Hai pensato alla tua vocazione? San Francesco di Sales potrebbe aiutarti (9/10)

(continuazione dall’articolo precedente)

9. Arriviamo al dunque

Cari giovani,
se guardiamo alle nostre giornate, compiamo delle scelte dalla mattina alla sera, siamo chiamati a decidere sia su cose semplici del nostro quotidiano, ma talvolta siamo anche posti di fronte a scelte su ciò che riguarda la nostra vita e che sono di vitale importanza. Fortunatamente, la maggior parte delle scelte che facciamo riguardano la sfera delle cose più semplici, altrimenti sarebbe davvero difficile e stancante compiere questo compito così importante. Tuttavia le decisioni importanti ci sono e quindi meritano la nostra attenzione.
In primo luogo, ricordate che non dobbiamo mai farci prendere dalla fretta e, quindi, arrivare a prendere decisioni velocemente. Se dovete scegliere tra due cose, soprattutto quando si tratta di realtà importanti di vita (camminare verso il matrimonio con quella persona, compiere passi concreti verso la vita consacrata o sacerdotale), dovete prendervi il giusto tempo per poter discernere ciò che è giusto.
Un secondo aspetto da prendere in considerazione è ricordarsi che siete liberi di scegliere ciò che volete o ciò che ritenete sia più giusto. Infatti, benché Dio sia onnipotente e possa tutto, tuttavia non vuole toglierci la libertà che ci ha dato. Quando Dio chiama a vivere là dove possiamo essere pienamente felici secondo la sua volontà, Egli vuole che questo sia fatto con il nostro pieno consenso e che scegliamo non per forza o costrizione, bensì in piena libertà.
In terzo luogo, vi ricordo che negli snodi di scelta è essenziale lasciarvi guidare: la libertà va accompagnata, perché è difficile trovare la strada da soli. Compiere scelte pienamente libere comporta aver chiaro il bene che gli altri possono ricevere da me, e quanto io posso essere pienamente realizzato quando sono per gli altri. Vi ho già scritto in merito, ma mi permetto di ricordarvi che proprio qui siamo più bisognosi di una voce esterna che confermi, o corregga, o dissuada da scelte che segnano il vostro futuro.
Una degli interrogativi che ovviamente scaturisce da questo movimento di scelte, soprattutto per quelle più importanti, è: come possiamo essere sicuri di aver fatto la scelta giusta? La domanda è lecita, perché nessuno vuole sbagliare e tutti vorremmo subito compiere la scelta giusta che possa essere definitiva. Vorremmo quasi poter scegliere una volta sola e non doverci più tornare sopra e stare tranquilli in ciò che abbiamo già deciso. In questo senso credo di dover sottolineare un aspetto importante. Dovete capire bene che lo scegliere, il prendere delle decisioni, non può mai essere qualcosa di “una volta e basta”, ma è un processo, un processo che ha dei tempi talvolta anche lunghi, che permettono di andare in profondità nelle cose e così raggiungere sempre di più una certezza morale che ciò che ho fatto sia la scelta giusta. Qualsiasi sia lo stato di vita non è richiesto che, al momento della scelta, siate già perfetti, consapevoli di tutto ciò che questa scelta richiede. Non siete chiamati ad un per sempre cieco, bensì ad un cammino verso un per sempre consapevole e forte delle decisioni prese quotidianamente, frutto di una porzione di buona volontà guidata da prudenza e costanza.
Per poter vivere bene il tempo della scelta, occorre coltivare bene il primo movimento, scavando nella propria vita senza affidarsi solo alle emozioni e senza calcolare solo con l’intelligenza. L’equilibrio di tutte le componenti della persona va cercato e garantito sempre, ma soprattutto all’inizio dovete assicurarvi che la scelta che avete fatto abbia delle solide basi. Una volta fatta la scelta iniziale, non occorre preoccuparsi se nei primi tempi sorgono amarezze o tiepidezze in proposito. C’è il rischio infatti di cambiare idea spesso e in fretta: una volta che avete fatto la vostra scelta, non guardate troppo a sinistra o a destra. A volte è facile, a volte anche seducente, distrarsi, esplorare o prendere altre strade. Guardare troppo altrove può portarvi su una strada diversa, dubitando e pentendovi della scelta originale che avete fatto. Se questo accade in tempi di euforia e di scoraggiamento, in tempi di crisi, ciò che è importante fare è certamente non prendere decisioni in quel momento e non cambiare la decisione iniziale, ma restare nel momento, attendendo un tempo di tranquillità che possa permettere di rileggere con calma ciò che ha caratterizzato la crisi e quindi prendere le decisioni in merito, sempre secondo coscienza e in un movimento di accompagnamento. Se si cerca di tenere sempre la propria volontà ben ferma nel perseguire il bene scelto, come ad esempio un serio cammino di fidanzamento, o una stabile esperienza di vita comunitaria per la vita religiosa o sacerdotale, Dio non mancherà di condurre tutto a buon fine. Come abbiamo già detto, questo cammino richiede tanti singoli “sì”, ogni giorno. Anche le azioni apparentemente più indifferenti diventano fertili se orientate al Bene da perseguire. Si tratta della perseveranza che diviene fedeltà quotidiana.

Ufficio Animazione Vocazionale

(continua)




Don Bosco e sua madre

            Nel 1965 venne commemorato il 150° anniversario della nascita di Don Bosco. Tra le conferenze per l’occasione ce ne fu una fatta da Mons. Giuseppe Angrisani, allora Vescovo di Casale, e Presidente Nazionale degli Exallievi sacerdoti. L’oratore nel suo discorso, accennando a Mamma Margherita, ebbe a dire di Don Bosco: «Per fortuna sua quella mamma gli fu a fianco per tanti e tanti anni, ed io penso e credo di essere nel vero affermando che l’aquila dei Becchi non avrebbe spiccato il volo fino ai confini della terra se la rondinella della Serra di Capriglio non fosse venuta a nidificare sotto la trave dell’umilissima casa della famiglia Bosco» (BS, sett. 1966, p. 10).
            Quella dell’illustre oratore fu un’immagine altamente poetica, che esprimeva tuttavia una realtà. Non per nulla 30 anni prima, G. Joergensen, senza voler profanare la Sacra Scrittura, si permetteva di iniziare il suo Don Bosco edito dalla SEI con le parole: «In principio c’era la madre».
L’influsso materno negli atteggiamenti religiosi del fanciullo e nella religiosità dell’adulto è riconosciuto dagli esperti di psicologia religiosa ed è, nel caso nostro, più che evidente: San Giovanni Bosco, che ebbe sempre per sua madre la più grande venerazione, ricopiò da lei un profondo senso religioso della vita. «Dio domina come un sole meridiano la mente di Don Bosco» (Pietro Stella).

Iddio in cima ai suoi pensieri
            È un fatto facile da documentarsi: Don Bosco ebbe sempre Iddio in cima a tutti i suoi pensieri. Uomo di azione, fu prima di tutto uomo di preghiera. Ricorda egli stesso che fu la madre ad insegnargli a pregare, cioè a conversare con Dio:
            — Mi faceva mettere coi miei fratelli in ginocchio mattino e sera, e tutti insieme recitavamo le preghiere in comune (MO 21-22).
            Quando Giovanni dovette lasciare il tetto materno e andar garzone di campagna alla cascina Moglia, la preghiera era già il suo abituale alimento e conforto. In quella casa di Moncucco «si adempivano i doveri del buon cristiano con la regolarità delle inveterate abitudini domestiche, tenaci sempre nelle famiglie campagnole, tenacissime a quei tempi di vita sanamente paesana» (E. Ceria). Ma Giovanni faceva già qualcosa di più: pregava in ginocchio, pregava spesso, pregava a lungo. Anche fuori casa, mentre conduceva le vacche al pascolo, sostava ogni tanto in preghiera.
            La mamma gli aveva anche instillato nel cuore una tenera devozione alla Vergine Santissima. Alla sua entrata in Seminario, gli aveva detto:
            — Quando sei venuto al mondo, ti ho consacrato alla Beata Vergine; quando hai cominciato i tuoi studi, ti ho raccomandato la devozione a questa nostra Madre; e se diverrai sacerdote, raccomanda e propaga sempre la devozione a Maria (MO, 89).
            Mamma Margherita, dopo aver educato il figlio Giovanni nella casetta dei Becchi, dopo averlo maternamente seguito ed incoraggiato nel suo duro cammino vocazionale, visse ancora per dieci anni al suo fianco, coprendo un delicatissimo ruolo materno nell’educazione di quei giovani da lui radunati, con uno stile che rivive in tanti aspetti della prassi educativa di Don Bosco: consapevolezza della presenza di Dio, laboriosità che è senso della dignità umana e cristiana, coraggio ispiratore di opere, ragione che è dialogo e accettazione degli altri, amore esigente ma rasserenante.
            Senza alcun dubbio, quindi, la madre svolse una funzione unica nell’educazione e nel primo apostolato del figlio, incidendo profondamente sullo spirito e sullo stile del suo futuro operare.
            Fatto sacerdote ed iniziato il lavoro tra la gioventù, Don Bosco diede il nome di Oratorio alla sua opera. Non è senza motivo che il centro propulsore di tutte le opere di Don Bosco sia stato chiamato “Oratorio”. Il titolo indica l’attività dominante, lo scopo principale di un’impresa. E Don Bosco, come lui stesso confessava, diede il nome di Oratorio alla sua «casa» per indicare chiaramente come la preghiera fosse la sola potenza su cui fare assegnamento.
            Non aveva nessun’altra forza a disposizione per animare i suoi oratori, avviare l’ospizio, risolvere il problema del pane quotidiano, porre le basi del la sua Congregazione. Perciò molti, lo sappiamo, dubitarono persino della sua sanità mentale.
            Ciò che i grandi non capivano, lo capirono invece i piccoli, cioè i giovani che, dopo averlo conosciuto, non si staccavano più da lui. Vedevano in lui la viva immagine del Signore. Sempre calmo e sereno, tutto a loro disposizione, fervente nel pregare, faceto nel parlare, paterno nel guidarli al bene, tenendo poi sempre viva in tutti la speranza della salvezza. Se qualcuno, asserisce un teste, gli avesse domandato a bruciapelo: Don Bosco, dov’è incamminato? egli avrebbe risposto: Andiamo in Paradiso!
Questo senso religioso della vita, che permeò tutte le opere e gli scritti di Don Bosco, era evidente retaggio di sua madre. La santità di Don Bosco era attinta alla fonte divina della Grazia e si modellava su Cristo, maestro di ogni perfezione, ma affondava le radici in un valore spirituale materno, la sapienza cristiana. L’albero buono produce frutti buoni.

