Santa Famiglia di Nazaret

Celebriamo ogni anno la Santa Famiglia di Nazaret nell’ultima domenica dell’anno. Ma ci dimentichiamo spesso che celebriamo con fasto gli eventi più poveri e delicati di questa Famiglia. Obbligati a dar alla luce in una grotta, perseguitati subito, dovendo emigrare tra tanti pericoli in un paese straniero per sopravvivere, e questo con un neonato e senza sostanze. Ma tutto fu evento di grazia, permesso da Dio Padre, e annunciato nelle Scritture.
Leggiamo il bel racconto che don Bosco stesso faceva ai suoi ragazzi del suo tempo.

Il tristo annunzio. – La strage degli innocenti. – La sacra famiglia parte per l’Egitto.
L’angelo del Signore disse a Giuseppe: Levati, prendi il bambino e sua madre e fuggi in Egitto e fermati colà fintantoché io t’avvisi. Matth. II, 13.
Si è sentito nell’alto voce di querela, di lutto e di gemito di Rachele che piange i suoi figli; e riguardo ad essi non ammette consolazione perché ei più non sono. Gerem. c. XXXI, v. 15.

            La tranquillità della santa famiglia [dopo la nascita di Gesù] non doveva essere di lunga durata. Appena Giuseppe era rientrato nella povera casa ai Nazareth, un angelo del Signore gli apparve in sogno e gli disse: “Alzati, togli teco il fanciullo e sua madre e fuggi in Egitto, e rimani colà finché io non ti dica di ritornare. Imperciocché Erode cercherà il fanciullo per farlo morire.”
            E ciò non era che troppo vero. Il crudele Erode ingannato dai Magi e furioso di vedersi sfuggire una si bella occasione, per disfarsi di colui che egli considerava come un competitore al trono, aveva concepito l’infernale disegno di far massacrare tutti i bambini maschi di età inferiore a due anni. Quest’ ordine abbominevole fu eseguito.
            Un largo fiume di sangue scorse la Galilea. Allora si avverò quello che aveva predetto Geremia: “Una voce si è fatta intendere in Rama, voce mista di lacrime e di lamenti. È Rachele che piange i suoi figli e non vuol essere consolata; imperciocché essi non sono più.” Questi poveri innocenti, si crudelmente scannati, furono i primi martiri della divinità di Gesù Cristo.
            Giuseppe aveva riconosciuto la voce dell’Angelo; né si permise alcuna riflessione sulla precipitata partenza, a cui dovevano risolversi; sulle difficoltà d’un viaggio così lungo e così pericoloso. E sì che gli doveva rincrescere di abbandonare la sua povera casa, per andare attraverso ai deserti a cercare un asilo in un paese che egli non conosceva. Senza nemmeno aspettare il domani, nel momento che l’angelo disparve egli si alzò e corse a svegliare Maria. Maria preparò frettolosamente piccola provigione di panni e di viveri che dovevano portare con sé. Giuseppe intanto preparò la giumenta, e partirono senza rammarico dalla loro città per obbedire al comando di Dio. Ecco dunque un povero vecchio, che rende vane le orribili trame del tiranno di Galilea; è a lui che Iddio affida la custodia di Gesù e di Maria.

Viaggio disastroso – Una tradizione.
Allorquando vi perseguiteranno in questa città fuggite ad un’altra. Matth. X, 23.

            Due strade si presentavano al viaggiatore, che per la via di terra volesse recarsi in Egitto. L’una attraversava deserti popolati da bestie feroci, ed i sentieri ne erano malagevoli, lunghi e poco frequentati. L’altra si dirigeva attraverso a un paese poco frequentato, ma gli abitanti della contrada erano ostilissimi agli Ebrei. Giuseppe, che aveva soprattutto a temere gli uomini in questa fuga precipitosa, scelse la prima di queste due strade siccome la più nascosta.
            Partiti da Nazareth nel più fitto della notte, i cauti viaggiatori, il cui itinerario obbligava a passare dappresso Gerusalemme, batterono per qualche tempo i sentieri più tristi e tortuosi. Quando si doveva attraversare qualche grande strada, Giuseppe lasciando al riparo d’una roccia Gesù e sua Madre, andava in perlustrazione pel cammino, per accertarsi se l’uscita non ne fosse guardata dai soldati di Erode. Rassicurato da questa precauzione, ritornava a prendere il suo prezioso tesoro, e la santa famiglia continuava il suo viaggio, tra i burroni ed i colli. Di tratto in tratto si faceva una breve sosta sull’orlo d’un limpido ruscello, e dopo una frugale refezione si prendeva un po’ di riposo dalle fatiche del viaggio. Giunta la sera, era mestieri rassegnarsi a dormire a cielo scoperto. Giuseppe spogliandosi del suo mantello, ne copriva Gesù e Maria per preservarli dall’umidità della notte. Poi il domani sul far del giorno si ricominciava il faticoso viaggio. I santi viaggiatori, avendo oltrepassata la piccola città di Anata, si diressero dalla parte di Ramla per discendere nelle pianure della Siria, dove essi dovevano ormai esser liberi dalle insidie dei loro feroci persecutori. Contro alla loro abitudine avevano continuato a camminare malgrado fosse di già fatta la notte per essere più presto in salvo. Giuseppe andava quasi tastando il terreno avanti agli altri. Maria tutta tremante per questa corsa notturna figgeva i suoi sguardi irrequieti nella profondità dei valloni, e nelle sinuosità delle rocce. D’un tratto in uno svolto, una frotta d’uomini armati si presentò ad intercettare loro il cammino. Era una banda di scellerati, i quali devastavano la contrada, la cui fama spaventevole si estendeva molto lontano. Giuseppe aveva arrestato la cavalcatura di Maria, e pregava il Signore in silenzio; imperciocché era impossibile qualunque resistenza. Tutto al più si poteva sperare di ottener salva la vita. Il capo dei briganti si staccò da’ suoi compagni e si avanzò verso Giuseppe per osservare con chi avesse egli da trattare. La vista di questo vecchio senza armi, di questo bambinello che dormiva sopra il seno di sua madre, toccò il cuore sanguinario del bandito. Ben lungi dal voler far loro alcun male, stese la mano a Giuseppe, offrendo ospitalità a lui ed alla sua famiglia. Questo capo si chiamava Disma. La tradizione ci dice, che trent’ anni dopo egli fu preso dai soldati, e condannato ad essere crocifisso. Fu messo in croce sul Calvario al fianco di Gesù, ed è lo stesso che noi conosciamo sotto il nome del buon ladrone.

Arrivo in Egitto – Prodigi avvenuti al loro ingresso in questa terra – Villaggio di Matarie – Abitazione della sacra Famiglia.
Ecco che il Signore salirà sopra una nuvola leggera ed entrerà in Egitto e alla presenza di lui si conturberanno i simulacri d’ Egitto. Is. XIX, 1.

            Comparso appena il giorno, i fuggitivi, ringraziando i briganti diventati ospiti, ripresero il loro cammino pieno di pericoli. Si dice che Maria sul partire abbia detto queste parole al capo di quei banditi: “Ciò che tu hai fatto per questo bambino, ti sarà un giorno largamente ricompensato.” Dopo di avere attraversato Betlemme e Gaza, Giuseppe e Maria discesero nella Siria e avendo incontrato una carovana che partiva per l’Egitto si unirono ad essa. Da questo istante sino al termine del loro viaggio non videro più davanti a sé, che un immenso deserto di sabbia, la cui aridità non era interrotta che a ben rari intervalli da qualche oasi, ossia da alcuni tratti di terreno fertile e verdeggiante. Le loro fatiche si raddoppiarono durante questa corsa attraverso a queste pianure infuocate da ardente sole. I viveri erano poco abbondanti, e l’acqua ben sovente mancava. Quante notti Giuseppe, che era vecchio e povero, si vide risospinto, quando tentava di avvicinarsi alla fonte, cui la carovana si era arrestata per dissetarsi!
            Finalmente dopo due mesi di penosissimo cammino i viaggiatori entrarono in Egitto. Al dire di Sozomeno, dal momento che la santa Famiglia ebbe toccato questa terra antica, gli alberi abbassarono i loro rami per adorare il Figlio di Dio; le bestie feroci vi accorsero dimenticando il loro istinto; e gli uccelli cantarono in coro le lodi del Messia. Anzi se crediamo a quanto ci narrano autori degni di fede, tutti gli idoli della provincia, riconoscendo il vincitore del Paganesimo, caddero frantumati in mille pezzi. Così ebbero letterale compimento le parole del profeta Isaia quando disse; “Ecco che il Signore salirà sopra una nuvola leggerà ed entrerà in Egitto, e alla presenza di lui si conturberanno i simulacri d’Egitto.”
            Giuseppe e Maria, desiderosi d’arrivar presto al termine del loro viaggio, non fecero che attraversare Eliopoli, consacrata al culto del sole, per recarsi a Matari dove intendevano di riposarsi delle loro fatiche.
            Matari è un bel villaggio ombreggiato da sicomori, a due leghe circa dal Cairo, capitale dell’Egitto. Colà Giuseppe aveva intenzione di stabilire dimora. Ma non era ancora questo il termine delle sue pene. Gli era mestieri di cercarsi un alloggio. Gli Egiziani non erano per nulla ospitali; così la santa famiglia fu costretta a ripararsi per alcuni giorni nel tronco d’un antico e grosso albero. Alfine dopo lunghe ricerche Giuseppe trovò una modesta cameraccia, in cui collocò alla meglio Gesù e Maria.
            Questa casa, che si fa vedere ancora in Egitto, era una specie di grotta, di venti piedi di lunghezza sopra quindici di larghezza. Non vi erano nemmeno finestre; la luce vi doveva penetrare per la porta. Le mura erano d’una specie d’argilla nera e schifosa, la cui vecchiezza portava l’impronta della miseria. A destra era una piccola cisterna, dalla quale Giuseppe attingeva l’acqua pel servizio della famiglia.

Dolori. – Consolazione e termine dell’esilio.
Con lui son io nella tribolazione. Psal. XC. 15.

            Entrato appena in questa nuova abitazione ripigliò Giuseppe il suo lavoro ordinario. Cominciò a mobiliare la sua casa; un tavolino, qualche sedia, una panca, tutto quanto opera delle sue mani. Poscia andò di porta in porta in cerca di lavoro per guadagnar il sostentamento alla piccola famiglia. Egli senza dubbio ebbe a provare ben molti rifiuti, e a tollerare ben molti umilianti disprezzi! Egli era povero, e sconosciuto; e ciò bastava perché venisse rifiutata l’opera sua. A sua volta Maria, mentre aveva mille cure pel Figlio, si diede coraggiosamente al lavoro, occupando in esso una parte della notte per supplire ai guadagni piccoli ed insufficienti del suo sposo. Tuttavia in mezzo alle sue pene quante consolazioni per Giuseppe! Era per Gesù che lavorava, e il pane che il divino fanciullo mangiava era egli che l’aveva acquistato col sudore della sua fronte. E poi quando rientrava in sulla sera affaticato e oppresso dal caldo, Gesù sorrideva al suo arrivo, e lo accarezzava colle sue piccole mani. Ben sovente col prezzo di privazioni, che s’imponeva, Giuseppe riusciva ad ottenere qualche risparmio qual gioia provava allora nel poterlo impiegare nell’ addolcire la condizione del divino fanciullo! Ora erano alcuni datteri, ora alcuni giocattoli adatti alla sua età, che il pio falegname recava al Salvatore degli uomini. Oh quanto erano dolci allora le emozioni del buon vecchio nel contemplare il viso raggiante di Gesù! Quando arrivava il Sabato, giorno di riposo e consacrato al Signore, Giuseppe prendendo per le mani il fanciullo, ne guidava i primi passi con una sollecitudine veramente paterna.
            Frattanto il tiranno che regnava sopra Israele moriva. Iddio, il cui braccio onnipossente punisce sempre il colpevole, gli aveva mandato una malattia crudele, che lo condusse rapidamente al sepolcro. Tradito dal suo proprio figlio, roso vivo dai vermi, Erode era morto, portando con se l’odio de’ Giudei, e la maledizione de’ posteri.

Il nuovo annunzio. – Ritorno in Giudea. – Una tradizione riferita da s. Bonaventura.
Dall’Egitto richiamai il mio figliuolo. Oseae XI, 1.

