco, facciamo così; lei paghi 12 lire al mese, il resto lo metterà D. Bosco».
Ammirai in questo, non solo la squisita carità, ma la prudenza di D. Bosco. La mia famiglia non era ricca, ma godeva di sufficiente benestare. Se quindi egli mi avesse accettato affatto gratuitamente, non avrebbe fatto bene, perché questo sarebbe stato di danno ad altri più bisognosi di me.
Per due anni i suoi parenti avevano mantenuto l’accordo con Don Bosco riguardo alla pensione, ma sul principio del terzo cessarono di pagare e più non ne vollero sapere: Il giovane, pur essendo vivace in sommo grado, era aperto, schietto, buono di cuore, di una condotta esemplare, e faceva molto profitto nello studio. Ora in quest’anno scolastico (1862 – 1863) essendo per entrare nella quarta classe, timoroso di dover troncare gli studi, se ne aperse con don Bosco, il quale gli rispose: «E che importa se i tuoi non vogliono più pagare? Non ci sono io? Sta’ sicuro che don Bosco non ti abbandonerà». E infatti, finché stette nell’Oratorio, don Bosco lo provvide di tutto il necessario.
Compiuta la quarta ginnasiale e superati felicemente gli esami, s’impiegò; e i primi denari che poté mettere insieme col suo lavoro, li mandò a costo di privazioni e a piccole rate a don Bosco per fare il saldo di quella poca pensione che i parenti nell’ultimo anno dell’Oratorio avevano tralasciato di pagare. Visse da buon cristiano, zelò la diffusione delle Letture Cattoliche, fu tra i primi ad aggregarsi all’unione degli ex allievi e si tenne sempre in affettuosa comunicazione con suoi antichi superiori.

3) Essere un buon ascoltatore
In un mondo in cui tutti sembrano parlare in continuazione, un buon ascoltatore si distingue. Una cosa è ascoltare ciò che qualcuno dice, ma ascoltare davvero – assorbire e capire – è un’altra cosa. Essere un buon ascoltatore non significa solo rimanere in silenzio mentre l’altra persona parla. Si tratta di partecipare alla conversazione, di fare domande di approfondimento e di mostrare un interesse genuino.

Il contatto come scambio di energia.
Aveva una delle qualità più rare: la “grazia di esistenza”. Una vita traboccante, come vino buono dal tino. Per cui migliaia di persone hanno detto: «Grazie perché ci sei!» e «Accanto a te io sono un altro!».
«Ascoltava i ragazzi colla maggior attenzione come se le cose da loro esposte fossero tutte molto importanti. Talora si alzava, o passeggiava con essi nella stanza. Finito il colloquio li accompagnava fino alla soglia, apriva egli stesso la porta, e li congedava dicendo: «Siamo sempre amici, neh!» (Memorie Biografiche VI, 439).

4) La bellezza dell’uomo buono
Per questo don Bosco è attraente. Il Cardinale Giovanni Cagliero riferiva il fatto seguente notato personalmente nell’accompagnare don Bosco. Dopo una conferenza tenuta a Nizza, don Bosco usciva dal presbitero della chiesa per avviarsi alla porta, tutto circondato dalla folla che non lo lasciava camminare. Un individuo dall’aspetto torvo stava immobile a guardarlo come se macchinasse un brutto tiro. Don Cagliero, che lo teneva d’occhio, inquieto per ciò che potesse succedere, vide l’uomo avvicinarsi. Don Bosco gli rivolse la parola: «Che cosa desiderate?» «Io? Nulla!»
«Eppure sembra che abbiate qualche cosa da dirmi!» «Io non ho nulla da dirle».
«Volete confessarvi?» «Confessarmi, io? Ma neppur per sogno!»
«Dunque che cosa fate qui?» «Sto qui perché… non posso andar via!»
«Ho capito… Signori, mi lascino un momento solo», disse don Bosco a quelli che lo circondavano. I vicini si tirarono in disparte, don Bosco sussurrò qualche parola all’orecchio di quell’uomo che, cadendo in ginocchio, si confessò in mezzo alla chiesa (cf. MB XIV, 37).