Glielo aveva insegnato Lei
            La mamma di Don Bosco, Margherita Occhiena, dal novembre 1846, quando a 58 anni di età, aveva lasciato la sua casetta dei Becchi, divideva con il figlio a Valdocco una vita di privazioni e sacrifici tutta spesa per i monelli della periferia di Torino. Passarono quattro anni, e lei si sentiva ormai venire meno le forze. Una grande stanchezza le era penetrata nelle ossa, una forte nostalgia nel cuore. Entrò nella stanza di Don Bosco e disse: «Ascoltami, Giovanni, non è più possibile andar avanti così. I ragazzi tutti i giorni me ne combinano una. Ora mi gettano a terra la biancheria pulita stesa al sole, ora mi calpestano la verdura nell’orto. Stracciano i vestiti in modo che non c’è più verso di rattopparli. Perdono calze e camicie. Portano via gli arnesi di casa per i loro divertimenti e mi fanno girare tutto il giorno per ritrovarli. Io, in mezzo a questa confusione, ci perdo la testa, Vedi! Quasi, quasi, me ne ritorno ai Becchi».
            Don Bosco fissò in volto sua mamma, senza parlare. Poi le indicò il Crocifisso appeso alla parete. Mamma Margherita capì. I suoi occhi si riempirono di lacrime.
            — Hai ragione, hai ragione, esclamò; e tornò alle sue faccende, per altri sei anni, fino alla sua morte (G.B. LEMOYNE, Mamma Margherita, Torino, SEI, 1956, p. 155-156).
            Mamma Margherita nutriva una profonda devozione alla Passione di Cristo, a quella Croce che dava senso, forza e speranza a tutte le sue croci. Lo aveva insegnato lei a suo figlio. Le bastò uno sguardo al Crocifisso!… Per lei la vita era una missione da compiere, il tempo un dono di Dio, il lavoro un contributo umano al disegno del Creatore, la storia dell’uomo cosa sacra perché Dio, nostro Signore, Padre e Salvatore, è al centro, al principio e alla fine del mondo e dell’uomo.
Lei aveva insegnato tutto questo a suo figlio con la parola e con l’esempio. Madre e figlio: una fede ed una speranza riposte in Dio solo, e una carità ardente che bruciò nel loro cuore sino alla morte.




La barca

Una sera, due turisti che si trovavano in un camping sulle rive di un lago decisero di attraversare il lago in barca per andare a «farsi un bicchierino» nel bar situato sull’altra riva.
Ci rimasero fino a notte fonda, scolandosi una discreta serie di bottiglie.
Quando uscirono dal bar ondeggiavano alquanto, ma riuscirono a prendere posto nella barca per intraprendere il viaggio di ritorno.
Cominciarono a remare gagliardamente. Sudati e sbuffanti, si sforzarono con decisione per due ore. Finalmente uno disse all’altro:
– Non pensi che a quest’ora dovremmo già aver toccato l’altra riva, da un bel po’ di tempo?
– Certo, rispose l’altro, ma forse non abbiamo remato con abbastanza energia.
I due raddoppiarono gli sforzi e remarono risolutamente ancora per un’ora. Solo quando spuntò l’alba constatarono stupefatti che erano sempre allo stesso punto.
Si erano dimenticati di slegare la robusta fune che legava la loro barca al pontile.

Quanta gente annaspa e si agita tutto il giorno senza approdare a nulla perché non si libera davvero dai legami e dalle abitudini vischiose.




L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (3/5)

(continuazione dall’articolo precedente)

2. Le litanie della buona morte nel contesto della spiritualità giovanile promossa da don Bosco
            Un discorso a parte meritano le litanie della buona morte inserite nel Giovane provveduto, che costituivano soltanto un momento dell’esercizio, quello emotivamente più intenso. Il cuore della pratica mensile, infatti, era rappresentato dall’esame di coscienza, dalla confessione ben fatta, dalla comunione fervente, dalla decisione di darsi totalmente a Dio e dalla formulazione di proponimenti operativi di carattere morale e spirituale. Nei volumi di predicazione o nei manualetti dei secoli precedenti non troviamo testi analoghi alla sequenza litanica del Giovane provveduto, la cui composizione don Bosco attribuisce a “una donzella protestante convertita alla Religione Cattolica nell’età di anni 15, e morta di anni 18 in odore di santità”.[1] Egli l’aveva attinta da libri di pietà pubblicati in quegli anni in Piemonte.[2] La preghiera, “indulgenziata da Pio VII, ma circolante già alla fine del Settecento”,[3] poteva servire come strumento efficace di mozione degli affetti in forza della drammatizzazione immaginativa degli ultimi istanti di vita: collocava il fedele sul letto di morte invitandolo a passare in rassegna le varie parti del corpo e i sensi corrispondenti, considerati nello stato in cui si sarebbero trovati al momento dell’agonia, per scuoterlo, per stimolare la confidenza nella divina misericordia e spingerlo a propositi di conversione e perseveranza. Era un esercizio nel quale lo spirito romantico trovava gusto e che don Bosco riteneva particolarmente indicato sul piano emotivo e spirituale, come risulta da alcuni suoi testi narrativi. La formula ebbe grande fortuna nel corso dell’Ottocento: la troviamo riprodotta in varie raccolte di preghiere anche fuori dei confini piemontesi.[4] Ci pare interessante riportarla nella sua interezza:

            Gesù Signore, Dio di bontà, Padre di misericordia, io mi presento dinanzi a Voi con cuore umiliato e contrito: vi raccomando la mia ultima ora e ciò che dopo di essa mi attende.
            Quando i miei piedi immobili mi avvertiranno che la mia carriera in questo mondo è presso a finire, misericordioso Gesù, abbiate pietà di me.
            Quando le mie mani tremole e intorpidite non potranno più stringervi, Crocifisso mio bene, e mio malgrado lascierovvi cadere sul letto del mio dolore, misericordioso ecc.
            Quando i miei occhi offuscati e stravolti dall’orror della morte imminente fisseranno in Voi gli sguardi languidi e moribondi, misericordiosoecc.
            Quando le mie labbra fredde e tremanti pronunzieranno per l’ultima volta il vostro Nome adorabile, misericordiosoecc.
            Quando le mie guance pallide e livide inspireranno agli astanti la compassione ed il terrore, e i miei capelli bagnati dal sudor della morte, sollevandosi sulla mia testa annunzieranno prossimo il mio fine, misericordiosoecc.
            Quando le mie orecchie, presso a chiudersi per sempre a’ discorsi degli uomini, si apriranno per intendere la vostra voce, che pronunzierà l’irrevocabile sentenza, onde verrà fissata la mia sorte per tutta l’eternità, misericordiosoecc.
            Quando la mia immaginazione agitata da orrendi e spaventevoli fantasmi sarà immersa in mortali tristezze, ed il mio spirito turbato dalla vista delle mie iniquità, dal timore della vostra giustizia, lotterà contra l’angelo delle tenebre, che vorrà togliermi la vista consolatrice delle vostre misericordie e precipitarmi in seno alla disperazione, misericordiosoecc.
            Quando il mio debole cuore oppresso dal dolor della malattia sarà sorpreso dagli orrori di morte, e spossato dagli sforzi che avrà fatto contro a’ nemici della mia salute, misericordioso ecc.
            Quando verserò le mie ultime lacrime, sintomi della mia distruzione, ricevetele in sacrificio di espiazione, acciocché io spiri come una vittima di penitenza, ed in quel terribile momento, misericordioso ecc.
            Quando i miei parenti ed amici, stretti a me d’intorno, s’inteneriranno sul dolente mio stato, e v’invocheranno per me, misericordioso ecc.
            Quando avrò perduto l’uso di tutti i sensi, ed il mondo intero sarà sparito da me, ed io gemerò nelle angosce della estrema agonia e negli affanni di morte, misericordioso ecc.
            Quando gli ultimi sospiri del cuore sforzeranno l’anima mia ad uscire dal corpo, accettateli come figli di una santa impazienza di venire a Voi, e Voi misericordioso ecc.
            Quando l’anima mia sull’estremità delle labbra uscirà per sempre da questo mondo e lascerà il mio corpo pallido, freddo e senza vita, accettate la distruzione del mio essere, come un omaggio che io vengo a rendere alla vostra divina maestà ed allora, misericordioso ecc.
            Quando finalmente l’anima mia comparirà dinanzi a Voi, e vedrà per la prima volta lo splendore immortale della vostra maestà, non la rigettate dal vostro cospetto; degnatevi ricevermi nel seno amoroso della vostra misericordia, affinché io canti eternamente le vostre lodi: misericordioso ecc.
Orazione: Oh Dio, che condannandoci alla morte, ce ne avete nascosto il momento e l’ora, fatte ch’io passando nella giustizia e nella santità tutti i giorni della vita, possa meritare di uscire di questo mondo nel vostro santo amore, per i meriti del Nostro Signor Gesù Cristo, che vive e regna con Voi nell’unità dello Spirito Santo. Così sia.[5]