            Da sette anni stava Giuseppe in Egitto, quando l’Angelo del Signore, messaggero ordinario dei voleri del Cielo gli apparve di nuovo durante il sonno e gli disse: “Alzati, togli teco il fanciullo e sua madre, e ritorna al paese d’Israele, imperciocché coloro che cercavano il fanciullo per farlo morire, non esistono più.” Sempre pronto alla voce di Dio, Giuseppe vendette la sua casa ed i suoi mobili, ed ordinò il tutto per la partenza. Invano gli Egiziani rapiti dalla bontà di Giuseppe e dalla dolcezza di Maria fecero le più vive istanze per ritenerlo. Invano gli promisero l’abbondanza d’ogni cosa necessaria per la vita, Giuseppe fu irremovibile. I ricordi della sua infanzia, gli amici, che egli aveva nella Giudea, la pura atmosfera della sua patria, assai più parlavano al suo cuore, che non la bellezza dell’Egitto. D’altronde Iddio aveva parlato, e null’altro abbisognava per decidere Giuseppe a far ritorno alla terra de’ suoi antenati.
            Alcuni storici sono d’opinione che la santa famiglia abbia fatto per mare una parte del viaggio, perché vi s’impiegava minor tempo, ed aveva un desiderio grandissimo di rivedere presto la sua patria. Appena sbarcati ad Ascalonia, Giuseppe intese che Archelao era succeduto nel trono a suo padre Erode. Indi per Giuseppe era una nuova sorgente di inquietudini. L’angelo non gli aveva detto in quale parte della Giudea dovesse egli stabilirsi. Doveva ciò fare a Gerusalemme, o nella Galilea, o nella Samaria? Giuseppe pieno d’ansietà pregò il Signore che gli mandasse durante la notte il suo celeste messaggero. L’angelo gli ordinò di fuggire Archelao e di ritirarsi in Galilea. Giuseppe allora più non ebbe a temere, e prese tranquillamente la strada di Nazareth, che aveva sette anni prima abbandonata.
            Non dispiaccia ai nostri devoti lettori di sentir sopra questo punto di storia il serafico dottor s. Bonaventura: “Erano in atto di partirsi: e Giuseppe andò innanzi cogli uomini, e la madre veniva da lungi colle donne (venuti queste e quelli come amici della santa famiglia ad accompagnarli un tratto). E quando furono fuor della porta, Giuseppe rattiene gli uomini e non si lascia più accompagnare. Allora alcuno di quelli buoni uomini, avendo compassione della povertà di costoro, chiamò il fanciullo e gli dettero alquanti denari per le spese. Si vergogno il Fanciullo di riceverli; ma, per amore della povertà, apparecchiò la mano e ricevé la pecunia vergognosamente e lo ringrazio. E così fecero più persone. Lo chiamarono ancora quelle onorabili matrone e fecero lo stesso; non si vergognava meno la madre che il fanciullo, ma tuttavia umilmente li ringraziò.”
            Preso dunque commiato da quella cordiale compagnia rinnovati i ringraziamenti ed i saluti, la santa famiglia rivolse i suoi passi verso la Giudea.




Mi par di essere in paradiso. La prima Messa di Natale a Valdocco

La prima Messa di Natale celebrata da don Bosco a Valdocco fu nel 1846. Dopo aver ottenuto il permesso di celebrarla nella povera cappella Pinardi, inizio la preparazione degli animi dei suoi ragazzi insegnandoli a fare sante Comunioni, visite al Santissimo Sacramento, e a imparare alcuni canti devoti. Don Lemoyne racconta.

            “La festa dell’Immacolata Concezione era una preparazione a quella del santo Natale. Grande era la fede di don Bosco per tutti i misteri di Nostra Santa Religione. Quindi per esternare, con più vivo slancio del cuore la sua divozione verso l’incarnazione del Verbo Divino, e per eccitarla e promuoverla maggiormente negli altri, aveva domandato alla Santa Sede la facoltà di amministrare la santa Comunione alla mezzanotte di Natale, nella cappella dell’Oratorio in tempo della solenne Messa cantata. Pio IX gliela concedeva per tre anni. Annunciata ai giovani la lieta notizia, preparò e fece imparare ai suoi cantori una piccola messa e alcune devote canzoncine che egli aveva composte in onore di Gesù Bambino, e intanto addobbava il meglio che potesse la sua chiesina. Oltre i giovani, invitati altri fedeli, incominciò la novena. Mons. Arcivescovo le aveva permesso di poter impartire la benedizione col Venerabile ogni volta che lo desiderasse; ma solo in tali occasioni poteva conservare nel tabernacolo la Santissima Eucaristia.
            Grande fu il concorso, avendo istillato nell’animo de’ suoi piccoli amici sentimenti di grande tenerezza verso il Divin pargoletto. Essendo egli solo sacerdote, alla sera dei nove giorni confessava molti che all’indomani desideravano di fare la Santa Comunione. Al mattino scendeva in chiesa per tempo affine di porgere questa comodità agli artigiani che dovevano recarsi al lavoro. Celebrata la Santa Messa, distribuiva la Santissima Eucaristia, quindi predicava, e dopo il canto delle profezie eseguito da alcuni catechisti da lui istruiti, dava la benedizione col Santissimo Sacramento.
            La sera poi di quella notte memoranda, dopo aver confessato fino alle 11, cantò una messa, amministrò la santa Comunione a più centinaia di persone e poi commosso fino alle lagrime si udiva esclamare. – Che consolazione! mi par di essere in paradiso! – Terminata la funzione, distribuiva una piccola cena ai giovinetti e li rimandava alle loro case per riposarsi.
            Egli dopo poche ore di sonno ritornava in chiesa, aspettando la turba più numerosa che non aveva potuto assistere alla solennità della notte, confessava, celebrava le altre due messe, comunicava e quindi ripigliava tutte le sue molteplici occupazioni dei giorni festivi.
            A questo modo per più anni si celebrò la novena e la festa del Santo Natale, fintanto che don Bosco non ebbe in casa altri preti.
            Ma queste prime feste Natalizie rivestirono un carattere speciale indimenticabile, perché segnarono come la definitiva presa di possesso della vaticinata casa Pinardi, essendovi ogni cosa ormai ordinata pel regolare svolgimento dell’Oratorio; e confermarono le promesse dei futuri vasti edifici che avrebbero narrata la bontà del Signore alle generazioni future. Don Bosco in questo giorno al recitare il divino uffizio, pieno la mente de’ suoi disegni, con quale affetto avrà esclamato: – Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia in mezzo al tuo tempio. Qual è il tuo nome, o Dio, tale sia la tua gloria fino agli estremi confini della terra! Di giustizia è ripiena la tua destra! (MB II, 582-585)”.

            Le Messe delle notti del Santo Natale saranno celebrate da don Bosco d’ora in poi fino agli ultimi anni di sua vita, con una gioia particolare che traspariva dal suo volto.
Pero non era solo questa gioia che eccitava in tutti una viva devozione, ma anche le esortazioni che faceva ai suoi piccoli amici per prepararsi bene al Natale. Diceva:

            “Domani incomincia la novena del santo Natale. Si racconta che un giorno un devoto del Bambino Gesù, viaggiando per una foresta in tempo d’inverno, udì come il gemito di un bambino e inoltratosi nel bosco verso il luogo donde udiva partire la voce, vide un bellissimo fanciullo che piangeva. Mosso a compassione disse:
– Povero bambino come mai ti trovi qui, così abbandonato in questa neve?
Ed il fanciullo rispose:
– Ohimè! come posso non piangere, mentre mi vedi così abbandonato da tutti? Mentre nessuno ha compassione di me?
Ciò detto disparve. Allora capì quel buon viaggiatore essere quel bambino Gesù stesso, che si lamentava dell’ingratitudine e della freddezza degli uomini.
Vi ho narrato questo fatto, perché procuriamo che Gesù non abbia a lagnarsi anche di noi. Perciò prepariamoci a far bene questa novena. Al mattino al tempo di Messa vi sarà il canto delle Profezie, poche parole di predica e poi la benedizione. Due cose io vi consiglio in questi giorni, per passare santamente la novena:
            1. Ricordatevi sovente di Gesù Bambino, dell’amore che vi porta e delle prove che vi ha dato del suo amore fino a morire per voi. Al mattino alzandovi subito al tocco della campana, sentendo il freddo, ricordatevi di Gesù Bambino che tremava pel freddo sulla paglia. Lungo il giorno animatevi a studiar bene la lezione, a far bene il lavoro, a stare attenti nella scuola per amore di Gesù. Non dimenticate che Gesù avanzava in sapienza, in età e in grazia appresso a Dio ed appresso agli uomini. E sovra tutto per amore di Gesù guardatevi dal cadere in qualsivoglia mancanza che possa disgustarlo.
            2. Andate spesso a trovarlo. Noi invidiamo i pastori che andarono alla capanna di Betlemme, che lo videro appena nato, che gli baciarono la manina, gli offersero i loro doni. Fortunati pastori, diciamo noi! Eppure nulla abbiamo da invidiare, poiché la stessa loro fortuna è pure la nostra. Lo stesso Gesù, che fu visitato dai pastori nella sua capanna si trova qui nel tabernacolo. L’unica differenza sta in ciò, che i pastori lo videro cogli occhi del corpo, noi lo vediamo solo colla fede, e non vi è cosa, che possiamo fargli più grata, che di andare spesso a visitarlo. E in qual modo andare a visitarlo? Primieramente colla frequente Comunione. Nell’Oratorio, in questa novena specialmente, ci fu sempre un grande impegno, un grande fervore per la Comunione e spero che lo stesso farete voi in quest’anno. Altro modo poi è di andare qualche volta in chiesa lungo il giorno, fosse anche per un sol minuto, recitando anche un solo Gloria Patri. Avete inteso?
Due cose adunque noi faremo per santificare questa novena. Quali sono? Chi sa ripeterle?
Ricordarci sovente del Bambino Gesù, avvicinarsi a lui colla S. Comunione e colla visita in chiesa (MB VI, 351-352)”.

Le parole di don Bosco sono valide anche oggi. Se hanno dato frutto nel passato, possono dare anche oggi, se le seguiamo con viva fede.




Generosità missionaria in Africa del Sud

Il Sudafrica o Africa del Sud, ufficialmente Repubblica del Sudafrica, è un paese multiculturale, uno dei pochi paesi nel mondo con 11 lingue ufficiali parlate da altre tante etnie. È un paese che ha sofferto per più di 40 anni la segregazione razziale, istituita nel 1948 dal governo di etnia bianca del paese e rimasta in vigore fino al 1991. Chiamata l’apartheid, era una politica di separazione per criteri razziali, condannata ufficialmente dall’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 1973, quando dichiarò l’apartheid un crimine contro l’umanità.
Oggi a distanza di tani anni, neri, bianchi, meticci e asiatici vivono insieme, anche se si sentono ancora le mentalità segregazioniste. In questo paese, una ventina di anni fa, è arrivato come missionario un salesiano paraguayano don Alberto Higinio Villalba, oggi economo ispettoriale e direttore della casa salesiana di Johannesburg. Le abbiamo chiesto che ci racconti un po’ della realizzazione del suo sogno missionario.

Sono nato ad Asunción, la capitale del Paraguay, un piccolo paese del Sud America, circondato da Argentina, Brasile e Bolivia. Provengo da una famiglia di 6 figli, tre maschi e tre femmine. Io sono il secondogenito. Tutta la mia famiglia è in Paraguay; i miei genitori sono ancora vivi, anche se con alcuni problemi di salute legati alla loro età. Il desiderio di diventare missionario viene da molto lontano, da giovane, insieme al Movimento Giovanile Salesiano, andavo a fare apostolato nei villaggi e nelle stazioni periferiche, aiutando i bambini con la catechesi e nelle attività degli oratori. Poi, quando ero prenovizio salesiano, ho incontrato un sacerdote spagnolo, don Martín Rodriguez, che ha condiviso con me la sua esperienza di missionario nel Chaco Paraguayo: in quel momento si rafforzò il desiderio di diventare missionario.
Ma fu grazie al Rettor Maggiore don Vecchi che decisi di partire: il suo appello missionario a tutte le ispettorie mi interpellò e, parlando con il mio Ispettore, don Cristóbal López, oggi cardinale e arcivescovo di Rabat, decisi di prendere parte alla spedizione missionaria del 2000.

Certo, non è stato facile, sin dall’inizio ho incontrato diversi shock culturali che ho dovuto superare con pazienza e impegno. Prima di arrivare in Africa, sono stato mandato in Irlanda per imparare l’inglese: tutto era molto nuovo per me, molto impegnativo. Una volta atterrato in Sudafrica, non più una sola lingua nuova che non capivo, ma molte di più! In effetti, il Sudafrica ha undici lingue ufficiali e l’inglese è solo una di queste. In compenso, l’accoglienza dei salesiani è stata molto calorosa e gentile.

Dico sempre che per diventare missionari non c’è bisogno di lasciare il paese, la cultura, la famiglia, e tutto il resto. Essere missionari significa portare Gesù alle persone ovunque ci troviamo; e questo possiamo farlo nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità, dove lavoriamo. Tuttavia, diventare missionari “ad gentes” significa rispondere alla generosità di Dio che ha condiviso con noi suo Figlio attraverso i missionari che hanno evangelizzato i nostri continenti e alla generosità di don Bosco che ha inviato i suoi missionari a condividere con noi il carisma salesiano. Se ci sono state così tante persone che hanno lasciato i loro Paesi e la loro cultura per condividere con noi Cristo e don Bosco, allora possiamo anche noi rispondere a quell’amore e a quella gentilezza per condividere gli stessi doni con gli altri.

Parlando dell’Africa del Sud, la Visitatoria dell’Africa Meridionale comprende tre paesi: il Sudafrica, dove i salesiani sono arrivati nel 1896, il regno di Eswatini (arrivati 75 anni fa) e il regno del Lesotho. Tanti cambiamenti sono avvenuti negli anni: siamo passati dai centri tecnici alle scuole, alle parrocchie e ora ai progetti. Attualmente abbiamo sette comunità, la maggior parte delle quali con alcune parrocchie e centri di formazione o oratori annessi alle comunità.
Essendo in Africa ormai da più di 20 anni, direi che l’esperienza più bella della mia vita salesiana l’ho vissuta in Eswatini, lavorando per il Manzini Youth Care. Quando mi è stato chiesto di occuparmi del progetto, il MYC si trovava in una situazione finanziaria molto difficile e l’organizzazione aveva alcuni mesi di stipendio arretrati. Tuttavia, le persone che lavoravano per i progetti non si erano mai lamentate e ogni giorno arrivavano con lo stesso entusiasmo e la stessa energia per fare del loro meglio per contribuire alla vita dei giovani, per cui MYC lavorava.
È qui dove si vede veramente l’impegno dei nostri collaboratori laici e fa piacere lavorare con loro.
Vogliamo fare tanto, pero dal punto di vista vocazionale, siamo diminuiti e abbiamo bisogno dell’aiuto di salesiani che di buon cuore si offrano per aiutarci a diffondere la Buona Novella e la spiritualità salesiana qui in Africa del Sud. Molti salesiani e molte ispettorie continuano a mostrare generosità, mettendo a disposizione le loro risorse umane, inviando missionari nei nostri paesi d’origine. Pertanto, siamo invitati a condividere la stessa generosità e speriamo che si trasformi in una spirale di crescita. Per i figli di Don Bosco, è un dovere far conoscere alla gente chi è nostro padre don Bosco, e la ricca spiritualità del carisma salesiano.