Papa Pio XI, il Pontefice che canonizzò don Bosco e che nell’autunno del 1883 era stato ospite di don Bosco, nella Casa Pinardi, ricorda: «Eccolo a rispondere a tutti: e aveva la parola esatta per tutto, così propria da meravigliare: prima infatti sorprendeva e poi troppo meravigliava».
Due cose ci fanno capire l’eternità: l’amore e lo stupore. Don Bosco le sintetizzava nella sua persona. La bellezza esteriore è la componente visibile di quella interiore. E si manifesta attraverso la luce che promana dagli occhi di ogni individuo. Non importa che questi sia malvestito o non si conformi ai nostri canoni dell’eleganza, oppure se non cerchi di imporsi all’attenzione delle persone che lo circondano. Gli occhi sono lo specchio dell’anima e, in qualche maniera, rivelano ciò che sembra occulto.
Ma, oltre alla capacità di brillare, essi posseggono un’altra qualità: fungono da specchio sia per le doti racchiuse nell’animo sia per gli uomini e le donne che sono oggetto dei loro sguardi.
Infatti riflettono chi li sta guardando. Come ogni specchio, gli occhi restituiscono il riflesso più intimo del volto che hanno davanti.

Un vecchio sacerdote già alunno a Valdocco, lasciò scritto nel 1889: “Quel che in don Bosco più spiccava era lo sguardo, dolce ma penetrantissimo, fino alle latebre del cuore, cui appena si poteva resistere fissandolo”. E aggiungeva: “In genere i ritratti e i quadri non riportano questa singolarità” (MB VI, 2-3).
Un altro ex-allievo, degli anni ’70, Pons Pietro, rivela nei suoi ricordi: “Don Bosco aveva due occhi che foravano e penetravano nella mente… Egli passeggiava adagio parlando e guardando tutti con due occhi che giravano da ogni parte, elettrizzando di gioia i cuori” (MB XVII, 863).
Sapete di essere una buona persona quando le persone vengono sempre a chiedervi consigli e incoraggiamenti. La porta di don Bosco era sempre aperta per grandi e piccoli. La bellezza dell’uomo buono è una qualità difficile da definire, ma quando c’è, te ne accorgi: come un profumo. Tutti sappiamo che cos’è il profumo delle rose, ma nessuno si può alzare in piedi e spiegarlo.
Talora accadeva questo fenomeno, che un giovane udita la parola di don Bosco, non gli si staccava più dal fianco, assorto quasi in un’idea luminosa… Altri vegliavano di sera alla sua porta, picchiando leggermente ogni tanto, finché non venisse loro aperto, perché non volevano andare a dormire col peccato nell’anima.

(continua)




Messaggio alla fine della 42ª edizione delle Giornate di Spiritualità Salesiana

Alla mia carissima Famiglia

Figli e figlie miei, carissimi,

Il sogno che fa sognare. Questa è tutta l’eredità che vi lascio: un sogno. Quel sogno che ha guidato la mia vita. Ora è il vostro sogno. Ciò che ho avuto di più prezioso, lo dono a voi. È venuto dall’alto e, come tutto ciò che nasce da Dio, non può morire. È stata la mia vocazione e la mia missione.

Se siete qui oggi, è perché siete stati scelti per una missione. Questa è la vostra vocazione: voi siete chiamati a continuare quello che io ho incominciato. A realizzare oggi tutti i sogni di Dio che sono anche i miei. E a realizzarli insieme, in famiglia.

Perciò vi chiedo di partire. Ancora una volta, partire. Senza tregua, incessantemente partire.
Come Abramo, come Giuseppe e Maria, come Levi, Simone, Andrea e tutti gli altri. Come ho fatto io. Parti, dice Dio. Ti dirò io dove devi andare. Non stancatevi. Non fermatevi mai.
Vi ho detto spesso: ci riposeremo in Paradiso. Sia questa la vostra direzione. Andare in Paradiso e portare con voi quanti più ragazzi, ragazze e giovani possibile.