            Il razionalismo settecentesco e il gusto barocco per il macabro e il funereo, presente ancora nell’Apparecchio alla morte di sant’Alfonso Maria de’ Liguori,[6] è superato nell’Ottocento dalla sensibilità romantica che preferisce percorrere la via del sentimento, la quale, “per giungere all’intelletto, va prima direttamente al cuore, e facendo sentire al cuore la forza e la bellezza della religione, fissa l’attenzione dell’intelletto, e ne agevola il consentimento”, come scriveva mons. Angelo Antonio Scotti.[7] Dunque anche nella considerazione della morte si riteneva cosa ottima insistere sulle leve emotive e sugli affetti per suscitare una risposta generosa al dono assoluto di sé fatto dal divin Salvatore per la salvezza dell’umanità. Gli autori spirituali e i predicatori ritenevano importante e necessario descrivere “gli affanni e le oppressioni che sono inseparabili dagli sforzi che naturalmente l’anima deve fare nel rompere i legami del corpo”,[8] insieme alla raffigurazione della morte serena dei giusti. Volevano calare la fede nella concretezza dell’esistenza per stimolare la riforma dei costumi e il proposito d’una più genuina e fervente vita cristiana: “Certamente la speranza di meritare una buona agonia ed una santa morte è stata e sarà sempre la più potente molla per indurre gli uomini ad abbandonare il vizio; siccome lo spettacolo di un uomo malvagio, che tal muoia qual visse, è una grande lezione per tutti i mortali”.[9]
            La sequenza delle litanie della buona morte inserita nel Giovane provveduto va considerata, dunque, del tutto funzionale al buon esito del ritiro mensile e agli ideali di vita cristiana che il Santo proponeva ai giovani, oltre che particolarmente adatta alla sensibilità emotiva e culturale di quel preciso momento storico. Se oggi la lettura di quelle formule genera il senso d’inquietudine rievocato da Delumeau e offre una rappresentazione “nel complesso affliggente” della pedagogia religiosa di don Bosco,[10] questo avviene soprattutto perché esse sono estrapolate dai loro quadri di riferimento. Invece, come si rileva dalla pratica educativa dell’Oratorio e dalle testimonianze narrative lasciate da don Bosco, non solo l’animo di quei giovani trovava gusto e stimolo nel recitarle, ma esse contribuivano efficacemente a rendere l’esercizio della buona morte fecondo di frutti morali e spirituali. Per sondarne la primitiva fecondità educativa, dobbiamo ancorarle all’insieme della sostanziosa proposta di vita cristiana presentata da don Bosco e al vissuto fervido e operoso, stimolante dell’Oratorio.
            L’orizzonte globale di riferimento si può cogliere già nelle piccole meditazioni che introducono il Giovane provveduto, dove don Bosco intende soprattutto presentare “un metodo di vita breve e facile, ma sufficiente” perché i giovani lettori possano “diventare la consolazione dei parenti, l’onore della patria, buoni cittadini in terra per essere poi un giorno fortunati abitatori del Cielo”.[11] Innanzitutto egli li incoraggia ad “alzare lo sguardo”, a contemplare la bellezza del creato e la dignità altissima dell’uomo, la più sublime delle creature, dotato di un’anima spirituale fatta per amare il Signore, per crescere nella virtù e nella santità, destinato al Paradiso, alla comunione eterna con Dio.[12] La considerazione dell’illimitato amore divino, rivelatoci nel sacrificio di Cristo per la salvezza dell’umanità, e della particolare predilezione di Dio verso i ragazzi e i giovani, deve muoverli a corrispondere con generosità, a “indirizzare ogni azione” al raggiungimento del fine per il quale sono stati creati, con fermo proposito di far tutte quelle cose che possono piacere al Signore ed evitare “quelle che lo potrebbero disgustare”.[13] E poiché la salvezza di una persona “dipende ordinariamente dal tempo della gioventù”, è indispensabile iniziare da subito a servire il Signore: “Se noi cominciamo una buona vita ora che siamo giovani, buoni saremo negli anni avanzati, buona la nostra morte e principio di una eterna felicità. Al contrario se i vizi prenderanno possesso di noi in gioventù, per lo più continueranno in ogni età nostra fino alla morte. Caparra troppo funesta di una infelicissima eternità”.[14]
            Don Bosco dunque invita gli adolescenti a darsi “per tempo a Dio”, a impegnarsi con gioia nel suo servizio, superando il pregiudizio che la vita cristiana sia triste e malinconica: “Non è vero, sarà malinconico colui che serve il demonio, il quale comunque si sforzi per mostrarsi contento, tuttavia avrà sempre il cuor che piange, dicendogli: tu sei infelice perché nemico d’Iddio […]. Coraggio adunque, miei cari, datevi per tempo alla virtù, e vi assicuro, che avrete sempre un cuore allegro e contento, e conoscerete quanto sia dolce servire al Signore”.[15]
            La vita cristiana consiste essenzialmente nel servire il Signore in “santa allegria”; è questa una delle idee più feconde e peculiari del patrimonio spirituale e pedagogico di don Bosco: “Se farai così, quante consolazioni proverai in punto di morte! Al contrario se non attendi a servire Dio, quanti rimorsi proverai alla fine de’ tuoi dì”.[16] Chi tramanda la conversione, chi consuma i propri giorni nell’ozio o in dissipazioni inutili e dannose, nei peccati o nei vizi, rischia di non avere più l’occasione, il tempo e la grazia per tornare a Dio con pericolo di eterna dannazione.[17] La morte infatti può sorprenderlo quando meno se l’aspetta: “Guai a chi si trova in disgrazia di Dio in quel momento”.[18] Ma la misericordia divina offre al peccatore pentito il sacramento della Penitenza, mezzo sicuro per riacquistare la grazia e con essa la pace del cuore. Celebrato regolarmente e con le dovute disposizioni, il sacramento non solo diventa strumento efficace di salvezza, ma anche momento educativo privilegiato in cui il confessore, “fedele amico dell’anima”, può dirigere con sicurezza il giovane sulla via della salvezza e della santità. La Confessione si prepara con un buon esame di coscienza, chiedendo luce al Signore: “Illuminatemi colla vostra grazia, affinché io conosca ora i miei peccati come li farete a me noti quando presenterommi al vostro giudizio. Fate, o mio Dio, che li detesti con vero dolore”.[19] La regolare celebrazione del sacramento garantisce la serenità necessaria per trascorrere una vita veramente felice: “A me sembra che questo sia il mezzo più sicuro per vivere giorni felici in mezzo alle afflizioni della vita, in fine della quale vedremo anche noi con calma avvicinarsi il momento della morte”.[20]
            L’amicizia con Dio riacquistata con la Confessione trova il suo vertice nella Comunione eucaristica, momento privilegiato nel quale il giovane offre tutto se stesso perché Dio possa “prendere possesso” del suo cuore e diventarne il padrone incontrastato. Nell’atto in cui si apre senza riserve all’azione santificatrice e trasfigurante della grazia, egli sperimenta la gioia ineffabile che accompagna un’esperienza spirituale genuina ed è portato a desiderare ardentemente la comunione eterna con Dio: “Se voglio qualche cosa di grande, vo a ricevere l’ostia santa in cui trovasi corpus quod pro nobis traditum est, cioè quello stesso corpo, sangue, anima e divinità, che Gesù Cristo offerse al suo eterno Padre per noi sopra la croce. Che cosa mi manca per essere felice? nulla in questo mondo: mi manca solo di poter godere, svelato in cielo colui, che ora con occhio di fede miro e adoro sull’altare”.[21]
            Nonostante il forte accento emotivo che connota il sentimento religioso ottocentesco, la spiritualità proposta da don Bosco è assai concreta. Infatti egli presenta la conversione come un processo di appropriazione delle promesse battesimali, che inizia nel momento in cui il giovane, in “maniera franca e risoluta”, decide di corrispondere alla divina chiamata,[22] di staccare il cuore dall’affetto al peccato per poter amare Dio sopra ogni cosa e lasciarsi docilmente plasmare dalla grazia. La conversione si traduce quindi in un vissuto operoso e ardente, animato dalla carità, in una positiva e gioiosa tensione alla perfezione, cominciando dalle piccole cose quotidiane. Il fervore della carità ispira una mortificazione “positiva” dei sensi, centrata sul superamento di sé, sulla riforma di vita, sul puntuale compimento dei doveri, sulla cordialità e sul servizio verso il prossimo. Tale mortificazione non ha nulla di afflittivo, perché è generosa aderenza al vissuto con i suoi imprevisti e le sue difficoltà, è capacità di sopportazione nelle contrarietà quotidiane, è tenuta nelle fatiche, è sobrietà e temperanza, è fortezza d’animo. Ogni occasione dunque può diventare espressione dell’amor di Dio, un amore che spinge la persona a vivere e operare “alla sua presenza”, a far tutto e tutto sopportare per amor suo.
            La carità anima in modo particolare la preghiera, poiché, attraverso le piccole pratiche, le giaculatorie, le visite e le devozioni, alimenta il desiderio di comunione affettuosa, si traduce nell’offerta incondizionata di sé, in gioioso adeguamento alla divina volontà, in desiderio dell’unione mistica e in anelito all’eterna comunione del Paradiso.
            Don Bosco sintetizza la sua proposta in formule semplificatrici, ma non ne abbassa il livello e ricorda costantemente ai giovani che è necessario decidersi risolutamente: “Di quante cose adunque abbiamo bisogno per farci santi? Di una cosa sola: Bisogna volerlo. Sì; purché voi vogliate, potete essere santi: non vi manca altro che il volere”. Lo dimostrano gli esempi di santi “che hanno vissuto in condizione bassa, e tra i travagli d’una vita attiva”, ma si sono santificati, semplicemente “facendo bene tutto ciò, che dovevano fare. Essi adempievano tutti i loro doveri verso Dio, tutto soffrendo pel suo amore, a lui offerendo le loro pene, i loro travagli: questa è la grande scienza della salute eterna e della santità”.[23]
            L’esperienza di Michele Magone, allievo dell’Oratorio di Valdocco, è illuminante. “Abbandonato a se stesso – scrive don Bosco – era in pericolo di cominciar a battere il tristo sentiero del male”; il Signore lo invitò a seguirlo; “ascoltò egli l’amorosa chiamata e costantemente corrispondendo alla grazia divina giunse a trarre in ammirazione quanti lo conobbero, palesandosi così quanto siano maravigliosi gli effetti della grazia di Dio verso di coloro che si adoperano per corrispondervi”.[24] Decisivo è il momento nel quale il ragazzo, dopo aver preso coscienza della propria situazione e superato, con l’aiuto dell’educatore, il profondo senso di angoscia e di colpa che lo tormentava, sente che “è tempo di romperla col demonio” e decide di “darsi a Dio” attraverso una buona confessione e un fermo proposito.[25] Don Bosco racconta le emozioni e le riflessioni dell’adolescente nella notte successiva alla confessione: riportato in grazia di Dio e rassicurato sulla sua eterna salvezza,[26] sperimenta una gioia incontenibile.

             “È difficile, soleva dire, di esprimere gli affetti che occuparono il mio povero cuore in quella notte memoranda. La passai quasi intieramente senza prendere sonno. Rimaneva qualche momento assopito, e tosto l’immaginazione facevami vedere l’inferno aperto pieno di demoni. Cacciava tosto questa tetra immagine riflettendo che i miei peccati erano stati tutti perdonati, e in quel momento sembravami di vedere una grande quantità di angeli che mi facessero vedere il paradiso, e mi dicessero: – Vedi che grande felicità ti è riserbata, se sarai costante nei tuoi proponimenti!
            Giunto poi alla metà del tempo stabilito per il riposo, io era così pieno di contentezza, di commozione e di affetti diversi, che per dare qualche sfogo all’animo mio mi alzai, mi posi ginocchioni, e dissi più volte queste parole: Oh quanto mai sono disgraziati quelli che cadono in peccato! ma quanto più sono infelici coloro che vivono nel peccato. Io credo che se costoro gustassero anche un solo momento la grande consolazione che provasi da chi si trova in grazia di Dio, tutti andrebbero a confessarsi per placare l’ira di Dio, dare tregua ai rimorsi della coscienza, e godere della pace del cuore. O peccato, peccato! che terribile flagello sei tu a coloro che ti lasciano entrare nel loro cuore! Mio Dio, per l’avvenire non voglio mai più offendervi; anzi vi voglio amare con tutte le forze dell’anima mia; che se per mia disgrazia cadessi anche in un piccolo peccato andrò tosto a confessarmi”.[27]

            Troviamo qui le chiavi interpretative dell’orizzonte di senso in cui don Bosco colloca la funzione pedagogica e spirituale dell’esercizio della buona morte.

(continua)


[1] Bosco, Il giovane provveduto, 140.

[2] Troviamo la stessa formula, con varianti minime, in un opuscoletto anonimo intitolato Mezzi da praticarsi e risoluzioni da farsi dopo una buona confessione per mantenersi nella grazia di Dio riacquistata, Vigevano, s.e., 1842, 33-36. Cf. anche Il cristiano in chiesa, ovvero affettuose orazioni per la Messa, per la Confessione e Comunione e per l’adorazione del Santissimo Sacramento. Operetta spirituale del P. Fulgenzio M. Riccardi di Torino, Min. Oss., Torino, G.B. Paravia 1845, dove l’attribuzione della sequenza è, nella dicitura, simile a quella i don Bosco: “Litanie per ottenere una buona morte composte da una Damigella nata tra i Protestanti, convertitasi alla Religione Cattolica all’età di quindici anni, e morta di diciotto in istima universale di santità” (ibid., 165).