Marco Fulgaro




Appello Missionario 2024

Carissimi confratelli,
Un saluto fraterno dalla nostra Casa Madre a Valdocco.

Come ormai tradizione da alcuni anni, oggi, 18 dicembre, nel giorno in cui nel 1859 Don Bosco fondò la nostra “Pia Società di San Francesco di Sales”, è una bella occasione per sottolineare lo spirito missionario come elemento essenziale del carisma di Don Bosco, inviandovi il mio appello missionario annuale.

Nel 2024 celebreremo il secondo centenario del sogno dei nove anni di Giovannino Bosco. Don Pietro Stella diceva che è il sogno che “condizionò tutto il modo di vivere e di pensare di Don Bosco”. Per noi oggi seguire la riflessione sul sogno dei nove anni di Don Bosco richiede di sottolineare la sua fiducia nella Provvidenza: «A suo tempo tutto comprenderai». Il sogno dei nove anni ci insegna che Dio parla in tanti modi, opera grandi cose con “strumenti semplici”, anche nel profondo del nostro cuore, attraverso i sentimenti che si muovono dentro di noi. Oggi il sogno di nove anni continua a farci sognare e a invitarci a pensare chi siamo e per chi siamo.

È interessante notare che nel quinto sogno missionario, che ha avuto luogo mentre era in visita ai confratelli a Barcellona nella notte tra il 9 e il 10 aprile 1886, Don Bosco ha visto un profondo legame con il suo sogno dei nove anni. Nel suo quinto ed ultimo sogno missionario vide una grande folla di ragazzi che correvano verso di lui gridando: “Ti stavamo aspettando. Ti abbiamo aspettato così a lungo. Ora finalmente sei qui. Sei tra noi e non ci sfuggirai!” La pastorella che conduceva un immenso gregge di agnelli lo aiutò a comprenderne il significato chiedendogli: “Ti ricordi il sogno che hai fatto quando avevi dieci anni?”, poi ha tracciato una linea da Valparaíso a Pechino per sottolineare l’immenso numero di giovani che attendono i salesiani. Effettivamente, oggi in tutti i continenti ci sono giovani che hanno bisogno di essere trasformati da “lupi” in “agnelli”.

Oggi Don Bosco ha bisogno dei Salesiani che si rendono disponibile come “strumenti semplici” per realizzare il suo sogno missionario. Con questa lettera faccio appello ai confratelli che sentono nel profondo del loro cuore, attraverso i sentimenti che si muovono dentro di loro, la chiamata di Dio, dentro la nostra comune vocazione salesiana, a rendersi disponibili come missionari con un impegno per tutta la vita (ad vitam), dovunque il Rettor Maggiore li invierà.

Al mio appello del 18 dicembre 2022 scorso 42 salesiani hanno risposto inviandomi la lettera della loro disponibilità missionaria. Dopo un attento discernimento, 24 sono stati scelti come membri della 154′ spedizione missionaria di settembre scorso. Gli altri continuano il loro discernimento. Auspico che altrettanti, o anche di più, si mettano generosamente a disposizione quest’anno.

Invito gli Ispettori, con loro Delegati per l’animazione missionaria (DIAM), ad essere i primi ad aiutare i confratelli a facilitare il loro discernimento, invitandoli, dopo il dialogo personale, a mettersi a disposizione del Rettor Maggiore per rispondere ai bisogni missionari della Congregazione. Poi il Consigliere Generale per le Missioni, a nome mio, continuerà il discernimento che porterà alla scelta dei missionari per la 155a spedizione missionaria che si terrà, Dio volendo, domenica 29 settembre 2024, nella Basilica di Maria Ausiliatrice di Valdocco, come si è fatto sin dal tempo di Don Bosco.

Il dialogo con il Consigliere Generale per le Missioni e la riflessione condivisa all’interno del Consiglio Generale mi permette di precisare le urgenze individuate per il 2024, dove vorrei che un numero significativo di confratelli potesse essere inviato:
– nelle nuove frontiere del continente africano: Botswana, Niger, Nordafrica, ecc.
– nelle nuove presenze che inizieremo in Grecia e a Vanuatu;
– in Albania, Romania, Germania, Slovenia e in altre frontiere del Progetto Europa;
– in Azerbaijan, Nepal, Mongolia, Sudafrica e Yakutia;
– nelle presenze con i popoli indigeni del continente americano.

Affido questo mio ultimo appello missionario all’intercessione della nostra Madre Immacolata e Ausiliatrice affinché noi salesiani manteniamo vivo l’ardore missionario di Don Bosco.

Vi saluto, cari confratelli, con vero affetto,

Prot. 23/0585
Torino Valdocco, 18 dicembre 2023




Casa salesiana di Châtillon

Situata in una bella zona montagnosa, ai piedi delle Alpi, vicino alla Svizzera, la Casa salesiana di Châtillon ha una storia particolare e di successo.

Nella regione della Valle d’Aosta, si trova un comune di nome Châtillon (il nome proviene dal latino “Castellum”) che si situa tra il Monte Zerbion a nord e il Monte Barbeston a sud; è il terzo comune più popolato della regione.
Nel 1917, durante la prima guerra mondiale, in questa località fu fondata un’azienda, Soie de Châtillon (in italiano: “Seta di Châtillon”), che iniziava a lavorare nel settore delle tecnofibre con tecnologia moderna. La presenza delle centrali idroelettriche nelle vicinanze che fornivano l’energia elettrica ha condizionato la scelta del posto per l’impresa, visto che non esistevano ancora reti elettriche estese per trasportare l’elettricità.
Nel 1942 l’azienda passa sotto la proprietà della Società Saifta (Società Anonima Italiana per le Fibre Tessili Artificiali S.p.A.).
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Società Saifta, che gestiva lo stabilimento “Soie” di Châtillon, destinato inizialmente al convitto per le operaie, chiama i salesiani e mette loro a disposizione questi edifici per accogliere, in qualità di convittori, orfani di guerra e figli dei dipendenti della “Soie”. Così ha inizio l’Istituto Orfanotrofio Salesiano “Don Bosco” di Châtillon, nome che è rimasto fino a oggi, anche se gli orfani non ci sono più.
Alla fine dell’agosto del 1948, 33 ragazzi iniziavano un corso di Avviamento Professionale di tipo Industriale nelle due specializzazioni per Meccanici-aggiustatori e Falegnami-ebanisti: quest’ultima specializzazione era molto utile nella zona geografica montuosa, ricca di boschi.
Alcuni mesi più tardi, il 5 febbraio del 1949 si inaugurava ufficialmente l’Orfanotrofio “Don Bosco”, destinato ad accogliere i giovani poveri della Valle d’Aosta ed avviarli all’apprendimento di una professione.
Con l’introduzione della scuola dell’obbligo, nell’anno 1965, l’Avviamento Professionale viene sostituito dalla Scuola Media, e la Scuola Tecnica dall’Istituto Professionale per l’Industria e l’Artigianato (IPIA), nelle due specializzazioni: Congegnatori meccanici ed Ebanisti-mobilieri.
Alla fine degli anni ’70, la Società Saifta entra in crisi, smette di sostenere economicamente l’Orfanotrofio e mette in vendita la struttura “Soie”. La Regione Valle d’Aosta, nel maggio 1980, accorgendosi dell’importanza e del valore dell’opera – che nel frattempo si era tanto sviluppata –acquista tutta la struttura educativa e la offre in gestione ai Salesiani.
Le attività scolastiche continuano, sviluppandosi nella scuola professionale, frutto della collaborazione dei salesiani con le ditte del territorio.
Dal 1997 il Centro di Formazione Professionale (CFP) offre corsi per falegnami, meccanici, grafici.
Nel 2004 il CFP offre corsi per impiantisti elettrici e anche corsi post diploma.
Dal 2006 ci sono corsi per impiantisti elettrici, meccanici, corsi post diploma e meccanici d’auto.
A partire dall’anno scolastico 2010-2011, con la riforma Gelmini, l’Istituto Professionale passa da percorso triennale a percorso quinquennale.

Attualmente la Casa Salesiana, chiamata l’Istituto Orfanotrofio Salesiano “Don Bosco”, ha vari ambiti educativi:
– un Centro di Formazione Professionale: corso triennale di motoristica d’auto e carrozzeria; corsi per lavoratori e imprese (corsi di formazione iniziale post diploma diurni e serali di aggiornamento per occupati), che fanno parte della federazione CNOS/FAP Regione Valle d’Aosta, nata nel luglio 2001;
– un Istituto Professionale per l’Industria e l’Artigianato (IPIA), con due indirizzi: MAT (Manutenzione Assistenza Tecnica-meccanica); PIA (Produzione Industria Artigianato-Made in Italy-legno);
– una Scuola Media, scuola secondaria di primo grado, paritaria, che accoglie ragazzi/e della media-bassa valle;
– un Convitto Don Bosco, riservato agli studenti frequentanti l’IPIA, che ospita dal lunedì al venerdì i ragazzi provenienti dal vicino Piemonte o dalle vallate.

La preparazione di questi giovani è affidata a una comunità educante, che ha come primi protagonisti la comunità salesiana, i laici docenti, educatori, collaboratori, e anche i genitori e i gruppi della famiglia salesiana (cooperatori, exallievi).

L’attenzione educativa non si è fermata però solo alla preparazione umana e professionale per formare onesti cittadini, ma anche per fare dei buoni cristiani.
Anche se gli spazi della casa – essendo troppo piccoli – non permettono di svolgere le attività di formazione cristiana, si è trovata una soluzione per queste e per le celebrazioni importanti. Più in alto e a poca distanza della Casa Salesiana di Châtillon si trova l’antica parrocchia San Pietro (attestata già dal XII secolo), che ha una grande chiesa. L’accordo con la parrocchia ha portato molti frutti, inclusi quelli della propagazione della devozione alla Madonna di don Bosco, Maria Ausiliatrice, invocazione cara ai salesiani. Il frutto di questa devozione si è manifestato anche nel ritrovo della salute di varie persone (Blanchod Martina, Emma Vuillermoz, Pession Paolina, ecc.), attestata dagli scritti dei tempi.

Il desiderio sincero di fare il bene da parte di tutti coloro che hanno dato il loro contributo allo sviluppo, ha portato al successo di quest’opera salesiana.
Prima di tutto gli imprenditori che hanno capito la necessità e importanza dell’educazione dei ragazzi a rischio, e nello stesso tempo hanno promosso la formazione di possibili futuri dipendenti. Non hanno solo offerto le loro strutture, ma hanno anche sostenuto economicamente le attività educative.
Poi la saggezza delle autorità locali, che hanno capito l’importanza dell’opera svolta in più di trent’anni e si sono subito offerti di continuare a offrire il sostegno a favore dei ragazzi e anche delle ditte del territorio, dotandole così di lavoratori qualificati.
Non da ultimo, si deve riconoscere il lavoro svolto dai salesiani e dai loro collaboratori di ogni genere che hanno fatto il possibile affinché non si spegnesse la speranza del futuro: i giovani e la loro educazione integrale.
Questa professionalità nella preparazione dei giovani, insieme con la cura delle strutture logistiche (aule, laboratori, palestre, cortili), l’accurata e costante manutenzione dei locali, il collegamento con il territorio, hanno portato a un ampio riconoscimento che si riflette anche nel fatto che una via e una piazza di Châtillon sono dedicate a san Giovanni Bosco.

Quando gli uomini cercano il bene sinceramente e si sforzano per conseguirlo, Dio dà la sua benedizione.




Hai pensato alla tua vocazione? San Francesco di Sales potrebbe aiutarti (10/10)

(continuazione dall’articolo precedente)

10. Progettiamo?

Da giovane studente Francesco di Sales (ha 22 anni) si rese conto che i pericoli per l’anima ed il corpo insidiano ad ogni momento; con l’aiuto del suo Confessore il Padre Possevino, si abbozzò un Programma di Vita o Piano Spirituale per sapere come doveva comportarsi ogni giorno ed in ogni occasione. Lo scrisse e lo leggeva frequentemente. Dice così:

1. Ogni mattina fare l’Esame di previsione: che consiste nel pensare che lavori, che riunioni, che conversazioni ed occasioni speciali si potranno presentare in quel giorno e nel pianificare come comportarsi in ognuno di quei momenti.

2. A mezzogiorno visitare il Santissimo Sacramento in qualche Chiesa e fare l’Esame Particolare circa il mio difetto dominante, per vedere se sto combattendolo e se sto tentando di praticare la virtù contraria a lui.
C’è qui un dettaglio interessante: per 19 anni il suo esame particolare lo farà circa il «cattivo genio», quel difetto tanto forte che è la sua inclinazione ad arrabbiarsi. Quando già vescovo e meravigliosamente gentile e buono, qualcuno gli domanda che cosa ha fatto per arrivare a tanto alto grado di dominio di sé stesso, risponderà: «Per 19 anni, giorno per giorno mi sono interrogato accuratamente circa il mio proposito di non trattare con asprezza nessuno». Questa dell’Esame particolare fu una pratica sommamente seguita da San Ignazio di Loyola, con veri successi spirituali. È come un’eco di quell’insegnamento del Kempis: «Se ogni anno attacchi seriamente uno dei tuoi difetti, arrivi alla santità».