Credete nelle verità più alte e più belle. Confidate in Dio Creatore, nello Spirito Santo che muove tutto verso il bene, nell’abbraccio di Cristo presente in ogni persona e che attende tutti alla fine della loro esistenza; credete, Lui vi aspetta, in famiglia.
Fidatevi della Maestra, lasciatevi prendere per mano da Lei. Non vi abbandonerà mai.
Una madre tiene sempre il fuoco acceso e la porta aperta.

Ovunque siate, costruite! In piedi, sempre. Se siete a terra, alzatevi! Il mondo ha bisogno di voi! Il nostro gregge è minacciato, i lupi sono in agguato: le loro zanne si chiamano violenza fisica, violenza affettivo-sessuale, violenza economica, cyber-violenza e la terribile esclusione sociale.

Amate le persone. Amatele una ad una. Rispettate il cammino di tutti, lineare o tormentato che sia, perché ogni persona è sacra.
Piangete con chi piange, ma lavorate perché non ci siano più lacrime in questo mondo. «Non piangere» ha detto Gesù alla vedova di Nain. Restituite figli vivi alle madri di questo mondo.

Il vostro modo di amare sia una potenza di trasformazione che porta alla felicità. Abbiate un amore limpido, seminate allegria e ovunque passate siate una benedizione. Non sciupate la vostra vita. Contagiate il mondo con la vostra gioia.

Salvatevi dall’indifferenza. Godete il miracolo della luce, dell’acqua viva e del pane condiviso. Ricordatevi che la fede umanizza. Sempre. Guardate, imparate e siate pazienti, e lasciamo che sia Dio a dettare i tempi della Provvidenza.

Non lasciate spazio ai pensieri amari, oscuri. Questo mondo è il primo miracolo che Dio ha fatto, e Dio ha messo nelle vostre mani la grazia di nuovi miracoli. Aspettatevi sempre un miracolo, nella vita di tutti i giorni.

Sincronizzate i battiti del vostro cuore sulle lacrime di tanti giovani impoveriti. E sulla rabbia di chi ha incontrato solo ingiustizia e abusi. Tenete le porte sempre aperte. Siate responsabili di questo mondo e della vita di ogni giovane. Pensate che ogni ingiustizia contro un povero è una ferita aperta nel cuore di Dio.

Operate la pace in mezzo agli uomini, e non ascoltate la voce di chi sparge odio e divisioni. Che sia pace e perdono nelle vostre case. Tutti insieme formate una vera famiglia, una città salda, uno spazio inclusivo. Un Oratorio. Siate Oratorio.

Che ogni giovane uomo e ogni giovane donna che incontrate possa crescere in sapienza, in età, in grazia davanti a Dio e davanti agli uomini e diventare protagonista di una nuova umanità.

Ogni giorno domandate a Dio il dono del coraggio. Ricordatevi sempre che Gesù ha vinto per noi la paura. Vincerete il mondo con l’arma di Maria, la tenerezza. Come vi ha raccomandato Papa Francesco: Gesù ci ha consegnato una luce che brilla nelle tenebre: difendetela, proteggetela. Quell’unico lume è la ricchezza più grande affidata alla vostra vita.

E soprattutto, sognate! Non abbiate paura di sognare. Sognate! Sognate un mondo che ancora non si vede, ma che di certo arriverà.
Organizzate la speranza. Abbiate cura del creato. La speranza ci porta a credere all’esistenza di una creazione che si estende fino al suo compimento definitivo, quando Dio sarà tutto in tutti.

Il nostro sogno è come la vita: è tutto quello che abbiamo.
Non lasciatelo morire.
E allora andiamo, andiamo a cambiare il mondo. Insieme.

Don Bosco