[3] Pietro Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica. Vol. II: Mentalità religiosa e spiritualità, Roma, LAS, 1981, 340. Cf. anche Michel Bazart, Don Bosco et l’exercice de la bonne mort, in «Chahiers Salésiens» N. 4, Avril 1981, 7-24.

[4] Ad esempio, la si trova, con qualche rielaborazione stilistica e piccole amplificazioni, sotto il titolo di “Gemiti e suppliche per la buona morte”, in Giuseppe Riva, Manuale di Filotea. Ventunesima edizione nuovamente riveduta ed aumentata, Milano, Serafino Majocchi, 1874, 926-927.

[5] Bosco, Il giovane provveduto, 138-142.

[6] Si veda per esempio la prima considerazione “Ritratto d’un uomo da poco tempo morto”, in Alfonso Maria de Liguori, Opere ascetiche, vol. 8, Apparecchio alla morte, Torino, Giacinto Marietti, 1825, 10-19.

[7] Angelo Antonio Scotti, Osservazioni sulle false dottrine e sulle funeste conseguenze dell’opera del Lauvergne intitolata “De l’agonie et de la mort dans toutes les classes de la societé”. Dissertazione letta nell’Accademia di Religione Cattolica in Roma il dì 4 luglio 1844, Roma, Tipografia delle Belle Arti, 1844, 3. Scotti polemizza con l’autore francese, medico e scienziato, che ritiene falsa l’affermazione che solo i veri cattolici muoiono serenamente: anche gli atei o gli adepti di altre religioni o addirittura gli individui immorali e pessimi possono morire serenamente, mentre capita non di rado che uomini santi, persone di grande virtù e asceti, specialmente tra i cattolici, subiscano agonie strazianti e disperate, poiché tutto dipende dal tipo di malattia, dalla lucidità cerebrale, dallo stato di debilitazione fisiologica o psichica e dalle angosce indotte dal fanatismo religioso, cf. Hubert Lauvergne, De l’agonie et de la mort dans toutes les classes de la societé sour le rapport humanitaire, physiologique et religieux, 2 vol., Paris, Librairie de J.-B. Baillière et C. Gosselin, 1842.

[8] Giovanni Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, Torino, Tip. G.B. Paravia e Comp., 1859, 116.

[9] Scotti, Osservazioni sulle false dottrine, 14-15.

[10] Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, vol. II, 341.

[11] Bosco, Il giovane provveduto, 7.

[12] Cf. ibid., 10.

[13] Ibid., 10-11.

[14] Ibid., 6.

[15] Ibid., 13.

[16] Ibid., 32.

[17] Cf. ibid., 32-34.

[18] Ibid., 38.

[19] Ibid., 93.

[20] Bosco, Vita del giovanetto Savio Domenico, 136.

[21] Ibid., 69.

[22] Giovanni Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele allievo dell’Oratorio di S. Francesco di Sales, Torino, Tip. G.B. Paravia e Comp., 1861, 4-5.

[23] Giovanni Bosco, Vita di santa Zita serva e di sant’Isidoro contadino. Torino, P. De-Agostini, 1853, 6-7

[24] Bosco, Cenno biografico sul giovanetto Magone Michele, 5.

[25] Ibid., 20-21.

[26] “Terminata [la Confessione] prima di partire dal confessore gli disse: «Vi sembra che i miei peccati mi siano tutti perdonati? se io morissi in questa notte sarei salvo?». – Va’ pure tranquillo, gli fu risposto. Il Signore che nella sua grande misericordia ti aspettò finora perché avessi tempo a fare una buona confessione, ti ha certamente perdonati tutti i peccati; e se nei suoi adorabili decreti egli volesse chiamarti in questa notte all’eternità tu sarai salvo” (ibid., 21).

[27] Ibid., 21-22.




Salesiani in Azerbaigian, seminatori di speranza

Il racconto di un ragazzo che esprime gratitudine per l’operato dell’unica comunità salesiana dell’Azerbaigian, punto di riferimento per tanti giovani della capitale.

L’Azerbaigian (ufficialmente Repubblica dell’Azerbaigian), è un paese localizzato nella regione transcaucasica, che confina con il Mar Caspio a est, con la Russia a nord, la Georgia e l’Armenia a ovest e l’Iran a sud. Ospita una popolazione di circa 10 milioni di abitanti, che parla la lingua azera, appartenente alla famiglia delle lingue turche. La ricchezza principale del paese è rappresentata dal petrolio e dal gas. Diventato indipendente nel 1918, è stato il primo stato laico democratico a maggioranza musulmana. La sua indipendenza però duro solo due anni, dato che nel 1920 venne incorporato dalla nuova Unione Sovietica appena costituita. Con la caduta dell’impero sovietico, ha riconquistato l’indipendenza nel 1991. In questo periodo, la regione del Nagorno Karabakh, abitata principalmente da armeni, dichiarò la sua indipendenza sotto in nome di Repubblica dell’Artsakh, evento che portò a varie guerre. È riapparsa nei notiziari internazionali dopo il recente attacco dell’Azerbaigian, il 19 settembre 2023, che ha condotto alla soppressione della sopraddetta repubblica e all’esodo di quasi tutti gli abitanti armeni da questa regione verso l’Armenia.

La presenza dei cristiani in quest’area geografica è menzionata fin dai primi secoli dopo Cristo. Nel sec. IV il re caucasico Urnayr dichiarò ufficialmente il cristianesimo religione di stato e rimase così fino all’VIII secolo quando, in seguito ad una guerra, si impose l’islam. Attualmente la religione maggioritaria è proprio l’islam a predominanza sciita, e i cristiani di tutte le confessioni rappresentano il 2,6% della popolazione.
La presenza dei cattolici nel paese risale al 1882 quando fu fondata una parrocchia; nel 1915 fu costruita una chiesa nella capitale Baku, demolita dai comunisti sovietici nel 1931, dissolvendo la comunità e arrestando il parroco, che morì un anno dopo in un campo di lavoro forzato.

In seguito alla caduta del comunismo, si ricostituì la comunità cattolica di Baku nel 1997, e dopo la visita in Azerbaigian di papa san Giovanni Paolo II nel 2002, si ottenne il terreno per la costruzione di una nuova chiesa, consacrata all’Immacolata Concezione e inaugurata il 29 aprile 2007.
La presenza salesiana in Azerbaigian è stata aperta nell’anno del Giubileo 2000, nella capitale Baku, la più grande città del paese, con una popolazione di più di 2 milioni di abitanti.

Il direttore della casa salesiana di Baku, don Martin Bonkálo, ci racconta che la missione salesiana si incarna in contesti diversi e sempre nuovi, come risposta alle sfide e ai bisogni della gioventù. Gli echi di don Bosco si sentono anche in Azerbaigian, in Asia Centrale, paese a maggioranza musulmana, che nello scorso secolo ha conosciuto il regime sovietico.
In questa casa vivono e lavorano sette salesiani, di cui cinque sacerdoti e due coadiutori, appartenenti all’Ispettoria slovacca (SLK), che si curano della parrocchia di Santa Maria e del Centro educativo “Maryam”. Si tratta di un’opera per lo sviluppo integrale dei giovani: evangelizzazione, catechesi, educazione ed aiuto sociale.
In tutto il paese i cattolici sono un piccolo gregge che professa con coraggio e speranza la propria fede. Il lavoro dei salesiani quindi, si basa sulla testimonianza dell’amore di Dio, sotto varie forme. I rapporti con la gente sono aperti, chiari ed amichevoli: questo favorisce il prosperare dell’azione educativa.

I giovani sono come tutti gli altri giovani del mondo, con le loro paure e i loro talenti. La loro sfida più grande è quella di ricevere una buona istruzione per guadagnarsi da vivere. I giovani cercano un ambiente educativo e persone capaci a livello professionale ed umano, che sappiano comunicare il cammino da seguire per cercare il senso della vita.
I salesiani sono impegnati a guardare al futuro, per arricchire la presenza nel paese, renderla più internazionale e rimanere fedeli al carisma trasmesso da don Bosco, con gioia ed entusiasmo.

Shamil, exallievo del centro salesiano di Baku, racconta: “Sono entrato a contatto con il centro Maryam nel 2012 e quell’incontro si è rivelato fondamentale per il resto della mia vita. A quel tempo, avevo prestato il servizio militare e stavo terminando la mia formazione presso un collegio d’informatica. Avvertivo la necessità di crescere a livello professionale, ma allo stesso tempo avevo un gran bisogno di amici nel mondo reale! Arrivai a Baku dalla provincia, incontrai per strada un mio amico che mi parlò del Centro Maryam. Così siamo andati insieme per visitarlo e da lì è iniziato un capitolo bellissimo nella mia vita. Fin dal primo giorno mi sono trovato in un mondo diverso, non facile da spiegare, io nel mio cuore dico che è un’isola. È diventata per me un’isola di umanità, nel mondo moderno spesso interessato a usare le persone, e non a interessarsi realmente a loro.

Senza che neanche me ne rendessi conto, era iniziato il programma nel centro giovanile e io ero parte di una squadra. Qualcuno giocava a pallavolo, qualcuno a ping-pong, un gruppo di ragazzi strimpellava la chitarra… Più tardi, ci siamo seduti in refettorio e a tutti è stata data la possibilità di condividere una parola per esprimere la propria opinione sulla giornata passata, sulle impressioni o sulle nuove idee. Io ero un ragazzo piuttosto timido, eppure ho iniziato a parlare con piacere degli eventi del giorno e degli argomenti generali, senza alcuna difficoltà o freno. Tra i tanti corsi del centro, ho deciso di iniziare con il corso di grafica Photoshop e il corso di lingua inglese. Quando poi ho dovuto lasciare il mio lavoro per motivi di salute, ho perso anche un tetto sopra la testa. La soluzione è stata quella di lavorare al centro come guardia, con determinati obblighi e responsabilità. Sono stato in prova per un mese e sono contento di non aver deluso nessuno e di aver trovato una nuova casa. Quando don Stefan nel 2014 ha iniziato a sviluppare al centro il progetto di rete informatica dell’Accademia Cisco, è iniziato il mio percorso professionale come ingegnere di rete. Nello stesso periodo, ho potuto imparare tre mestieri domestici: saldatura, elettricità e idraulica. Nel 2016 sono diventato istruttore ufficiale di Cisco e ormai sono sei anni che lavoro come ingegnere di rete. Questo lavoro ha permesso a me e alla mia famiglia di rimetterci in piedi dopo anni di vita molto precaria. Oltre al lavoro, tengo corsi sulle reti informatiche, sono diventato animatore e aiuto a organizzare campi estivi per bambini. Non posso che essere grato a don Bosco per tutto quello che mi ha donato nella vita”.