3. Nessun giorno senza meditazione.
Per mezz’ora mi dedico a pensare ai favori che Dio mi ha concesso, alle grandezze e bontà di Nostro Signore, alle verità che insegna la Sacra Bibbia o agli esempi ed insegnamenti dei santi. Ed alla fine della meditazione scelgo qualche pensiero per rigirarlo nella mente durante il giorno e fare un breve proposito su come mi comporterò nelle prossime 12 ore.

4. Ogni giorno pregare il Sacro Rosario
Non trascurarlo di pregare nessun giorno della mia vita.
Questa è una Promessa che fece alla Santissima Vergine in un momento di gran affanno e per tutta la vita la compì esattamente. Ma più tardi dirà ai suoi discepoli che non facciano mai questo genere di promesse per tutta la vita, perché possono portare angoscia. Fare propositi sì, ma promesse no.

5. Nel mio tratto con gli altri essere gentile ma moderato.
Preoccuparmi più di far parlare gli altri di quello che interessa loro che parlare io. Quello che dico lo so già. Ma quello che essi dicono può aiutarmi a crescere spiritualmente. Parlando non imparo niente, ascoltando distintamente posso imparare molto.

6. Durante il giorno pensare alla presenza di Dio.
I «tuoi occhi mi vedono, i tuoi orecchi mi sentono. Se vado fino all’estremo del mondo lì Tu sei, mio Dio. Se mi nascondo nella più tremenda oscurità, lì la tua luce mi vede come se fosse di giorno», (Cf. Salmo 138). «Il Signore pagherà ad ognuno secondo le sue opere. Ognuno dovrà presentarsi davanti al Tribunale di Dio per dargli conto di quello che ha fatto, delle cose buone e delle cose brutte» (Cf. San Paolo).

7. Ogni notte, prima di coricarmi farò l’Esame del Giorno: ricorderò se ho incominciato la mia giornata raccomandandomi a Dio.
Se durante le mie occupazioni mi sono ricordato molte volte di Dio per offrirgli le mie azioni, pensieri, parole e sofferenze. Se tutto quello che ho fatto oggi è andato per amore al buon Dio. Se ho trattato bene le persone. Se non ho cercato nei miei lavori e parole di piacere al mio amor proprio e al mio orgoglio, bensì di piacere a Dio e di fare del bene al prossimo. Se ho saputo fare qualche piccolo sacrificio. Se mi sono sforzato per essere fervoroso nel discorso. E chiederò perdono al Signore per le offese che gli ho arrecato in questo giorno; farò il proposito di diventare migliore d’ora in poi; e supplicherò al cielo che mi conceda forza per essere sempre fedele a Dio; e recitando le mie tre Ave Maria, mi arrenderò pacificamente al sonno.

Ufficio Animazione Vocazionale




Zatti buon samaritano, per malati, medici e infermieri (video)

«Zatti-hospital»
Zatti e l’ospedale erano un binomio inscindibile. Padre Entraigas ricorda che quando c’era una chiamata telefonica il coadiutore rispondeva quasi a scatto: «Zatti-Hospital». Senza darsene conto egli esprimeva la realtà inscindibile tra la sua persona e l’ospedale. Divenuto responsabile dell’ospedale nel 1913 dopo la morte di padre Garrone e l’abbandono della Congregazione da parte di Giacinto Massini, egli poco a poco ne assunse ogni compito, ma fu prima di tutto e inconfondibilmente l’«infermiere» del San José. Non procedette alla buona nella preparazione, ma cercò di perfezionare anche con lo studio personale quanto aveva appreso empiricamente. Continuò a studiare per tutta la vita e soprattutto acquisì un’esperienza di grande livello grazie ai 48 anni di pratica al San José. Il dottor Sussini, che fu tra coloro che lo praticarono più a lungo, dopo aver affermato che Zatti curava i malati «con santa vocación» aggiunge: «Per quanto ne so, il Sig. Zatti, da quando lo conobbi, essendo uomo maturo, già formato, non aveva trascurato la sua cultura generale, né le sue conoscenze di infermieristica e di farmacista preparatore».
Padre De Roia così parla dell’aggiornamento professionale di Zatti: «A proposito di formazione culturale e professionale ricordo di aver visto libri e pubblicazioni di medicina e di avergli chiesto una volta quando li leggesse, mi rispose che lo faceva di notte o durante l’ora della siesta dei malati, una volta che aveva finito i suoi compiti in ospedale. Mi ha anche detto che il dottor Sussini a volte gli prestava qualche libro e ho visto che consultava spesso il “Vademecum e ricettari”».
Il dottor Pietro Echay afferma che per Zatti «el Hospital era un Santuario». Padre FelicianoLópez così descrive la posizione di Zatti all’ospedale, dopo lunga consuetudine con lui: «Zatti era un uomo di governo, sapeva esprimere con chiarezza quello che voleva, ma accompagnava l’azione di governo con dolcezza, rispetto e gioia. Mai perdeva la calma, anzi, bonariamente minimizzava le cose, ma il suo esempio di operosità era travolgente e più che un direttore, senza titolo, era diventato una specie di lavoratore universale; a parte questo, avanzò rapidamente in competenza professionale, fino a raggiungere anche il rispetto dei medici e ancor più dei subordinati: per questo non ho mai sentito dire che in quel piccolo mondo di 60 o 70 ricoverati, nei primi tempi parecchie suore, donne che prestavano il loro servizio ed alcune infermiere, non regnasse sempre la pace, e anche se, come è logico, a volte c’erano delle liti, queste non degeneravano grazie alla prudenza di Zatti che sapeva rimediare alle deviazioni».
L’Ospedale San José era un particolare santuario della sofferenza umana dove Artemide in ogni fratello e sorella in difficoltà abbracciava e curava la carne sofferente di Cristo, dando senso e speranza al soffrire umano. Zatti – e con lui tanti uomini e donne di buona volontà – ha incarnato la parabola del Buon Samaritano: si è fatto prossimo, ha teso la mano, ha sollevato, ha curato. Per lui ogni infermo era come un figlio da amare. Uomini e donne, grandi e piccoli, ricchi e poveri, intelligenti e ignoranti tutti erano trattati in modo rispettoso e amabile, senza infastidirsi o respingere quelli insolenti e poco simpatici. Era solito dire: «A volte ti può capitare uno con una faccia simpatica, altre volte uno antipatico, però davanti a Dio siamo tutti uguali».
Se c’era povertà di mezzi, e se poveri erano molti di coloro che erano ricoverati, tuttavia Zatti all’ospedale, dati i tempi, i luoghi e le situazioni di tutti gli ospedali anche nazionali di allora, seguiva le corrette norme di sanità e igiene. Si procedeva allora con criteri più larghi, ma non risulta affatto che il salesiano coadiutore, come infermiere, verso i malati abbia mancato di giustizia e di carità. Aveva buona cultura per il suo compito e buona esperienza, sapeva quello che doveva fare e i limiti delle sue competenze, non c’è ricordo di qualche errore, di qualche trascuratezza o di qualche accusa contro di lui. Il dottor Sussini ha affermato: «Negli interventi con i malati sempre rispettava le norme legali, senza eccedere nei suoi poteri […]. Tengo a precisare che in tutti i suoi interventi consultava qualche medico tra quelli che stavano sempre al suo fianco per sostenerlo. Per quanto ne so, non ha effettuato nessun intervento difficile […]. È certo che usava le prescrizioni igieniche stabilite, anche se talvolta, data la sua grande fede, le riteneva eccessive. Lo scenario socioeconomico in cui il Sig. Zatti svolse principalmente la sua attività era di scarsa economia e istruzione e in genere di bassa istruzione. Nella sua azione all’interno dell’ospedale metteva in pratica le consolidate conoscenze di igiene e tecnica che già conosceva e altre che apprendeva chiedendo ai professionisti. Fuori dall’ospedale, la sua azione era più difficile poiché modificare l’ambiente esistente era molto difficile e al di là dei suoi sforzi».
Luigi Palma allarga la sua considerazione: «Era voce corrente a Viedma la discrezione e la prudenza del comporta-mento del Sig. Zatti; d’altra parte, qualsiasi abuso in questa materia sarebbe rapidamente risaputo in un piccolo agglomerato come Viedma e non si è mai sentito nulla. Il Sig. Zatti non ha mai ecceduto dalla sua competenza. Non credo che abbia eseguito operazioni difficili. Se ci fosse stato qualche abuso, i medici l’avrebbero segnalato, ma questi non hanno fatto altro che elogiare l’opera di Zatti […]. Il Sig. Zatti utilizzava le dovute precauzioni igieniche. Lo so perché mi ha curato in più occasioni: iniezioni o piccole cure con tutta la diligenza del caso».
A un uomo che ha speso tutta la vita con enorme sacrificio per i malati, che era ricercato da loro come una benedizione, che ha conquistato la stima di tutti i dottori che hanno collaborato con lui e contro cui mai poté essere elevata una voce di accusa, risulterebbe ingiusto rinfacciare qualche libertà che la sua esperienza e prudenza gli potevano permettere in qualche particolare circostanza: l’esercizio sublime della carità, anche in questo caso, valeva più dell’osservanza di una prescrizione formale.

Con il cuore di don Bosco
In Zatti si realizzato ciò che Don Bosco aveva raccomandato ai primi missionari salesiani in partenza per l’Argentina: «Prendete cura speciale degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri, e guadagnerete la benedizione di Dio e la benevolenza degli uomini». Zatti come Buon Samaritano ha accolto nella locanda del suo cuore e nell’Ospedale San José di Viedma i poveri, gli infermi, gli scartati dalla società. In ciascuno di essi ha visitato Cristo, ha curato Cristo, ha alimentato Cristo, ha vestito Cristo, ha ospitato Cristo, ha onorato Cristo. Come testimoniò un medico dell’ospedale: «L’unico miracolo che ho visto nella mia vita è il Sig. Zatti, per la straordinarietà del suo carattere, la capacità di servizio al prossimo e la straordinaria pazienza con gli infermi».
Zatti seppe riconoscere in ogni fratello, in ogni sorella, in ogni persona soprattutto povera e bisognosa che incontrava un dono: riuscirà a vedere in ciascuno di loro il volto luminoso di Gesù. Quante volte esclamerà accogliendo un povero o un infermo: «Gesù viene! – Cristo arriva!». Questo tener fisso lo sguardo su Gesù, soprattutto nell’ora della prova e della notte dello spirito, sarà la forza che gli permetterà di non cadere prigioniero dei propri pensieri e delle proprie paure.
Nell’esercizio di tale carità, Zatti faceva trasparire l’abbraccio di Dio per ogni uomo, in particolare per gli ultimi e i sofferenti, coinvolgendo cuore, anima e tutto il suo essere, perché viveva con i poveri e per i poveri. Non era semplice prestazione di servizi, ma manifestazione tangibile dell’amore di Dio, riconoscendo e servendo nel povero e nell’ammalato il volto del Cristo sofferente con la delicatezza e la tenerezza di una madre. Vivendo con i poveri praticava la carità con spirito di povertà. Non era un funzionario o un burocrate, un prestatore di servizi, ma un autentico operatore di carità: e nel vedere, riconoscere e servire Cristo nei poveri e negli esclusi, educava anche gli altri. Quando chiedeva qualcosa, lo chiedeva per Gesù: «Mi dia un vestito per un Gesù vecchietto»; «Mi dia dei vestiti per un Gesù di 12 anni!».
Impossibile non ricordare le sue avventure in bicicletta, i suoi giri instancabili, con il suo classico spolverino bianco con le estremità annodate e allacciato in vita, salutato con tenero affetto da quanti incontrava sul suo cammino. Nel lento procedere con la bicicletta aveva tempo per tutto: il saluto affettuoso, la parola cordiale, il consiglio misurato, qualche indicazione terapeutica, un aiuto spontaneo e disinteressato: le sue ampie tasche erano sempre piene di medicinali, che distribuiva a piene mani ai bisognosi. Raggiungeva personalmente coloro che lo chiamavano, prodigando non solo le sue conoscenze mediche, che possedeva ben solide, ma anche la fiducia, l’ottimismo, la fede che irradiava il suo sorriso costante, ampio e dolce e la bontà del suo sguardo; l’infermo gravemente ammalato che riceveva la visita del Sig. Zatti ne sentiva il sollievo imponderabile che gli dispensava colui che stava al suo fianco; l’infermo che moriva con la presenza di Zatti lo faceva senza angosce né contorsioni. La carità dispensata tanto generosamente per le strade fangose di Viedma ha ben meritato che Artemide Zatti fosse ricordato in città con una via, un ospedale e un monumento a suo nome.
Esercitava un apostolato spicciolo che dava la misura della sua carità, ma che comportava per lui tempo, lavoro, difficoltà e fastidi molteplici. Siccome era a tutti nota la sua bontà e la sua buona volontà nel servire gli altri, tutti si rivolgevano a lui per le cose più disparate. I direttori salesiani delle case dell’ispettoria scrivevano per consigli medici, gli mandavano confratelli da assistere, affidavano al suo ospedale persone di servizio diventate inabili. Le Figlie di Maria Ausiliatrice non erano da meno dei salesiani nel chiedere favori. Gli emigranti italiani chiedevano aiuti, facevano scrivere in Italia, sollecitavano pratiche. Coloro che erano stati ben curati all’ospedale, quasi fosse espressione di gratitudine, gli inviavano parenti e amici da assistere per la stima che avevano delle sue cure. Le autorità civili avevano spesso persone inabili da sistemare e ricorrevano a Zatti. I carcerati e altre persone, vedendolo in buoni rapporti con le autorità, si raccomandavano perché chiedesse clemenza per loro o facesse procedere la soluzione dei loro problemi.
Un fatto che esprime bene la forza autorevole di Zatti nell’incidere nella vita delle persone con la sua testimonianza evangelica e la parola persuasiva è la conversione di Lautaro Montalva. Costui, detto il Cileno dal paese d’origine, era un rivoluzionario, sfruttato dai soliti agitatori politici. Diffondeva riviste contro la religione. Abbandonato infine da tutti, cadde in miseria e fu ridotto in fin di vita, con una numerosa famiglia. Solo Zatti ebbe il coraggio di entrare nella sua stamberga di legno, resistere alla sua prima reazione di ribellione e conquistarlo con la sua carità. Il rivoluzionario si ammansì e chiese di essere battezzato: furono battezzati anche i suoi figli. Zatti lo ricoverò all’ospedale. Poco prima di morire aveva chiesto al parroco: «Datemi i sacramenti che deve ricevere un cristiano!». La conversione del Montalva fu una conquista della carità e del coraggio cristiano di Zatti.
Zatti fa della missione a servizio dei malati il proprio spazio educativo dove incarnare quotidianamente il Sistema preventivo di Don Bosco – ragione, religione, amorevolezza – nella vicinanza e assistenza ai bisognosi, nell’aiuto a comprendere e accettare le situazioni dolorose della vita, nella testimonianza viva della presenza del Signore.

Zatti infermiere
Il profilo professionale di Artemide Zatti, iniziato con una promessa, era radicato nella fiducia nella Provvidenza e si sviluppò una volta guarito dalla malattia. La frase “Credetti, Promisi, Guarii”, motto della sua canonizzazione, mostra la totale dedizione che Zatti aveva per i suoi fratelli malati, i più poveri e bisognosi.
Questo impegno lo portò avanti quotidianamente fino alla sua morte nell’ospedale di San José, fondato dai primi salesiani arrivati in Patagonia, e lo ribadiva durante in ogni visita domiciliare, urgente o meno, che faceva ai malati che avevano bisogno di lui.
In bicicletta, nel suo ufficio di amministratore, in sala operatoria, nel cortile durante la ricreazione con i suoi poveri “parenti”, nei reparti dell’ospedale che visitava ogni giorno, era sempre un infermiere; un santo infermiere dedito a curare e alleviare, portando la migliore medicina: la presenza allegra e ottimista dell’empatia.

Una persona e una squadra che fanno del bene
Era la fede che spingeva Artemide Zatti ad un’attività instancabile, ma ragionevole. La sua consacrazione religiosa lo aveva introdotto direttamente e completamente nella cura dei poveri, dei malati e di coloro che hanno bisogno della salute e della consolazione misericordiosa di Dio.
Il sig. Zatti lavorava nel mondo della sanità a fianco di medici, infermieri, personale sanitario, Figlie di Maria Ausiliatrice e di tante persone che collaborarono con lui al sostegno dell’ospedale San José, il primo della Patagonia argentina, nella Viedma della prima metà del XX secolo.
La tubercolosi che contrasse all’età di vent’anni non fu un ostacolo a perseverare nella sua scelta professionale. Egli trovò nella figura del salesiano coadiutore lo stile dell’impegno a lavorare direttamente con i poveri. La sua consacrazione religiosa, vissuta nella sua professione di infermiere, è stata la combinazione della sua vita dedicata a Dio e ai fratelli. Naturalmente questo si è manifestato in una personalità peculiare, unica e irripetibile. Artemide Zatti era una persona buona, che lavorava direttamente con i poveri, facendo del bene.

Il contatto diretto con i poveri era finalizzato alla salute, cioè a lenire il dolore, a sopportare la sofferenza, ad accompagnare gli ultimi momenti della loro vita, ad offrire un sorriso di fronte all’irreversibile, a dare una mano con speranza. Per questo motivo, Zatti divenne una “presenza-medicina”: curava direttamente con la sua gradevole presenza.
Il suo principale biografo, il salesiano Raul Entraigas, ha fatto una scoperta originale. Individuò nella frase di un compaesano la sintesi della vita di Artemide Zatti: sembra essere “il parente di tutti i poveri”. Zatti vede Gesù stesso negli orfani, nei malati e negli indigeni. E li trattava con tanta vicinanza, apprezzamento e amore, che sembrava che fossero tutti suoi familiari.

Formarsi per aiutare
Vedendo i bisogni del villaggio, Zatti perfezionò la sua professione. Gradualmente divenne responsabile dell’ospedale, studiò e convalidò le sue conoscenze con lo Stato quando gli venne richiesto. I medici che lavoravano con Artemide, come i dottori Molinari e Sussini, testimoniano che Zatti possedeva una grande conoscenza medica, frutto non solo della sua esperienza, ma anche dei suoi studi.
Don De Roia aggiunge: “Per quanto riguarda la sua formazione culturale e professionale, ricordo di aver visto libri e pubblicazioni di medicina e, chiedendogli una volta quando li leggeva, mi disse che lo faceva la sera o durante il riposo pomeridiano dei pazienti, una volta finite tutte le mansioni all’Ospedale”.
Esiste a tal proposito un documento, “Credenziali Professionali”, rilasciato dalla Segreteria della Salute Pubblica della Nazione Argentina con tanto di matricola professionale di infermiere numero 07253. Furono gli studi che aveva realizzato all’Università Nazionale di La Plata nel 1948, all’età di 67 anni. A ciò si aggiunge una precedente certificazione, nel 1917, come “Idoneo” in Farmacia.
Il suo stile di vita lo portò ad un impegno in cui incontrava direttamente i poveri, i malati, i più bisognosi. Per questo la professione infermieristica aveva un valore aggiunto: la sua presenza era una testimonianza della bontà di Dio. Questo semplice modo di guardare la realtà possa aiutare a capire meglio la vita di Zatti, prestando particolare attenzione al termine “direttamente”.
In questa prospettiva troviamo ciò che di più genuino c’è in Zatti, che evidenzia ciò che si definisce “vita religiosa” o “consacrazione”. Per questo Artemide è un salesiano santo. È un infermiere santo. Questa è l’eredità che ha lasciato a tutti. E questa è la sfida che lancia a tutti e che invita a raccogliere.

1908
Guarita la salute, Zatti entrò nella Congregazione Salesiana come coadiutore. Inizia ad occuparsi della farmacia dell’ospedale San José, l’unico a Viedma.
1911
Dopo la morte di don Evasio Garrone, direttore dell’ospedale, Zatti resta a capo della farmacia e dell’ospedale, il primo in Patagonia. Ci ha lavorato per quarant’anni.
1917
Ha conseguito il titolo di “Idóneo in Farmacia” presso l’Università di La Plata.
1941
L’edificio dell’ospedale viene demolito. Pazienti e professionisti si trasferiscono con Zatti alla scuola agraria “San Isidro”.
1948
Zatti ottiene l’iscrizione all’Infermieristica presso l’Università di La Plata.

Zatti con i medici: era un padre!
Tra i principali collaboratori di Zatti all’Ospedale San José vi furono i medici. I rapporti erano delicati, perché un medico era il direttore dell’ospedale dal punto di vista legale e aveva la responsabilità professionale sui malati. Zatti aveva la responsabilità organizzativa e infermieristica e potevano sorgere contrasti. Dopo i primi anni, a Viedma, capitale del Rio Negro, e a Patagones vennero parecchi medici e Zatti doveva servirsi delle loro specializzazioni all’ospedale senza destare rivalità. Agì in modo tale da conquistare la stima di tutti per la sua bontà e competenza. Nella documentazione troviamo i nomi dei direttori dottor Riccardo Spurr e dottor Francesco Pietrafraccia; poi di Antonio Gumersindo Sussini, di Ferdinando Molinari, di Pietro Echay, di Pasquale Attilio Guidi e Giovanni Cadorna Guidi, che deporranno circa la santità di Zatti; e infine di Harosteguy, di Quaranta e Cessi. Altri certo ce ne furono, più di passaggio, perché, dopo un periodo di tirocinio, i medici aspiravano a sedi più centrali e sviluppate. È unanime il riconoscimento che Zatti, come infermiere, era sottomesso alle indicazioni e norme dei dottori: presso tutti aveva un gran prestigio per la sua bontà e non destava rimostranze per l’assistenza da lui prestata ai malati degenti nella propria casa. Il dottor Sussini che lo seguì fino alla morte ha dichiarato: «Tutti i medici, nessuno escluso, gli manifestavano affetto e rispetto per le sue virtù personali, per la sua bontà, la sua misericordia e la sua fede pura, sincera e disinteressata»[i].
Il dottor Pasquale Attilio Guidi ha precisato: «Sempre corretto, seguiva le disposizioni dei medici. Ricordo che il dottor Harosteguy, che era abbastanza “contestatore”, nervoso, quando ero presente durante un’operazione, a volte incolpava il Sig. Zatti dei suoi problemi; ma alla fine delle operazioni lo accarezzava e gli chiedeva scusa. Così capivamo che non c’era tanta lamentela contro Zatti. Zatti era una persona stimata da tutti»[ii]. La figlia del dottor Harosteguy e il dottor Echay confermano il carattere forte di Harosteguy e gli ingiustificati scatti contro Zatti che lo conquistava con la sua sopportazione. Anzi proprio il dottor Harosteguy, quando si ammalerà, solo a Zatti permetterà di vistarlo, gradendo e apprezzando la sua presenza e vicinanza.
Il dottor Molinari testimoniò: «Il Sig. Zatti rispettava il corpo medico e ne seguiva rigorosamente le istruzioni. Ma dato il gran numero di pazienti che richiedevano esclusivamente il suo intervento, dovette agire molte volte spontaneamente, ma sempre sulla base delle sue grandi conoscenze, della sua esperienza e secondo le proprie conoscenze mediche. Mai osò un intervento chirurgico difficile. Sempre chiamava il dottore. Noi medici abbiamo avuto affetto, rispetto e ammirazione per il Sig. Zatti. Era generale questo sentimento […] Direi che i pazienti “adoravano” il Sig. Zatti e avevano cieca fiducia in lui»[iii].
Il dottor Echay fa questa singolare constatazione: «Con tutto il personale dell’ospedale Zatti era un padre; anche con noi medici più giovani era un buon consigliere»[iv]. A proposito delle visite che Zatti faceva in città, dice il dottor Guidi: «I medici non hanno mai visto negativamente quest’opera di Zatti, ma come collaborazione. […]. I pazienti da lui assistiti gli eleverebbero un monumento»[v].
Anche gli estranei videro sempre stretti rapporti di collaborazione e di stima tra Zatti e i dottori, come testimonia padre López: «Il comportamento del Sig. Zatti verso i dottori era da loro giudicato con spirito di cordiale accoglienza. Tutti i medici con cui ho parlato ne erano, senza eccezione, suoi ammiratori»[vi]. E ancora lo stesso padre López: «C’è sempre stata fama di amabilità di Zatti nei confronti dei dottori, la sua tolleranza e umanità di fronte alle scortesie tipiche di molti medici; in particolare il dottor Harosteguy era un uomo violento e la virtù di Zatti nei suoi confronti si può dedurre perché divenne un ammiratore di Zatti, con sfumature di venerazione»[vii]. Oscar Garcia usa un’espressione efficace: «I medici collaboravano con l’ospedale in buona parte perché lì c’era il Sig. Zatti con una carità che trascinava i cuori»[viii]. La sua vita scuoteva l’indifferenza religiosa di qualcuno di essi: «Quando vedo Zatti vacilla la mia incredulità»[ix]. In non pochi casi c’erano conversioni e inizi di vita cristiana.