Sono tante le storie di giovani come Shamil, che sono riusciti a indirizzare la propria vita grazie al lavoro dei Salesiani a Baku, e speriamo che quest’opera possa prosperare e continuare ancora a essere feconda.

Marco Fulgaro




Hai pensato alla tua vocazione? San Francesco di Sales potrebbe aiutarti (8/10)

(continuazione dall’articolo precedente)

8. Preghiera o servizio

Cari giovani,
la carità e la preghiera vanno sempre insieme. Devo dirvi che della persona di Gesù mi ha sempre toccato molto una sua affermazione: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”. (Mt 11,29).
Bene, il Gesù mite e umile di cuore ha sempre unito fortemente il suo essere Figlio del Padre che lo ama e con cui è in perfetta sintonia, con l’altra dimensione, quella della carità e dell’amore verso il prossimo: “Qualunque cosa avete fatto al più piccolo l’avete fatta a me…le sarà perdonato perché ha molto amato… avevo fame e mi avete dato da mangiare…
Mi chiedete come poter diventare santi nella vostra vita quotidiana: con la preghiera e l’apostolato. Mentre la preghiera alimenta l’amicizia con Dio, attraverso il silenzio, i Sacramenti e la Parola di Dio, la carità porta ad amare i fratelli, a costruire la comunità fino alla comunione. L’apostolato, il donarsi ai fratelli, prima di tutto i vicini, è anche il modo in cui potete iniziare a incontrare Dio: se, infatti, vi donerete ai fratelli con cuore mite e umile incontrerete quel Gesù che dice “l’avete fatto a me”. La santità cristiana (che io chiamavo “devozione”) consiste proprio in questo: è l’amore di Dio che agisce in noi e noi lo assecondiamo nel dono verso gli altri, vivacemente, prontamente e con tutto il cuore.
L’amore di Dio e l’amore al prossimo non sono soltanto i due comandamenti principali ma sono uno lo specchio dell’altro; voi direste che sono uno per l’altro la certificazione di qualità. Per aiutarvi a capire questo, ricordo di aver dato una volta un consiglio ad una donna che si stava impegnando fortemente nella preghiera: “Un’anima che viva una libertà che viene da Dio, se interrotta nella sua preghiera, ne uscirà con volto disteso e cuore garbato verso l’importuno che l’avrà scomodata, perché tutto le è uguale, o servire Dio meditando, o servirlo sopportando il prossimo; una cosa o l’altra sono volontà di Dio, ma in quel momento è necessario sopportare e aiutare il prossimo”.
Starete forse pensando che vivere in questo modo nel vostro mondo è molto complicato. La cultura e il momento storico/religioso in cui sono vissuto erano di certo molto conflittuali ma imbevuti di senso religioso e di rispetto della fede cristiana, molto diffusa. Non è così il vostro tempo.
Posso però dirvi che anche io ho dovuto (e voluto) vivere per qualche anno una forma decisamente impegnativa di missionarietà in una terra ostile, governata civilmente e religiosamente dai calvinisti.
Ripensandoci potrei raccontarvi qualche cosa sulla mia esperienza e, forse, questa potrebbe offrirvi qualche piccolo suggerimento su come vivere in questo tempo così complesso. Per conoscere le motivazioni dei nostri “avversari” ugonotti ho chiesto al Papa il permesso di leggere parecchi testi, che al tempo erano proibiti ad un cattolico, nei quali il cattolicesimo veniva aspramente contestato. Il mio obiettivo era trovare un punto di incontro e poi andare alle radici delle loro teorie soprattutto se ambigue o scorrette.
Anche quando mi hanno insultato, minacciato, accusato di magia, calunniato, ho risposto nella dolcezza con le persone semplici, ma nella assoluta fermezza culturale con chi era in malafede. Quanta preghiera, penitenza, digiuno ho offerto al Signore per quei nostri poveri fratelli. Il Vangelo lo porti con tutto te stesso e molto più efficacemente con l’aiuto concreto, la disponibilità all’ascolto, l’umiltà di approccio che molto spesso scioglie l’arroganza.
Ad una signora e mamma, che ho seguito epistolarmente per parecchi anni, davo un consiglio che forse vi può essere utile:
Non dovete solo essere devota e amare la devozione, bensì la dovete rendere amabile a tutti: la renderete amabile se la renderete utile e gradevole. I malati ameranno la vostra devozione se troveranno conforto nella vostra carità; la vostra famiglia se vi riconoscerà più premurosa per il suo bene, più dolce riguardo alle faccende, più amabile nelle correzioni… vostro marito se vedrà che, quanto più crescerà la vostra devozione, più sarete cordiale con lui e più dolce nell’affetto che gli portate; i vostri parenti e amici se ravviseranno in voi maggior franchezza, sopportazione e accondiscendenza alle loro volontà che non siano contrarie a quella di Dio. Insomma bisogna rendere attraente la vostra devozione”.

Ufficio Animazione Vocazionale

(continua)




L’esercizio della “buona morte” nell’esperienza educativa di don Bosco (2/5)

(continuazione dall’articolo precedente)

1. L’esercizio della buona morte nelle istituzioni salesiane e la secolare tradizione delle “Praeparationes ad mortem

            Fin dagli inizi dell’Oratorio stabilito in Valdocco (1846-47), don Bosco propose ai giovani l’esercizio mensile della buona morte come mezzo ascetico mirato a stimolare – attraverso una visione cristiana della morte – un costante atteggiamento di conversione e di superamento dei limiti personali e assicurare, con una confessione e una comunione ben fatte, le condizioni spirituali e psicologiche favorevoli per un fecondo cammino di vita cristiana e di costruzione delle virtù, in docile cooperazione con l’azione della grazia di Dio. La pratica in quel tempo si faceva nella maggior parte delle parrocchie, delle istituzioni religiose ed educative. Era per il popolo l’equivalente del ritiro mensile. Negli Oratori salesiani si teneva l’ultima domenica di ogni mese, e consisteva, come leggiamo nel Regolamento, “in un’accurata preparazione, per ben confessarsi e comunicarsi, e raggiustare le cose spirituali e temporali, come se ci trovassimo al fine di vita”.[1]
            L’esercizio diverrà pratica comune in tutte le istituzioni educative salesiane. Nei collegi e negli internati si eseguiva l’ultimo giorno del mese, in comune tra educatori e ragazzi.[2] Le stesse Costituzioni salesiane, fin dalla prima stesura, ne stabilivano la normatività: “L’ultimo di ciascun mese sarà giorno di ritiro spirituale, in cui lasciando, per quanto sarà possibile, gli affari temporali, ognuno si raccoglierà in se stesso, farà l’esercizio della buona morte, disponendo le cose spirituali e temporali, come se dovesse abbandonare il mondo ed avviarsi all’eternità”.[3]
            Lo svolgimento era semplice. I ragazzi, raccolti in cappella, pronunciavano comunitariamente le formule proposte nel Giovane provveduto, che fornivano il significato spirituale e teologico essenziale della pratica. Innanzitutto si recitava la preghiera di papa Benedetto XIII “per impetrare da Dio la grazia di non morire di morte improvvisa” e ottenere, per i meriti della passione di Cristo, di non essere tolti “tantosto da questo mondo”, in modo da avere ancora un congruo “spazio di penitenza” e prepararsi a “un transito felice ed in grazia […], affinché io vi ami [Signore Gesù] con tutto il cuore, vi loda, e benedica in eterno”. Poi si leggeva l’orazione a san Giuseppe per implorare “un intero perdono” dei propri peccati, la grazia di imitare le sue virtù, di camminare “sempre per la via che conduce al Cielo” ed essere difeso “da’ nemici dell’anima in quell’ultimo punto di vita; di modo che consolato dalla dolce speranza di volare […] a possedere l’eterna gloria in Paradiso spiri pronunziando i SS. nomi di Gesù, di Giuseppe e di Maria”. Infine un lettore enunciava le litanie della buona morte ad ognuna delle quali si rispondeva con la giaculatoria “Misericordioso Gesù, abbiate pietà di me”.[4] All’esercizio devoto seguiva la confessione personale e la comunione “generale”. Per l’occasione erano invitati confessori “straordinari”, affinché tutti avessero opportunità e piena libertà di sistemare le cose di coscienza.
            I religiosi salesiani, oltre alle orazioni recitate in comune cogli allievi, facevano un esame di coscienza più articolato. Il 18 settembre 1876, don Bosco spiegò ai discepoli il modo di renderlo fruttuoso:

             “Gioverà tanto fare un confronto tra mese e mese: ho fatto del profitto in questo mese? oppure vi fu in me regresso? Poi venire ai particolari: in questa virtù, in quest’altra, come mi sono diportato?
            E specialmente si dia una rivista a ciò che forma soggetto di voti ed alle pratiche di pietà: riguardo all’obbedienza come mi sono diportato? ho progredito? L’ho fatta proprio bene, per esempio, quell’assistenza che mi si diede da fare? come l’ho fatta? In quella scuola come mi sono impegnato? Riguardo alla povertà, sia negli abiti, nei cibi, nelle celle, ho niente che non sia da povero? ho desiderato golosità? mi son lamentato quando mi mancava qualche cosa? Poi venire alla castità: non ho dato in me luogo a pensieri cattivi? mi son distaccato sempre più dall’amore dei parenti? mi son mortificato nella gola, negli sguardi, ecc.?
            E così far passare le pratiche di pietà e notare specialmente se vi fu tiepidezza ordinaria, se si siano fatte le pratiche senza slancio.
            Questo esame, o più lungo o più corto, si faccia sempre. Siccome vi sono vari che hanno occupazioni da cui non possono esimersi in nessun giorno del mese, queste occupazioni sarà lecito tenerle, ma ciascuno in detto giorno faccia proprio [in modo] di eseguire queste considerazioni e di fare buoni propositi speciali”.[5]

            L’obiettivo, dunque, era quello di stimolare un monitoraggio regolare della propria vita in funzione perfettiva. Questo ruolo primario di stimolo e sostegno alla crescita virtuosa spiega perché don Bosco, nell’introduzione alle Costituzioni, sia giunto ad affermare che la pratica mensile della buona morte, insieme agli esercizi spirituali annuali, costituisce “la parte fondamentale delle pratiche di pietà, quella che in certo modo tutte le abbraccia”, e abbia concluso dicendo: “Credo che si possa dire assicurata la salvezza di un religioso, se ogni mese si accosta ai SS. Sacramenti, e aggiusta le partite di sua coscienza, come dovesse di fatto da questa vita partire per l’eternità”.[6]
            Col tempo l’esercizio mensile venne ulteriormente perfezionato, come leggiamo in una nota inserita nelle Costituzioni promulgate da don Michele Rua dopo il X Capitolo Generale:

             “a. L’esercizio della buona morte si faccia in comune, ed oltre a quello che prescrivono le nostre Costituzioni si tengano presenti queste regole: I) Oltre la meditazione solita del mattino, si faccia ancora una mezz’ora di meditazione alla sera, e questa versi su qualche novissimo; II) Si faccia come una rivista mensile della coscienza, e la confessione di quel giorno sia più accurata del solito, come se di fatto fosse l’ultima della vita, e si riceva la S. Comunione come per viatico; III) Finita la messa e le preghiere solite, si recitino le preghiere indicate nel manuale di pietà; IV) Si pensi almeno per mezz’ora al progresso od al regresso che si è fatto nella virtù nel mese passato, specialmente per ciò che riguarda i proponimenti fatti negli esercizi spirituali, l’osservanza delle Regole, e si prendano ferme risoluzioni di vita migliore; V) Si rileggano in quel giorno tutte, o almeno in parte, le Costituzioni della Pia Società; VI) Sarà anche bene di scegliere un santo protettore del mese che si sta per cominciare.
            b. Se taluno per le sue occupazioni non può fare l’esercizio della buona morte in comune, né attendere a tutte le accennate opere di pietà, col permesso del Direttore compia quelle soltanto che sono compatibili col suo impiego, rimandando le altre ad un giorno più comodo”.[7]

            Queste indicazioni rivelano la sostanziale continuità e sintonia con la secolare tradizione della preparatio ad mortem ampiamente documentata dalla produzione libraria fin dagli inizi del XVI secolo. Gli evangelici appelli all’attesa vigilante e operativa (cf. Mt 24,44; Lc 12,40), al tenersi preparati in vista del giudizio che fisserà la sorte eterna tra i “benedetti” o i “maledetti” (Mt 25,31-46), uniti al monito quaresimale “Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris”, nel corso dei secoli hanno costantemente alimentato le considerazioni dei maestri di spirito e dei predicatori, hanno ispirato le rappresentazioni artistiche, si sono tradotti in rituali, pratiche devote e penitenziali, hanno suggerito propositi e amorosi aneliti alla comunione eterna con Dio. Hanno anche suscitato timori, ansie, talvolta angosce, in base alle sensibilità spirituali e alle visioni teologiche delle varie epoche.
            Le dotte riflessioni sapienziali del De praeparatione ad mortem di Erasmo e di altri umanisti,[8] permeate di genuino spirito evangelico ma tanto erudite da sembrare esercizi retorici, tra Seicento e primo Settecento avevano lasciato progressivamente spazio alle esortazioni morali dei predicatori e alle considerazioni meditative degli spirituali. Un opuscolo del cardinale Giovanni Bona affermava che la migliore preparazione alla morte è quella remota, attuata attraverso una vita virtuosa in cui quotidianamente ci si esercita a morire a se stessi e fuggire ogni forma di peccato, a vivere secondo la legge di Dio in comunione orante con lui;[9] esortava a pregare costantemente per ottenere la grazia di una morte felice; suggeriva di dedicare un giorno al mese di preparazione prossima alla morte nel silenzio e nella meditazione, purificando l’anima con una “diligentissima e dolorosa confessione”, dopo un accurato esame del proprio stato, e accostandosi alla comunione per modum Viatici, con intensa devozione;[10] invitava poi a concludere la giornata immaginandosi sul letto di morte, nel momento estremo:

             “Rinnoverai più intensi atti di amore, di ringraziamento e di desiderio di vedere Dio; chiederai perdono di tutto; dirai: «Signore Gesù Cristo, in quest’ora della mia morte, poni la tua passione e la tua morte tra il tuo giudizio e l’anima mia. Padre, nelle tue mani affido il mio spirito. Aiutatemi santi di Dio, accorrete o angeli per sostenere la mia anima e offrirla al cospetto dell’Altissimo» […]. Poi immaginerai che la tua anima sia condotta all’orrendo giudizio di Dio e che, per le preghiere dei santi, ti sia prolungata la vita in modo da poter fare penitenza: quindi proponendo con forza di vivere più santamente, in futuro ti considererai e ti comporterai come morto al mondo e vivente solo per Dio e per la penitenza”.[11]

            Giovanni Bona chiudeva la sua Praeparatio ad mortem con un’aspirazione devota incentrata sul desiderio del Paradiso permeata da intenso afflato mistico.[12] Il cardinale cistercense era stato allievo dei gesuiti. Da essi aveva attinto l’idea della giornata mensile di preparazione alla morte.
            La meditazione sulla morte faceva parte integrale degli esercizi spirituali e delle missioni popolari: certa è la morte, incerto è il momento del suo arrivo, bisogna tenersi pronti perché quando essa verrà Satana moltiplicherà i suoi assalti per rovinarci eternamente: “Che conseguenza adunque ne viene? […] Fare adesso in vita abiti buoni. Non contentarmi solamente di vivere in grazia di Dio, né di star un sol momento in peccato; ma fare abitualmente, con l’esercizio continuo d’opere buone, una tal vita, che nell’ultimo momento non abbi il Demonio con qualche tentazione a farmi perdere per tutta l’Eternità”.[13]
            A partire dal Seicento e per tutto il Settecento i predicatori calcarono l’importanza del tema, modulando le loro riflessioni secondo le sensibilità proprie del gusto barocco, con forte accentuazione degli aspetti drammatici, senza però sviare l’attenzione degli uditori dalla sostanza: l’accettazione serena della morte, l’appello alla conversione del cuore, la costante vigilanza, il fervore nelle opere virtuose, l’offerta di sé a Dio e l’anelito alla comunione eterna d’amore con lui. Progressivamente l’esercizio della buona morte assunse un’importanza sempre più ampia, fino a diventare una delle pratiche ascetiche principali del cattolicesimo. Il modello di svolgimento è offerto, ad esempio, in un opuscolo seicentesco di un anonimo gesuita:

             “Scegliete un giorno d’ogni mese de’ più liberi da ogni altro affare, nel qual dovrete con particolar diligenza impiegarvi nell’Orazione, Confessione, Communione e visita del Santissimo Sacramento.
            L’Orazione di questo giorno dovrà in due volte arrivare a due ore: e la materia di essa potrà esser questa ch’accenneremo. Nella prim’ora concepite quanto più vivamente potrete lo stato, nel quale vi troverete già moribondo […]. Considerate quello, che moribondo vorreste aver fatto, prima verso Dio, secondo verso voi stesso, terzo verso il prossimo, mescolando in questa meditazione diversi affetti ferventi, e di pentimento, e di propositi, e di domande al Signore, per impetrar da lui virtù d’emendarvi. La seconda Orazione avrà per materia i motivi più forti che si ritrovino, per accettar volentieri da Dio la morte […]. Gli affetti di questa Meditazione saranno d’offerta della vita propria al Signore, di protesta, che se potessimo allungarla, oltre il suo divinissimo beneplacito, non lo faremmo; di domanda, per offerir questo sacrificio con quello spirito d’amore, che richiede il rispetto dovuto alla sua amorevolissima Provvidenza, e disposizione.
            La Confessione dovrà esser fatta da voi con più particolare diligenza, e come se fosse l’ultima volta, che vi andaste a mondar nel sangue preziosissimo di Gesù Cristo […].
            Anche la Comunione dovrà farsi con più straordinaria preparazione, e come se vi comunicaste per Viatico, adorando quel Signore, che sperate di dover adorare per tutta l’Eternità; ringraziandolo della vita, che vi ha concessa, chiedendogli perdono d’averla sì malamente impiegata; offerendovi pronto a terminarla, perché egli così vuole, e domandandogli finalmente grazia, che v’assista in questo gran passo, affinché l’anima vostra appoggiata al suo Diletto, da questo Deserto passi sicura al Regno”.[14]

            L’impegno per la diffusione dell’esercizio della buona morte non limitava le considerazioni dei predicatori e dei direttori di spirito al tema dei novissimi, quasi a voler fondare l’edificio spirituale unicamente sul timore dell’eternità dannata. Questi autori conoscevano i danni psicologici e spirituali che l’affanno e l’angoscia per la propria salvezza producevano sugli animi più sensibili. Le raccolte di meditazioni prodotte tra la fine del Seicento e metà Settecento, non solo insistevano sulla misericordia di Dio e sull’abbandono in lui, per condurre il fedele allo stato permanente di serenità spirituale che è proprio di chi ha integrato la coscienza della propria finitudine temporale in una solida visione di fede, ma spaziavano su tutti i temi della dottrina e della pratica cristiana, della morale privata e pubblica: verità della fede e soggetti evangelici, vizi e virtù, sacramenti e preghiera, opere di carità spirituale e materiale, ascetica e mistica. La considerazione del destino eterno dell’uomo si allargava alla proposta di un vissuto cristiano esemplare e ardente, che si traducesse in cammini spirituali orientati alla santificazione personale e all’affinamento del vissuto quotidiano e sociale, sullo sfondo di una teologia sostanziosa e di un’antropologia cristiana raffinata.
            Un esempio tra i più eloquenti è fornito dai tre volumi del gesuita Giuseppe Antonio Bordoni, che raccolgono le meditazioni proposte ogni settimana per oltre vent’anni ai confratelli della Compagnia della buona morte, da lui istituita nella chiesa dei Santi Martiri di Torino (1719). L’opera fu molto apprezzata per la solidità teologica, la forma priva di orpelli retorici, la ricchezza di esempi concreti ed ebbe decine di ristampe fino alle soglie del Novecento.[15] All’ambiente religioso torinese sono legati anche i Discorsi sacri e morali per l’esercizio della buona morte – più segnati dal gusto del tempo ma altrettanto solidi – predicati, nella seconda metà del Settecento, dal sacerdote Giorgio Maria Rulfo direttore spirituale della Compagnia dell’Umiltà formata da signore della nobiltà sabauda.[16]
            La pratica proposta da san Giovanni Bosco agli allievi dell’Oratorio e delle istituzioni educative salesiane aveva, dunque, una solida tradizione spirituale di riferimento.

(continua)


[1] Giovanni Bosco, Regolamento dell’Oratorio di S. Francesco di Sales per gli esterni, Torino, Tipografia Salesiana, 1877, 44.

[2] Cf. Giovanni Bosco, Regolamento per le case della Società di S. Francesco di Sales, Torino, Tipografia Salesiana, 1877, 63 (parte II, capo II, art. 4): “[…] Una volta al mese si farà da tutti l’esercizio della buona morte, preparandovisi con qualche sermoncino od altro esercizio di pietà”.

[3] [Giovanni Bosco], Regole o Costituzioni della Società di S. Francesco di Sales secondo il Decreto di approvazione del 3 aprile 1874, Torino, Tipografia Salesiana, 1877, 81 (cap. XIII, art. 6). Lo stesso stabilivano le Costituzioni delle Figlie di Maria Ausiliatrice, con una dicitura molto simile: “La prima Domenica o il primo Giovedì del mese sarà giorno di ritiro spirituale, in cui, lasciando per quanto   è possibile gli affari temporali, ognuna si raccoglierà in se stessa, farà l’Esercizio della buona morte, disponendo le cose sue spirituali e temporali, come se dovesse abbandonare il mondo ed avviarsi all’Eternità. Si faccia qualche lettura acconcia al bisogno, e ove si possa la Superiora procuri dal Direttore una predica od una conferenza sull’argomento”, Regole o Costituzioni per le Figlie di Maria SS. Ausiliatrice aggregate alla Società salesiana (ed. 1885), Titolo XVII, art. 5, in Giovanni Bosco, Costituzioni per l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (1872-1885). Testi critici a cura di Cecilia Romero, Roma, LAS, 1983, 325.