Zatti e le infermiere: per noi era tutto!
Il gruppo più numeroso per il servizio dell’ospedale era costituito dalle collaboratrici femminili. Il San José aveva in certi momenti fino a 70 letti: è naturale che fossero necessarie infermiere professionalmente preparate, aiutanti di cucina, lavandaie e stiratrici, incaricate della pulizia e altro personale. Per le occupazioni più umili e ordinarie non era difficile trovare personale, perché la popolazione aveva molti elementi poveri e una sistemazione di lavoro all’ospedale sembrava apparire particolarmente ambita e sicura. Più difficile doveva essere trovare le infermiere per le quali, forse in tutta la nazione e certamente in Patagonia, non esistevano scuole di preparazione. Zatti dovette provvedere da sé: scegliere, formare, organizzare, assistere le infermiere, procurare i mezzi di lavoro, pensare a una ricompensa, a tal punto che egli risulta essere iniziatore nella formazione del personale femminile dell’ospedale.
La Provvidenza faceva giungere all’ospedale diverse giovani buone, ma povere, che dopo essere state assistite e guarite cercavano una sistemazione nella vita. Zatti si rendeva conto della loro bontà e disponibilità; mostrava col suo esempio e con la sua parola come fosse bello servire il Signore nei fratelli malati; e poi avanzava la proposta discreta di fermarsi con lui e condividere la missione all’ospedale. Le ragazze più buone sentivano la grandezza e la gioia di questo ideale e restavano al San José. Zatti si prendeva la responsabilità di prepararle professionalmente e – da buon religioso –ne curava la formazione spirituale. Esse vennero così a costituire in gruppo una specie di congregazione senza voti, di anime elette che sceglievano di servire i poveri. Zatti dava loro tutto il necessario per la vita, anche se ordinariamente non le pagava, e pensava a una buona sistemazione qualora volessero lasciare il servizio all’ospedale. Non dobbiamo pensare che la situazione in quei tempi richiedesse tutte le garanzie che oggi esigono le strutture ospedaliere. Per quelle ragazze la soluzione offerta da Zatti dal punto di vista materiale era invidiabile non meno che dal punto di vista spirituale. Di fatto esse erano contente e quando fu chiuso l’Ospedale San José, o prima, per nessuna fu difficile trovare una buona sistemazione. Coralmente manifestarono sempre espressioni di riconoscenza.
Padre Entraigas ricorda 13 nomi del personale femminile che in tempi diversi ha lavorato all’ospedale. Tra i documenti sono raccolte le relazioni delle infermiere: Noelia Morero, Teodolinda Acosta, Felisa Botte, Andrea Rafaela Morales, Maria Danielis. Noelia Morero racconta la sua storia, che fu identica a quella di parecchie altre infermiere. Giunse al San José malata: «Qui sono stata malata e poi ho iniziato a collaborare fino alla fine del 1944, quando mi sono trasferita all’Ospedale Nazionale Regionale di Viedma, aperto nel 1945 […]. Zatti era molto amato e rispettato da tutto il personale e dai pazienti; era “il panno delle lacrime” di tutti. Non ricordo lamentele di alcun genere contro di lui. Quando Zatti entrava nelle stanze, sembrava che entrasse “Dio stesso!”. Non saprei come dirlo. Per noi era tutto. Non ho conosciuto particolari difficoltà; da malata non mi è mai mancato nulla: né cibo, né medicine, né vestiti. Il Sig. Zatti si preoccupava soprattutto della formazione morale del personale. Ricordo che ci ha fatto imparare con lezioni pratiche, accompagnandolo nei momenti in cui visitava gli infermi e dopo una o due volte ce lo faceva fare soprattutto con i casi più gravi»[x].

Film visto prima della conferenza



Video de la conferenza: Zatti buon samaritano, per malati, medici e infermieri
Conferenza tenuta da don Pierluigi CAMERONI, Postulatore Generale della Società Salesiana di san Giovanni Bosco a Valdocco, nel 15.11.2023.




[i] Testimonianza del dottor Antonio Gumersindo Sussini. Positio – Summarium, p. 139, § 561.

[ii] Testimonianza di Attilio Guidi, farmacista. Conobbe Zatti dal 1926 al 1951. Positio – Summarium, p. 99, § 386.

[iii] Testimonianza del dottor Ferdinando Molinari. Conobbe Zatti dal 1942 al 1951. Divenne medico dell’Ospedale San José e nell’ultima malattia lo curò. Tenne il discorso ufficiale in occasione dell’inaugurazione del monumento a Zatti. Positio – Summarium, p. 147, § 600.

[iv] Testimonianza del dottor Pietro Echay. Positio – Informatio, p. 108.

[v] Testimonianza di Attilio Guidi. Positio – Summarium, p. 100, § 391.

[vi] Testimonianza di padre Feliciano López. Positio – Summarium, p. 171, § 694.

[vii] Ivi, p. 166, § 676.

[viii] Testimonianza di Oscar García, impiegato di polizia. Conobbe Zatti nel 1925, ma trattò con lui soprattutto dopo il 1935, sia come dirigente degli ex-allievi, sia come membro del Circolo Operaio. Positio – Summarium, p. 111, § 440.

[ix] Testimonianza di padre Feliciano López. Positio – Summarium, p. 181, § 737.

[x] Testimonianza di Noelia Morero, infermiera. Positio – Informatio, p. 112.




Il grande dono della santità di Artemide Zatti, salesiano coadiutore (video)

            La cronaca del collegio salesiano di Viedma ricorda che, secondo l’usanza, il 15 marzo 1951 al mattino il campanone annuncia il volo al cielo del confratello coadiutore Artemide Zatti, e riporta queste profetiche parole: «Un fratello in meno in casa e un santo in più in cielo».
            La canonizzazione di Artemide Zatti, il 9 ottobre 2022, è un dono di grazia; la testimonianza di santità che il Signore ci dona attraverso questo fratello che ha vissuto la sua vita nella docilità allo Spirito Santo, nello spirito di famiglia tipico del carisma salesiano, incarnando la fraternità verso i confratelli e la comunità salesiana, e la prossimità verso i poveri e gli ammalati e verso chiunque incontrava sulla sua strada, è un evento di benedizione da accogliere e far fruttificare.
            Sant’Artemide Zatti risulta modello, intercessore e compagno di vita cristiana, vicino a ciascuno. Infatti, la sua avventura ce lo presenta come persona che ha sperimentato la fatica quotidiana dell’esistenza con i suoi successi e i suoi fallimenti. Basta ricordare il distacco dal paese natale per emigrare in Argentina; la malattia della tubercolosi che irrompe come un uragano nella sua giovane esistenza, frantumando ogni sogno e ogni prospettiva di futuro; il vedere demolire l’ospedale che aveva costruito con tanti sacrifici ed era diventato santuario dell’amore misericordioso di Dio. Ma Zatti trova sempre nel Signore la forza di rialzarsi e proseguire il cammino.

Testimone di speranza
            Per il tempo drammatico che stiamo vivendo segnato dalla pandemia, da tante guerre, dall’emergenza climatica e soprattutto dalla crisi e dall’abbandono della fede in tante persone, Artemide Zatti ci incoraggia a vivere la speranza come virtù e come atteggiamento di vita in Dio. La sua storia ci ricorda come il cammino verso la santità richieda molto spesso un cambio di rotta e di visione. Artemide in diversi passaggi della sua vita ha scoperto nella Croce la grande opportunità di rinascere e ripartire:
            – quando da ragazzo, nei duri e faticosi lavori di campagna, impara subito ad affrontare le fatiche e le responsabilità che lo avrebbero sempre accompagnato negli anni della maturità;
            – quando a 17 anni con la sua famiglia emigra in Argentina in cerca di maggior fortuna;
            – quando giovane aspirante alla vita salesiana è colpito da tubercolosi, contagiato da un giovane sacerdote che stava aiutando proprio perché molto malato. Il giovane Zatti sperimenta nella propria carne il dramma della malattia, non solo come fragilità e sofferenza del corpo, ma anche come un qualcosa che tocca il cuore, che genera paure e moltiplica interrogativi, facendo emergere con preponderanza la domanda di senso per tutto quello che succede e quale futuro gli si pari davanti, vedendo che ciò che sognava, e a cui anelava, d’improvviso viene meno. Nella fede si rivolge a Dio, ricerca un nuovo significato e una nuova direzione all’esistenza a cui non trova né subito, né facilmente risposta. Grazie alla presenza saggia e incoraggiante di padre Cavalli e di padre Garrone e leggendo in spirito di discernimento e di obbedienza le circostanze della vita, matura la vocazione salesiana come fratello coadiutore dedicando tutta la vita alla cura materiale e spirituale degli ammalati e all’assistenza ai poveri e ai bisognosi. Decide di restare con Don Bosco, vivendo in pienezza l’originale vocazione del coadiutore;
            – quando deve affrontare prove, sacrifici e debiti per portare avanti la missione a favore dei poveri e degli ammalati gestendo l’ospedale e la farmacia, confidando sempre nell’aiuto della Provvidenza;
            – quando vede demolire l’ospedale a cui aveva dedicato tante energie e risorse, per costruirne uno nuovo;
            – quando nel 1950 cade da una scala e si manifestano i sintomi di un tumore, da lui stesso lucidamente diagnosticato, che lo avrebbe portato alla morte, poi avvenuta il 15 marzo 1951: continua tuttavia ad attendere alla missione alla quale si era consacrato, accettando le sofferenze di questo ultimo tratto di vita.

L’esodo pasquale: da Bahía Blanca a Viedma
            Con tutta probabilità Artemide giunse a Bahía Blanca da Bernal nella seconda metà di febbraio del 1902. La famiglia lo ricevette con la pena e l’affetto che si può immaginare. Soprattutto la mamma si dedicò a lui con tanto amore perché recuperasse forze e salute, vista l’estrema debolezza in cui versava, e desiderava curarlo lei stessa. Chi si oppose a questa soluzione fu proprio Artemide che, sentendosi ormai intimamente legato ai salesiani, voleva ubbidire a quanto avevano deciso i superiori di Bernal e recarsi a Junín de los Andes per curare la salute. Il pensiero dominante e non più rinunciabile per lui era la volontà di seguire la vocazione per la quale si era incamminato, diventare salesiano sacerdote e, nonostante il buio sul suo futuro, per essa avrebbe affrontato ogni difficoltà e sacrificio: intendeva rinunziare anche alle cure della mamma e della famiglia, nel timore che avrebbero potuto fermarlo nel suo proposito. Egli ha incontrato Gesù, ne ha sentito la chiamata, lo vuole seguire, anche se forse non sarà nei modi che lui pensa e desidera.
            I genitori, per risolvere il problema del figliolo, si rivolsero al consigliere di famiglia padre Carlo Cavalli, il quale sconsigliò assolutamente e provvidenzialmente di mandare Artemide a Junín, località troppo lontana per le sue deboli forze. Invece, poiché proprio in quegli anni si era affermata a Viedma la fama di padre Evasio Garrone come dottore, molto saggiamente padre Cavalli pensò che fosse miglior cosa affidarlo a lui per una buona cura. Anche la distanza di soli 500 km, con i mezzi di trasporto dell’epoca, faceva propendere per questa soluzione. La famiglia accettò, il buon parroco pagò il viaggio sulla Galera del signor Mora e Artemide, convinto dal suo direttore spirituale, partì per Viedma.
            La Galera, una specie di corriera tirata da cavalli, era l’unico mezzo di trasporto pubblico del tempo per viaggiare da Bahía Blanca a Viedma, attraversando il fiume Colorado. Ci fu anche il contrattempo che la Galera smarrì il cammino, per cui i viaggiatori dovettero dormire alle intemperie e arrivarono il martedì e non il lunedì, come previsto. Il viaggio dovette essere molto doloroso, anche se Artemide «copre tutto con l’ottimismo di un santo con fame e sete di immolazione. Ma cosa ha sofferto quel pover’uomo solo Dio lo sa».

            Ecco il testo della lettera scritta da Artemide ai familiari subito dopo l’arrivo a Viedma.

Cari genitori e fratelli.
Viedma, 5.3.902

Arrivato a Viedma ieri mattina, dopo felice viaggio di «Galera» oggi prendo l’occasione di scrivervi facendovi noto che andai bene, come dissi, perché la «Galera» andava poco carica di gente e mercanzie, solo altro vi dirò che dovevamo arrivare al lunedì a Patagones, ma per aver perduto il cammino dormimmo nel campo a cielo scoperto ed arrivammo martedì mattina, dove con gran giubilo trovai i miei confratelli salesiani. In quanto alla salute mi visitò il medico R. D. Garrone e mi promise che in un mese sarò perfettamente sano. Con l’aiuto di Maria SS. nostra buona Madre, e di D. Bosco speriamo sempre bene. Pregate per me ed io pregherò per voi e mi firmo vostro

ARTEMIDE ZATTI
Addio a tutti

            Questa lettera è un capolavoro di speranza, un condensato di ottimismo evangelico: è una parabola di vita dove, nonostante aleggi lo spettro della morte e si smarrisca la strada, c’è un orizzonte che si apre all’infinito. In quella notte, passata nei campi della terra patagonica contemplando le stelle, il giovane Artemide esce dal suo turbamento, dal suo scoraggiamento. Liberato da uno sguardo puntato solo verso il basso, può alzare gli occhi e guardare il cielo per contare le stelle; liberato dalla tristezza e dalla paura di non avere futuro, liberato dalla paura di rimanere solo, dalla paura della morte, fa l’esperienza che la bontà di Dio è immensa come un cielo stellato e che le grazie possono essere infinite, come le stelle. Così al mattino giunge a Viedma come nella terra promessa, dove «con grande giubilo» è accolto da quelli che ritiene già confratelli, dove sente parole e promesse che parlano di guarigione, dove con piena fiducia nell’«aiuto di Maria SS. nostra buona Madre e di Don Bosco», approda alla città dove avrebbe profuso la sua carità per tutta la vita. Passati i guadi in piena del Rio Colorado, rinasceva anche la speranza per la sua salute e per il suo futuro.

El pariente de todos los pobres
            Artemide Zatti ha consacrato la sua vita a Dio nel servizio ai malati e ai poveri, che diventano i suoi tesori. Responsabile dell’Ospedale San José in Viedma, allarga la cerchia degli assistiti raggiungendo, con l’inseparabile bicicletta, tutti i malati della città, specialmente i più poveri. Amministra tanto denaro, ma la sua vita è poverissima: per il viaggio in Italia in occasione della canonizzazione di Don Bosco gli si dovettero prestare vestito, cappello e valigia. È amato e stimato dagli ammalati; amato e stimato dai medici che gli danno la massima fiducia, e si arrendono all’ascendente che scaturisce dalla sua santità. Il segreto di tanto ascendente? Eccolo: per lui ogni ammalato era Gesù in persona. Alla lettera! Da parte sua non ci sono dubbi: tratta ciascuno con la medesima tenerezza con cui avrebbe trattato Gesù stesso, offrendo la propria camera in casi di emergenza, o collocandovi anche un cadavere in momenti di necessità. Continua instancabile la sua missione tra i malati con serenità, fino al termine della vita, senza prendersi mai riposo.
            Con il suo retto atteggiamento ci restituisce una visione salesiana del «saper rimanere» nella nostra terra di missione per illuminare chi rischia di perdere la speranza, per rafforzare la fede di chi si sente venir meno, per essere segno dell’amore di Dio quando “sembra” che Egli sia assente dalla vita di ogni giorno.
            Tutto questo lo portava a riconoscere la singolarità di ogni malato, con la sua dignità e le sue fragilità, sapendo che il malato è sempre più importante della malattia, e per questo curava l’ascolto dei pazienti, della loro storia, delle loro ansie, delle loro paure. Sapeva che anche quando non è possibile guarire, sempre è possibile curare, sempre è possibile consolare, sempre è possibile far sentire una vicinanza che mostra interesse alla persona prima che alla sua malattia. Si ferma, ascolta, stabilisce una relazione diretta e personale con l’infermo, sente empatia e commozione per lui o per lei, si lascia coinvolgere dalla sua sofferenza fino a farsene carico nel servizio.
Artemide ha vissuto la prossimità come espressione dell’amore di Gesù Cristo, il Buon Samaritano, che con compassione si è fatto vicino a ogni essere umano, ferito dal peccato. Si è sentito chiamato ad essere misericordioso come il Padre e ad amare, in particolare, i fratelli malati, deboli e sofferenti. Zatti ha stabilito un patto tra lui e i bisognosi di cura, un patto fondato sulla fiducia e il rispetto reciproci, sulla sincerità, sulla disponibilità, così da superare ogni barriera difensiva, mettendo al centro la dignità del malato. Questa relazione con la persona malata aveva per Zatti la sua fonte inesauribile di motivazione e di forza nella carità di Cristo.
            E ha vissuto questa vicinanza, oltre che personalmente, in forma comunitaria: infatti ha generato una comunità capace di cura, che non abbandona nessuno, che include e accoglie soprattutto i più fragili. La testimonianza di Artemide ad essere Buon Samaritano, ad essere misericordioso come il Padre, era una missione e uno stile che coinvolgeva tutti coloro che in qualche modo si dedicavano all’ospedale: medici, infermieri, addetti all’assistenza e alla cura dei malati, religiose, volontari che donavano tempo prezioso a chi soffre. Alla scuola di Zatti il loro servizio accanto ai malati, svolto con amore e competenza, diventa una missione. Zatti sapeva e inculcava la consapevolezza che le mani di tutti coloro che erano con lui toccavano la carne sofferente di Cristo e dovevano essere segno delle mani misericordiose del Padre.

Salesiano coadiutore
            La simpatica figura di Artemide Zatti è invito a proporre ai giovani il fascino della vita consacrata, la radicalità della sequela di Cristo obbediente, povero e casto, il primato di Dio e dello Spirito, la vita fraterna in comunità, lo spendersi totalmente per la missione. La vocazione del salesiano coadiutore fa parte della fisionomia che Don Bosco volle dare alla Congregazione Salesiana. Essa sboccia più facilmente laddove sono promosse tra i giovani le vocazioni laicali apostoliche e viene loro offerta una gioiosa ed entusiastica testimonianza della consacrazione religiosa, come quella di Artemide Zatti.

Artemide Zatti santo!
            Sulla scia di San Francesco di Sales, assertore e promotore della vocazione alla santità per tutti, la testimonianza di Artemide Zatti ci ricorda, come afferma il Concilio Vaticano II, che: «tutti i fedeli d’ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità, la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste». Sia san Francesco di Sales, sia Don Bosco, sia Artemide fanno della vita quotidiana un’espressione dell’amore di Dio, ricevuto e ricambiato. La testimonianza di Artemide Zatti ci illumina, ci attrae e ci mette anche in discussione, perché è “Parola di Dio” incarnata nella storia e vicina a noi.
            Attraverso la parabola della vita di Artemide Zatti risalta anzitutto la sua esperienza dell’amore incondizionato e gratuito di Dio. In primo luogo, non ci sono le opere che lui ha compiuto, ma lo stupore di scoprirsi amato e la fede in questo amore provvidenziale in ogni stagione della vita. È da questa certezza vissuta che sgorga la totalità di donazione al prossimo per amore di Dio. L’amore che riceve dal Signore è la forza che trasforma la sua vita, dilata il suo cuore e lo predispone ad amare. Con lo stesso Spirito, lo Spirito di santità, amore che ci guarisce e ci trasforma Artemide:
            – fin da ragazzo fa scelte e compie gesti di amore in ogni situazione e con ogni fratello e sorella che incontra, perché si sente amato e ha la forza di amare;
            – ancora adolescente in Italia, egli sperimenta i disagi della povertà e del lavoro, ma pone il fondamento di una solida vita cristiana, dando le prime prove della sua carità generosa;
            – emigrato con la famiglia in Argentina, sa custodire e far crescere la sua fede, resistendo a un ambiente spesso immorale e anticristiano e maturando, grazie all’incontro con i salesiani e all’accompagnamento spirituale di padre Carlo Cavalli, l’aspirazione alla vita salesiana, accettando di ritornare sui banchi di scuola con ragazzini di dodici anni, lui che di anni ne aveva già venti;
            – si offre con pronta disponibilità ad assistere un sacerdote malato di tubercolosi e ne contrae il male, senza dire una parola di lamento o di recriminazione, ma vivendo la malattia come tempo di prova e purificazione, portandone con fortezza e serenità le conseguenze;
            – guarito in modo straordinario, per intercessione di Maria Ausiliatrice, dopo aver fatto la promessa di dedicare la sua vita agli ammalati e ai poveri, vive con radicalità evangelica e gioia salesiana la consacrazione apostolica quale salesiano coadiutore;
            – vive in forma straordinaria il ritmo ordinario delle sue giornate: pratica fedele ed edificante della vita religiosa in gioiosa fraternità; servizio sacrificato a tutte le ore e con tutte le prestazioni più umili ai malati e ai poveri; lotta continua contro la povertà, nella ricerca di risorse e di benefattori per far fronte ai debiti, confidando esclusivamente nella Provvidenza; disponibilità pronta a tutte le sventure umane che chiedono il suo intervento; resistenza ad ogni difficoltà e accettazione di ogni caso avverso; dominio di sé e serenità gioiosa e ottimistica che si comunica a tutti coloro che lo avvicinano.

Settantun anni di questa vita di fronte a Dio e di fronte agli uomini: una vita consegnata con gioia e fedeltà fino alla fine, incarnata nella quotidianità, nelle corsie dell’ospedale, in bicicletta per le strade di Viedma, nei travagli della vita concreta per far fronte a esigenze e bisogni di ogni genere, vivendo le cose di ogni giorno in spirito di servizio, con amore e senza clamore, senza rivendicare niente, con la gioia della donazione, abbracciando con entusiasmo la vocazione di salesiano coadiutore e diventando riflesso luminoso del Signore.

Film visto prima della conferenza



Video de la conferenza: Il grande dono della santità di Artemide Zatti
Conferenza tenuta da don Pierluigi CAMERONI, Postulatore Generale della Società Salesiana di san Giovanni Bosco a Torino-Valdocco, nel 14.11.2023.






L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (5/5)

(continuazione dall’articolo precedente)

4. Conclusione
            Nell’epilogo della vita di Francesco Besucco don Bosco esplicita il nocciolo del suo messaggio:

             “Vorrei che facessimo insieme una conclusione, che tornasse a mio e a tuo vantaggio. È certo che o più presto o più tardi la morte verrà per ambidue e forse l’abbiamo più vicina di quel che ci possiamo immaginare. È parimente certo che se non facciamo opere buone nel corso della vita, non potremo raccoglierne il frutto in punto di morte, né aspettarci da Dio alcuna ricompensa. […] Animo, o cristiano lettore, animo a fare opere buone mentre siamo in tempo; i patimenti sono brevi, e ciò che si gode dura in eterno. […] Il Signore aiuti te, aiuti me a perseverare nell’osservanza dei suoi precetti nei giorni della vita, perché possiamo poi un giorno andare a godere in cielo quel gran bene, quel sommo bene pei secoli dei secoli. Così sia”.[1]

            È su questo punto, di fatto, che confluiscono i discorsi di don Bosco. Tutto il resto appare funzionale: la sua arte educativa, il suo accompagnamento affettuoso e creativo, i consigli offerti e il programma di vita, la devozione mariana e i sacramenti, tutto è orientato all’oggetto primo dei suoi pensieri e delle sue preoccupazioni, al grande affare della salvezza eterna.[2]
            Dunque, nella pratica educativa del Santo torinese, l’esercizio mensile della buona morte prosegue una ricca tradizione spirituale, adattandola alla sensibilità dei suoi giovani e con una marcata preoccupazione educativa. Infatti, la revisione mensile della propria vita, il rendiconto sincero al confessore-direttore spirituale, l’incoraggiamento a porsi in uno stato di costante conversione, la riconferma del dono di sé a Dio e la formulazione sistematica di proponimenti concreti, orientati alla perfezione cristiana, ne sono i momenti centrali e costitutivi. Anche le litanie della buona morte non avevano altro scopo che alimentare la confidenza in Dio e offrire uno stimolo immediato per accostarsi ai sacramenti con speciale consapevolezza. Erano anche – come dimostrano le fonti narrative – efficace strumento psicologico per rendere familiare il pensiero della morte, non in modo angosciante, ma come incentivo a valorizzare costruttivamente e gioiosamente ogni momento della vita in vista della “beata speranza”. L’accento, infatti, era posto sul vissuto virtuoso e gioioso, sul “servite Domino in laetitia”.


[1] Bosco, Il pastorello delle Alpi, 179-181.

[2] Così si conclude la Vita di Domenico Savio: “E allora colla ilarità sul volto, colla pace nel cuore andremo incontro al nostro Signore Gesù Cristo, che benigno ci accoglierà per giudicarci secondo la sua grande misericordia e condurci, siccome spero per me e per te, o lettore, dalle tribolazioni della vita alla beata eternità, per lodarlo e benedirlo per tutti i secoli. Così sia”, Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico, 136.




L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (4/5)

(continuazione dall’articolo precedente)

3. La morte come momento dell’incontro gaudioso con Dio
            Come tutte le considerazioni e le istruzioni contenute nel Giovane provveduto, anche la meditazione sulla morte è connotata da una spiccata preoccupazione didascalica.[1] Il pensiero della morte come momento che fissa tutta l’eternità deve stimolare il proposito sincero di una vita buona e virtuosa feconda di frutti:

             “Considera che il punto di morte è quel momento da cui dipende la tua eterna salute, o la tua eterna dannazione. […] Capisci ciò che ti dico? Voglio dire che da quel momento dipende l’andare per sempre in paradiso o all’inferno; o sempre contento, o sempre afflitto; o sempre figlio di Dio, o sempre schiavo del demonio; o sempre godere cogli angeli e coi santi in cielo, o gemere ed ardere per sempre coi dannati nell’inferno.
            Temi grandemente per l’anima tua e pensa che dal ben vivere dipende una buona morte ed un’eternità di gloria; perciò non perdere tempo onde fare una buona confessione, promettendo al Signore di perdonare ai tuoi nemici, di riparare lo scandalo dato, di essere più obbediente, di non perdere più tempo, di santificare le feste, di adempiere i doveri del tuo stato. Intanto posto innanzi al tuo Signore digli di cuore così: mio Signore, sino da questo punto io mi converto a voi; io vi amo, vi voglio servire e servirvi fino alla morte. Vergine santissima, madre mia, aiutatemi in quel punto. Gesù, Giuseppe e Maria, spiri in pace con voi l’anima mia”.[2]