[4] Giovanni Bosco, Il giovane provveduto per la pratica de’ suoi doveri degli esercizi di cristiana pietà per la recita dell’uffizio della Beata Vergine e de principali vespri dell’anno coll’aggiunta di una scelta di laudi sacre ecc., Torino, Tipografia Paravia e Comp. 1847, 138-142.

[5] Archivio Salesiano Centrale, A0000409 Prediche di don Bosco – Esercizi Lanzo 1876, quaderno XX, ms di Giulio Barberis, pp. 10-11.

[6] Giovanni Bosco, Ai Soci Salesiani, in Regole o Costituzioni della Società di S. Francesco di Sales (ed. 1877), 38.

[7] Costituzioni della Società di san Francesco di Sales precedute dall’introduzione scritta dal Fondatore sac. Giovanni Bosco, Torino, Tipografia Salesiana, 1907, 227- 231.

[8] Des. Erasmi Roterodami liber cum primis pius, de praeparatione ad mortem, nunc primum et conscriptus et aeditus…, Basileae, in officina Frobeniana per Hieronymum Frobenium & Nicolaum Episcopium 1533, 3-80 (Quomodo se quisque debeat praeparare ad mortem). Cf. anche Pro salutari hominis ad felicem mortem praeparatione, hinc inde ex Scriptura sacra, et sanctis, doctis, et christianissimis doctoribus, ad cujusdam petitionem, et aliorum etiam utilitatem, a Sacrarum literarum professore Ludovico Bero conscripta et nunc primum edita, Basileae, per Joan. Oporinum, 1549.

[9] Giovanni Bona, De praeparatione ad mortem…, Roma, in Typographia S. Michaelis ad Ripam per Hieronimum Maynardi, 1736, 11-13.

[10] Ibid., 67-73.

[11] Ibid., 74-75.

[12] Ibid., 126-132: “Affectus animae suspirantis ad Paradisum”.

[13] Carlo Ambrogio Cattaneo, Esercizi spirituali di sant’Ignazio, Trento, per Gianbatista Monauni, 1744, 74.

[14] Esercizio di preparazione alla morte proposto da un religioso della Compagnia di Gesù per indirizzo di chi desidera far bene un tal passo, Roma, per gl’Eredi del Corbelletti [1650], ff. 3v-6v.

[15] Giuseppe Antonio Bordoni, Discorsi per l’esercizio della buona morte, Venezia, nella stamperia di Andrea Poletti, 1749-1751, 3 vol.; l’ultima edizione è quella torinese di Pietro Marietti in 6 volumi (1904-1905).

[16] Giorgio Maria Rulfo, Discorsi sacri, e morali per l’esercizio della buona morte, Torino, presso i librai B.A. Re e G. Rameletti, 1783-1784, 5 vol.




Alexandre Planas Saurì, il sordo martire (2/2)

(continuazione dal’articolo precedente)

Il salesiano
            È accanto ai malati, i bambini. L’Oratorio, che i salesiani avevano fondato all’inizio della casa, terminò con la sua partenza nel lontano 1903. Ma la parrocchia di Sant Vicenç raccolse la fiaccola attraverso un giovane, Joan Juncadella, catechista nato, e il Sordo, suo grande assistente. Tra loro nacque, come detto prima, una fortissima amicizia e una collaborazione permanente, a cui pose fine solo la tragedia del 1936. Alexandre si occupava della pulizia e dell’ordine del luogo, ma ben presto si dimostrò un vero animatore di giochi e delle escursioni che venivano organizzate. E, se necessario, non esitava a mettere a disposizione i soldi che risparmiava.
E aveva dentro di sé il cuore salesiano. La sordità non gli permise di professare come salesiano, cosa che sicuramente desiderava. Tuttavia, risulta che avesse fatto voti privati che emise con l’autorizzazione dell’allora ispettore, don Filippo Rinaldi, secondo la testimonianza di uno dei direttori della casa, padre Crescenzi.
            La sua identificazione con la causa salesiana la dimostrò in mille modi, ma in forma particolarmente significativa prendendosi personalmente cura della casa per quasi 30 anni e difendendola nella difficile situazione dell’estate e dell’autunno del 1936.
            “Sembrava il padre di ognuno di noi”. Quando nel 1935, tre ragazzi annegarono nel fiume “il dolore di quell’uomo era come quello di aver perso tre figli contemporaneamente”. Sappiamo che i salesiani non lo considerarono un dipendente, ma uno della famiglia, o un cooperatore. Oggi forse potremmo dire un laico consacrato nello stile dei Volontari con Don Bosco. “Un salesiano di grande statura spirituale”.

Abbracciato alla Croce, vero testimone di fede e di riconciliazione
            Nell’autunno del 1931 i salesiani tornarono a Sant Vicenç dels Horts. Le rivolte incontrollate che produssero la caduta della monarchia spagnola colpirono la casa di El Campello (Alicante) dove in quel tempo si trovava l’Aspirantato. Fu quindi presa la decisione di spostarlo a Sant Vicenç. La casa, anche se relativamente fatiscente, era pronta e poté ampliarsi con l’acquisto di una torre adiacente. Qui si svolse la vita degli aspiranti, la cui testimonianza sul Sordo ha permesso di disegnare il ritratto dell’uomo, dell’artista, del credente e del salesiano a cui abbiamo fatto riferimento.

Cristo inchiodato alla croce, nel cortile della casa, di Alexandre

La deposizione nelle mani di Maria, nel cortile della casa, di Alexandre

Il santo sepolcro, nel cortile della casa, di Alexandre

            Non è ora il caso di riferirsi alla situazione critica degli anni 1931-1936 in Spagna. Nonostante tutto questo, la vita dell’Aspirantato di Sant Vicenç trascorse abbastanza normalmente. Il motore della vita quotidiana era la coscienza vocazionale dei giovani che sempre li spingeva a guardare avanti nella speranza di legarsi in una data non lontana a don Bosco per sempre.
            Finché arrivò la rivoluzione del 18 luglio 1936. Lo stesso giorno salesiani e giovani fecero la loro escursione-pellegrinaggio al Tibidabo. Quando tornarono, nel pomeriggio, le cose stavano cambiando. In pochi giorni la casa parrocchiale del villaggio venne incendiata, il seminario salesiano fu sequestrato, un clima di intolleranza religiosa si era diffuso ovunque, il parroco e il vicario della parrocchia furono arrestati e uccisi, le forze dell’ordine non poterono o non seppero far fronte ai disordini. A Sant Vicenç prese il potere il “Comitato antifascista”, di matrice chiaramente anticristiana.
            Sebbene in un primo momento la vita degli educatori fosse rispettata, grazie all’attenzione verso i ragazzi che la casa ospitava, tuttavia dovettero assistere alla distruzione e al rogo di tutti gli oggetti religiosi, in particolare dei tre monumenti eretti dal Sordo. “Quanto soffrì” vedendosi nella necessità di collaborare alla distruzione di quella che era espressione della sua profonda spiritualità e di assistere all’espulsione dei sacerdoti.
            In quei giorni il Sordo prese chiaramente coscienza del nuovo ruolo che la rivoluzione lo costringeva ad assumere: senza cessare di essere il principale anello di congiunzione della comunità con il mondo esterno (si era sempre mosso liberamente come fattorino e in ogni tipo di necessità), doveva custodire come prima la proprietà e, soprattutto, proteggere i seminaristi. “In realtà era lui a rappresentare i salesiani e a farci da padre”. In pochi giorni, infatti, rimasero solo i coadiutori e un gruppo sempre più ristretto di ragazzi aspiranti.
            L’espulsione definitiva di entrambi avvenne il 12 novembre. A Sant Vicenç è rimasto solo il signor Alexandre. dei suoi ultimi giorni di vita abbiamo solo tre dati certi: due dei coadiutori espulsi tornò al villaggio il 16 per convincerlo a cercare un posto più sicuro fuori dal villaggio, cosa che Alexandre rifiutò. Non poteva lasciare la casa che aveva custodito per tanti anni e non rispettare lo spirito salesiano anche in mezzo a quelle difficili circostanze. Uno di loro, Eliseo García, non volendolo lasciare solo, rimase con lui. Entrambi furono arrestati nella notte tra il 18 e il 19. Pochi giorni dopo, vedendo che Eliseo non era tornato a Sarriá, un altro salesiano coadiutore e un seminarista si recarono a Sant Vicenç per avere loro notizie. “Non sanno cosa è successo?”, disse una signora amica che conoscevano e che gestiva un bar. “Ci ha raccontato in poche parole della scomparsa del Sordo e di Eliseo”.
            Come trascorse questa ultima settimana? Conoscendo a fondo il percorso di vita del Sordo, sempre fedele ai suoi principi e al suo modo di fare, non è difficile immaginarlo: aiutando gli uni e gli altri, senza nascondere la sua fede e la sua carità, con la consapevolezza di fare il bene, contemplando il mistero della passione e morte di Cristo reale e presente nella vita dei perseguitati, degli scomparsi e degli assassinati… Forse nella speranza che potesse essere il custode non solo delle proprietà dei salesiani ma il custode di tante persone del popolo che soffrivano. Del crocifisso, come abbiamo ricordato, non volle spogliarsi nemmeno nei mesi di persecuzione religiosa che culminarono nel suo martirio. Con questa fede, con questa speranza, con questo immenso amore ascolterebbe dal Signore della gloria: “Molto bene, servo buono e fedele. Sei rimasto fedele in piccole cose; Ti affiderò molto di più. Entra nella gioia del tuo Signore”. (Mt 25,21)