            Tuttavia il discorso più completo e anche il più espressivo delle visioni e dei quadri culturali di don Bosco sul tema della morte lo troviamo nel suo primo testo narrativo, composto in memoria di Luigi Comollo (1844). Vi racconta la morte dell’amico “nell’atto che si pronunciavano i nomi di Gesù, e di Maria, sempre sereno, e ridente in volto, movendo egli un dolce sorriso a guisa di chi resta sorpreso alla vista di un maraviglioso, e giocondo oggetto, senza fare alcun movimento”.[3] Ma il placido trapasso così succintamente esposto era stato preceduto dalla descrizione dettagliata di una tormentata malattia finale: “Un’anima sì pura e di sì belle virtù adorna, qual era quella del Comollo, direbbesi nulla dover paventare all’avvicinarsi l’ora della morte. Eppure ne provò anch’egli grande apprensione”.[4] Luigi aveva trascorso l’ultima settimana di vita “sempre tristo, e melanconico, assorto nel pensiero dei Giudizi divini”. La sera del sesto giorno, “l’assalì un accesso di febbre convulsiva sì gagliardo, che gli tolse l’uso della ragione. Sulle prime faceva un lamento clamoroso come se fosse stato atterrito da qualche spaventevole oggetto; da lì a mezzora, tornato alquanto in sé, e guardando fisso gli astanti, proruppe in tale esclamazione, Ahi Giudizio! Quindi cominciò a dibattersi con forze tali, che cinque, o sei che eravamo astanti appena lo potevamo trattenere in letto”.[5] Dopo tre ore di delirio, “ritornò in piena cognizione di se stesso” e confidò all’amico Bosco il motivo delle sue agitazioni: gli era parso di trovarsi di fronte all’inferno spalancato, insidiato da “un’innumerevole turba di mostri”, ma era stato soccorso da una squadra “di forti guerrieri” e poi, condotto per mano da “una Donna” (“che io giudico essere la comune nostra Madre”), si era trovato “in un deliziosissimo giardino”, per questo ora si sentiva tranquillo. Così, “quanto grande era prima lo spavento, e il timore di comparire innanzi a Dio, altrettanto più allegro mostravasi di poi e desideroso che giungesse un tal momento; non più tristezza, o malinconia in volto, ma un aspetto tutto ridente, e gioviale, in guisa che sempre voleva cantare salmi, inni o laudi spirituali”.[6]
            Tensione e angoscia si risolvono in una gaudiosa esperienza spirituale: è la visione cristiana della morte sostenuta dalla certezza della vittoria sul nemico infernale per la potenza della grazia di Cristo, che schiude le porte dell’eternità beata, e per l’assistenza materna di Maria. In questa luce va interpretato il racconto del Comollo. Il “profondo abisso a guisa di fornace” presso il quale viene a trovarsi, la “turba di mostri di forma spaventevole” che tentano di precipitarlo nella voragine, i “forti guerrieri” che lo liberano “da tale frangente”, la lunga scala di accesso al “giardino maraviglioso” difesa “da tanti serpenti pronti a divorare chiunque vi ascendesse”, la Donna “vestita nella più gran pompa” che lo prende per mano, lo guida e lo difende: tutto va riportato a quell’immaginario religioso che racchiude sotto forma di simboli e metafore una solida teologia della salvezza, la convinzione della destinazione personale all’eternità felice e la visione della vita come viaggio verso la beatitudine, insidiato da nemici infernali ma sostenuto dal soccorso onnipotente della divina grazia e dal patrocinio di Maria. Il gusto romantico, che impregna di intensa emotività e drammaticità il dato di fede, si serve spontaneamente del simbolismo popolare tradizionale, tuttavia l’orizzonte è quello di una visione ampiamente ottimista e storicamente operativa della fede.
            Più oltre don Bosco riporta un ampio discorso di Luigi. È quasi un testamento in cui emergono principalmente due tematiche tra loro connesse. La prima è l’importanza di coltivare nel corso della vita il pensiero della morte e del giudizio. Gli argomenti sono quelli della predicazione e della pubblicistica devota corrente: “Non sai ancora se brevi, o lunghi saranno i giorni di tua vita; ma, checché ne sia sull’incertezza dell’ora, n’è certa la venuta; perciò fa in maniera che tutto il tuo vivere altro non sia che una preparazione alla morte, al Giudizio”. La maggior parte degli uomini non ci pensa seriamente “perciò allorché s’appressa il momento rimangono confusi, e chi muore in confusione per lo più va eternamente confuso! Felici quelli che passando i loro giorni in opere sante e pie si trovano apparecchiati per quel momento”.[7]
            Il secondo tema è il legame tra devozione mariana e buona morte. “Per tutto il tempo che militiamo in questo mondo di lacrime, non abbiamo patrocinio più possente che quello di Maria SS. […]. Oh! se gli uomini potessero essere persuasi qual contento arrechi in punto di morte essere stati divoti di Maria, tutti a gara cercherebbero nuovi modi con cui offerirle speciali onori. Sarà pur dessa, che col suo figlio tra le braccia formerà la nostra difesa contro il nemico dell’anima nostra all’ora estrema; s’armi pure contro di noi l’inferno, con Maria in nostra difesa, nostra sarà la vittoria”. Naturalmente tale devozione dev’essere corretta: “Guardati però bene dall’essere di quei tali, che per recitare a Maria qualche preghiera, per offerirle qualche mortificazione credono essere da lei protetti, mentre conducono una vita tutta libera, e scostumata. […] Sii tu sempre dei veri divoti di Maria coll’imitare le di lei virtù e proverai i dolci effetti di sua bontà, ed amore”.[8] Sono ragioni prossime a quelle presentate da Louis-Marie Grignion de Montfort (1673-1716) nel terzo capitolo del Traité de la vraie dévotion à la sainte Vierge (che tuttavia né il Comollo né Giovanni Bosco potevano conoscere).[9] Tutta la mariologia classica, veicolata dalla predicazione e dai libri ascetici, insisteva su tali aspetti: li troviamo in sant’Alfonso (Glorie di Maria);[10] prima di lui negli scritti dei gesuiti Jean Crasset e Alessandro Diaotallevi,[11] dall’opera del quale parrebbe che Comollo abbia tratto ispirazione per l’invocazione elevata prima della morte “con voce franca”:

             “Vergine santa Madre Benigna, cara madre del mio amato Gesù, voi che fra tutte le creature sola foste degna di portarlo nel Vergineo ed immacolato Seno, Deh per quel amore con cui l’allattaste, lo stringeste amorosamente fra le vostre braccia, per quel che soffriste allorché gli foste compagna nella sua povertà, allorché lo vedeste fra gli strapazzi, sputi, flagelli, e finalmente spasimare morendo in Croce; Deh per tutto questo ottenetemi il dono della fortezza, viva fede, ferma speranza, infiammata carità, con sincero dolore dei miei peccati, ed ai favori che mi avete ottenuti in tutto il tempo di mia vita, aggiungete la grazia che io possa fare una santa morte. Sì cara Madre pietosa assistetemi in questo punto che sto per presentare l’anima mia al Divin giudizio, presentatela Voi medesima nelle braccia del Vostro Divin Figlio; che se tanto mi promettete, ecco io con animo ardito, e franco appoggiato alla vostra clemenza, e bontà, presento per mezzo delle vostre mani, quest’anima mia a quella Maestà Suprema, la cui misericordia conseguire spero”.[12]

            Questo testo mostra la solidità dell’impianto teologico sottostante al sentimento religioso di cui è impregnato il racconto, e svela una devozione mariana “regolata”, una spiritualità austera e concretissima.
            I Cenni sulla vita di Luigi Comollo, con tutta la loro tensione drammatica, rappresentano la sensibilità di Giovanni Bosco seminarista e allievo del Convitto ecclesiastico. Negli anni successivi, col crescere dell’esperienza educativa e pastorale tra adolescenti e ragazzi, il Santo preferirà mettere in evidenza soltanto il lato gaudioso e rasserenante della morte cristiana. Lo vediamo soprattutto nelle biografie di Domenico Savio, Michele Magone e Francesco Besucco, ma ne troviamo esempi già nel Giovane provveduto dove, narrando la santa morte di Luigi Gonzaga, si afferma: “Le cose che ci possono turbare in punto di morte sono specialmente i peccati della vita passata e il timore dei castighi divini per l’altra vita”, ma se lo imitiamo conducendo una vita virtuosa, “veramente angelica”, potremo accogliere con gaudio l’annuncio della morte come lui, cantare il Te Deum pieni di “allegrezza” – “Oh che gioia, ce ne andiamo: Laetantes imus” – e “nel bacio di Gesù crocifisso placidamente spirò. Che bel morire!”.[13]
            Tutte e tre le Vite concludono con l’invito a tenersi preparati per fare una buona morte. Nella pedagogia di don Bosco, come se è accennato, il tema veniva declinato con accenti particolari, in funzione della conversione del cuore “franca e risoluta”[14] e del dono totale di sé a Dio, che genera un vissuto ardente, fecondo di frutti spirituali, di impegno etico ed insieme gaudioso. È questa la prospettiva nella quale, in queste biografie, don Bosco presenta l’esercizio della buona morte:[15] è uno strumento eccellente per educare alla visione cristiana della morte, per stimolare un’efficace e periodica revisione del proprio stile di vita e delle proprie azioni, per incoraggiare un atteggiamento di costante apertura e cooperazione all’azione della grazia, fruttuoso di opere, per disporre positivamente l’animo all’incontro col Signore. Non a caso i capitoli conclusivi raffigurano le ultime ore dei tre protagonisti come un’attesa fervente e tranquilla dell’incontro. Don Bosco ci riporta i dialoghi sereni, le “commissioni” affidate ai morenti[16], gli addii. L’istante della morte poi è descritto quasi come un’estasi beata.
            Domenico Savio negli ultimi momenti di vita si fa leggere dal padre le preghiere della buona morte:

             “Ripeteva attentamente e distintamente ogni parola; ma infine di ciascuna parte voleva dire da solo: «Misericordioso Gesù, abbiate pietà di me». Giunto alle parole: «Quando finalmente l’anima mia comparirà davanti a voi, e vedrà per la prima volta lo splendore immortale della vostra maestà, non la rigettate dal vostro cospetto, ma degnatevi di ricevermi nel seno amoroso della vostra misericordia, affinché io canti eternamente le vostre lodi». «Ebbene, soggiunse, questo è appunto quello che io desidero. Oh caro papà, cantare eternamente le lodi del Signore!». Poscia parve prendere di nuovo un po’ di sonno a guisa di chi riflette seriamente a cosa di grande importanza. Di lì a poco si risvegliò e con voce chiara e ridente: «Addio, caro papà, addio: il prevosto voleva ancora dirmi altro, ed io non posso più ricordarmi… Oh! che bella cosa io vedo mai…». Così dicendo e ridendo con aria di paradiso spirò colle mani giunte innanzi al petto in forma di croce senza fare il minimo movimento”.[17]

            Michele Magone spira “placidamente”, “colla ordinaria serenità di volto e col riso sulle labbra”, dopo aver baciato il crocifisso e invocato: “Gesù, Giuseppe e Maria io metto nelle vostre mani l’anima mia”.[18]
            I momenti conclusivi della vita di Francesco sono connotati da fenomeni straordinari e ardori incontenibili: “Sembrava che gli balenasse sul volto una bellezza, un tale splendore che fece scomparire tutti gli altri lumi dell’infermeria”; “elevando alquanto il capo e prolungando le mani quanto poteva come chi stringe la mano a persona amata, cominciò con voce giuliva e sonora a cantar così: Lodate Maria […]. Dopo faceva vari sforzi per sollevare più in alto la persona, che di fatto si andava elevando, mentre egli stendendo le mani unite in forma divota, si pose di nuovo a cantare così: O Gesù d’amor acceso […]. Sembrava divenuto un angiolo cogli angioli del paradiso”.[19]

(continua)


[1] Cf. Bosco, Il giovane provveduto, 36-39 (considerazione per il martedì: La morte).

[2] Ibid., 38-39.

[3] [Giovanni Bosco], Cenni storici sulla vita del chierico Luigi Comollo morto  nel Seminario di Chieri ammirato da tutti per le sue singolari virtù. Scritti da un suo collega, Torino, Tipografia Speirani e Ferrero, 1844, 70-71.

[4] Ibid., 49.

[5] Ibid., 52-53.

[6] Ibid., 53-57.

[7] Ibid., 61.

[8] Ibid., 62-63.

[9] L’opera di Grignion de Monfort venne scoperta solo nel 1842 e pubblicata a Torino per la prima volta quindici anni più tardi: Trattato della vera divozione a Maria Vergine del ven. servo di Dio L. Maria Grignion de Montfort. Versione dal francese del C. L., Torino, Tipografia P. De-Agostini, 1857.

[10] Seconda parte, capo IV (Vari ossequi di divozione verso la divina Madre colle loro pratiche), dove l’Autore afferma che per ottenere la protezione di Maria “vi bisognano due cose: la prima che le offeriamo i nostri ossequi coll’anima monda da’ peccati […]. La seconda condizione è che perseveriamo nella sua divozione” (Le glorie di Maria di sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Torino, Giacinto Marietti, 1830, 272).

[11] Jean Crasset, La vera devozione verso Maria Vergine stabilita e difesa. Venezia, nella stamperia Baglioni, 1762, 2 voll.; Alessandro Diotallevi, Trattenimenti spirituali per chi desidera d’avanzarsi nella servitù e nell’amore della Santissima Vergine, dove si ragiona sopra le sue feste e sopra gli Evangelii delle domeniche dell’anno applicandoli alla medesima Vergine con rari avvenimenti, Venezia, presso Antonio Zatta,

1788, 3 voll.

[12] [Bosco], Cenni storici sulla vita del chierico Luigi Comollo, 68-69; cf. Diotallevi, Trattenimenti spirituali…, vol. II, pp. 108-109 (Trattenimento XXVI: Colloquio dove l’anima supplica la B. Vergine che voglia esserle Avvocata nella gran causa della sua salute).

[13] Bosco, Il giovane provveduto, 70-71.

[14] Cf. Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, 24.

[15] Ad esempio, cf. Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico, 106-107: “Il mattino di sua partenza fece coi suoi compagni l’esercizio della buona morte con tale trasporto di divozione nel confessarsi e nel comunicarsi, che io, che ne fui testimonio, non so come esprimerlo. Bisogna, egli diceva, che faccia bene questo esercizio, perché spero che sarà per me veramente quello della mia buona morte”.

[16] “Ma prima di lasciarti partire per il paradiso vorrei incaricarti d’una commissione […]. Quando sarai in paradiso e avrai veduta la grande Vergine Maria, falle un umile e rispettoso saluto da parte mia e da parte di quelli che sono in questa casa. Pregala che si degni di darci la sua santa benedizione; che ci accolga tutti sotto la potente sua protezione, e ci aiuti in modo che niuno di quelli che sono, o che la divina Provvidenza manderà in questa casa abbia a perdersi”, Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, 82.

[17] Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico, 118-119.

[18] Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, 83. Don Zattini vedendo quella morte serena non trattenne la commozione e “profferì queste gravi parole: O morte! tu non sei un flagello per le anime innocenti; per costoro tu sei la più grande benefattrice che loro apri la porta al godimento dei beni che non si perderanno mai più. Oh perché io non posso essere in tua vece, o amato Michele?” (ibiId., 84).

[19] Giovanni Bosco, Il pastorello delle Alpi ovvero vita del giovane Besucco Francesco d’Argentera, Torino, Tip. dell’Orat. di S. Franc. di Sales, 1864, 169-170.