Il Vangelo del Sordo
            Arrivati a questo punto, ogni spirito, per quanto insensibile, non può che tacere e cercare di raccogliere, al meglio delle sue capacità, la preziosa eredità spirituale che Alexandre ha lasciato alla Famiglia Salesiana, la sua famiglia adottiva. Possiamo dire qualcosa sul “suo vangelo”, cioè sulla Buona Novella che Egli ha fatto sua e continua a proporci con la sua vita e la sua morte?
            Alexandre è come quel “sordo che sa a malapena parlare” di Mc 7,32. La supplica dei suoi genitori a Gesù per la guarigione sarebbe stata continua. Come lui, anche Gesù lo portò in un luogo solitario, lontano dalla sua gente e gli disse: “Effata!” Il miracolo non era nella guarigione dell’orecchio fisico, ma nell’orecchio spirituale. Mi sembra che l’accettazione della sua situazione con spirito di fede sia stata una delle esperienze fondanti della sua vita da credente che lo ha portato a proclamare, come il sordo del Vangelo, ai quattro venti: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti” (Mc 7,37).
            E da qui possiamo contemplare nella vita del Sordo “il tesoro nascosto del Regno” (Mt 13,44); “il lievito che fa fermentare tutta la pasta” (Mt 13,33); Gesù in persona “che accoglie i malati” e “benedice i bambini”; Gesù che prega il Padre per ore e ore e ci insegna il Padre nostro (dare gloria al Padre, desiderare il Regno, compiere la sua volontà, fidarsi del pane quotidiano, perdonare, liberare dal male…) (Mt 7,9-13); “l’amministratore della casa che tira fuori dalla sua borsa cose nuove e cose vecchie come meglio crede” (Mt 13,52); “il buon samaritano che ha pietà dell’uomo percosso, gli si avvicina, gli fascia le ferite e si fa carico della sua guarigione” (Lc 10,33-35); “il Buon Pastore, custode dell’ovile che entra dalla porta, ama le pecore fino a dare la vita per loro” (Gv 10,7-11)… In una parola, un’icona vivente delle Beatitudini, di tutte, nella vita di ogni giorno (Mt 5,3-12).
            Ma, e ancora di più, possiamo avvicinarci ad Alexandre e contemplare con lui il Mistero della passione, morte e risurrezione di Gesù. Un mistero che si avvererà nella sua vita dalla nascita alla morte. Un mistero che lo rafforza nella sua fede, che alimenta la sua speranza e che lo riempie di amore, con cui dare gloria a Dio, fatto tutto per tutti con i bambini e i giovani della casa salesiana, e con i paesani del villaggio di Sant Vicenç specialmente i più poveri, compresi quelli che gli hanno tolto la vita: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Fammi, Signore, testimone di fede e di riconciliazione. Possano anche loro, un giorno, sentire dalle tue labbra: “Oggi sarai con me in Paradiso” (Lc 23,43).
            Beato Alexandre Planas Saurí, laico, martire salesiano, testimone di fede e di riconciliazione, seme fecondo della civiltà dell’Amore per il mondo di oggi, intercedi per noi.

don Joan Lluís Playà, sdb




Il Beato Michele Rua, fiore singolare nato nel giardino della Compagnia dell’Immacolata

            Domenico Savio arrivò all’Oratorio di Valdocco nell’autunno del 1854, al termine della micidiale pestilenza che aveva decimato la città di Torino. Divenne subito amico di Michele Rua, Giovanni Cagliero, Giovanni Bonetti, Giuseppe Bongiovanni con cui si accompagnava recandosi a scuola in città. Con ogni probabilità non seppe niente della ‘Società salesiana’ di cui Don Bosco aveva cominciato a parlare ad alcuni dei suoi giovani nel gennaio di quell’anno. Ma nella primavera seguente ebbe un’idea che confidò a Giuseppe Bongiovanni. Nell’Oratorio c’erano ragazzi magnifici, ma c’erano anche mezze teppe che si comportavano male, e c’erano ragazzi sofferenti, in difficoltà negli studi, presi dalla nostalgia di casa. Ognuno per conto suo cercava di aiutarli. Perché i giovani più volenterosi non potevano unirsi insieme, in una ‘società segreta’, per diventare un gruppo compatto di piccoli apostoli nella massa degli altri? Giuseppe si disse d’accordo. Ne parlarono con alcuni. L’idea piacque. Si decise di chiamare il gruppo “Compagnia dell’Immacolata”. Don Bosco diede il suo consenso: provassero, stendessero un piccolo regolamento. Dai verbali della Compagnia conservati nell’Archivio Salesiano, sappiamo che i componenti che si radunavano una volta alla settimana erano una decina: Michele Rua (che fu eletto presidente), Domenico Savio, Giuseppe Bongiovanni (eletto segretario), Celestino Durando, Giovanni B. Francesia, Giovanni Bonetti, Angelo Savio chierico, Giuseppe Rocchietti, Giovanni Turchi, Luigi Marcellino, Giuseppe Reano, Francesco Vaschetti. Mancava Giovanni Cagliero perché era convalescente dopo una grave malattia e viveva nella casa di sua madre. L’articolo conclusivo del regolamento, che fu approvato da tutti, anche da Don Bosco, diceva: “Una sincera, filiale, illimitata fiducia in Maria, una tenerezza singolare verso di Lei, una devozione costante ci renderanno superiori ad ogni ostacolo, tenaci nelle risoluzioni, rigidi verso noi stessi, amorevoli col prossimo, esatti in tutto”.
            I soci della Compagnia scelsero di ‘curare’ due categorie di ragazzi, che nel linguaggio segreto dei verbali vennero chiamati ‘clienti’. La prima categoria era formata dagli indisciplinati, quelli che avevano la parolaccia facile e menavano le mani. Ogni socio ne prendeva in consegna uno e gli faceva da ‘angelo custode’ per tutto il tempo necessario (Michele Magone ebbe un ‘angelo custode’ perseverante!). La seconda categoria erano i nuovi arrivati. Li aiutavano a trascorrere in allegria i primi giorni, quando ancora non conoscevano nessuno, non sapevano giocare, parlavano solo il dialetto del loro paese, avevano nostalgia. (Francesco Cerruti ebbe come ‘angelo custode’ Domenico Savio, e narrò con semplice incanto i loro primi incontri).
            Nei verbali si vede lo snodarsi di ogni singola riunione: un momento di preghiera, pochi minuti di lettura spirituale, un’esortazione vicendevole a frequentare la Confessione e la Comunione; “parlasi quindi dei clienti affidati. Si esorta la pazienza e la confidenza in Dio per coloro che sembravano interamente sordi e insensibili; la prudenza e la dolcezza verso coloro che promettonsi facili a persuasione”.
            Confrontando i nomi dei partecipanti alla Compagnia dell’Immacolata con i nomi dei primi ‘ascritti’ alla Pia Società, si ha la commovente impressione che la ‘Compagnia’ fosse la ‘prova generale’ della Congregazione che Don Bosco stava per fondare. Essa era il piccolo campo dove germinarono i primi semi della fioritura salesiana. La ‘Compagnia’ divenne il lievito dell’Oratorio. Essa trasformò ragazzi comuni in piccoli apostoli con una formula semplicissima: una riunione settimanale con una preghiera, l’ascolto di una pagina buona, un’esortazione vicendevole a frequentare i Sacramenti, un programma concreto su come e chi aiutare nell’ambiente dove si viveva, una chiacchierata alla buona per comunicarsi successi e fallimenti dei giorni appena trascorsi. Don Bosco ne fu molto contento. E volle che fosse trapiantata in ogni opera salesiana che nasceva, perché anche lì fosse un centro di ragazzi impegnati e di future vocazioni salesiane e sacerdotali. Nelle quattro pagine di consigli che Don Bosco diede a Michele Rua che andava a fondare la prima casa salesiana fuori Torino, a Mirabello (sono una delle sintesi migliori del suo sistema di educare, e verranno consegnate ad ogni nuovo direttore salesiano) si leggono queste due righe: “Procura d’iniziare la Società dell’Immacolata Concezione, ma ne sarai soltanto promotore e non direttore; considera tal cosa come opera dei giovani”. In ogni opera salesiana un gruppo di ragazzi impegnati, denominato come crediamo più opportuno, ma fotocopia dell’antica ‘Compagnia dell’Immacolata’! Non sarà questo il segreto che Don Bosco ci confida per far nuovamente germinare vocazioni salesiane e sacerdotali? È una certezza: la Congregazione salesiana è stata fondata e si è dilatata coinvolgendo giovani, che si lasciarono convincere dalla passione apostolica di Don Bosco e dal suo sogno di vita. Dobbiamo narrare ai giovani la storia degli inizi della Congregazione, della quale i giovani furono ‘cofondatori’. La maggioranza (Rua, Cagliero, Bonetti, Durando, Marcellino, Bongiovanni, Francesia, Lazzero, Savio) furono compagni di Domenico Savio e membri della Compagnia dell’Immacolata; e dodici furono fedeli a Don Bosco fino alla morte. È auspicabile che questo fatto ‘fondazionale’ ci aiuti a coinvolgere sempre più i giovani di oggi nell’impegno apostolico per la salvezza di altri giovani.




Hai pensato alla tua vocazione? San Francesco di Sales potrebbe aiutarti (7/10)

(continuazione dall’articolo precedente)

7. Chi trova un amico…?

Cari giovani,
il dono e la responsabilità dell’amicizia autentica, cristiana, ha caratterizzato tutta la mia esistenza. Probabilmente, in maniera tanto intensa da diventare una delle sorgenti più concrete per scoprire e riscoprire la bellezza dell’amore di Dio, specialmente nei momenti bui e delicati.
Questo profondissimo desiderio di amare le persone care secondo lo stile di Dio e di voler spassionatamente bene agli amici grazie all’amore ricevuto dal buon Gesù, mi portò a esprimere una specie di promessa: «Nel mio cuore resterà sempre molto ardente il desiderio di conservare tutte le mie amicizie».
Io penso che l’amicizia non sia solo complicità, scherzi nella leggerezza, confidenze che magari escludono anche altri con malignità, piccole vendette… ma autentica educazione ad accogliere l’amore divino-umano che Gesù Cristo ha avuto per noi.
All’interno della mia famiglia la gioia dell’amicizia è consistita nel ricevere e donare amore semplice e autentico. A Parigi ebbi autentici amici, alcuni colleghi di studio che mi aiutarono passandomi gli appunti dei corsi di teologia che io non potevo frequentare e suggerendomi i corsi più validi da seguire. A Padova il discernimento nell’amicizia per me significò distinguere gli amici veri da quelli che cercavano da parte mia solo una goliardia spensierata. Questi ultimi mi combinarono anche qualche scherzo pesante, ma seppi sempre rispondere a tono, con decisione e rettitudine d’animo.
Diventato sacerdote, mi fu offerta l’occasione di una vera amicizia con il senatore Favre. La differenza di età e responsabilità era molto forte: ma la relazione amicale fu sempre serena e rispettosa, e dalle lettere che ci siamo scambiati trapela anche un affetto fraterno di qualità difficilmente raggiungibile.
Da vescovo, nel 1604, ho incontrato la signora Francesca de Chantal, che poi si consacrò e fondò con me la congregazione delle Visitandine. Definirei l’amicizia tra di noi «più bianca della neve e più pura del sole», prima come direzione spirituale condotta con il cuore e poi come scambio di doni nello Spirito. Il tema predominante di quello che era stato un ricco scambio di lettere e di colloqui è consistito nella guida verso il cammino di fiducia totale nei confronti di Dio: dall’amicizia tra persone umane illuminate dallo Spirito al cuore della relazione con Gesù Cristo, al quale possiamo abbandonarci con totale fiducia, nelle luci e nelle tempeste, nella gioia e nei giorni più bui.

Ufficio Animazione Vocazionale

(continua)