Alexandre Planas Saurì, il sordo martire (1/2)

Alexandre Planas Saurì, nato a Mataró (Barcellona) nel 31 di dicembre 1878, è stato un laico collaboratore dei salesiani fino alla sua gloriosa morte come martire a Garraf (Barcellona) il 19 novembre 1936. La sua beatificazione avvenne insieme con altri salesiani e membri della famiglia salesiana, l’11 marzo del 2001, da parte di papa san Giovanni Paolo II.

            Nell’elenco dei martiri spagnoli beatificati da Giovanni Paolo II l’11 marzo 2001, c’è il laico Alexandre PLANAS SAURÌ. Il suo nome fa parte dei martiri salesiani dell’Ispettoria Tarraconense, sottogruppo di Barcellona. Le testimonianze sulla sua vita usano anche la parola “della famiglia” o “cooperatore”, ma tutte lo definiscono come “un autentico salesiano”. Il villaggio di Sant Vicenç dels Horts, dove visse per 35 anni, lo conobbe con il soprannome di “El Sord”, “El Sord dels Frares (Il Sordo dei frati)”. E questa è l’espressione che compare sulla bella lapide della Chiesa Parrocchiale, posta proprio su un lato della parte posteriore, nel punto preciso in cui si trovava Alexandre quando andava a pregare.
            La sua vita fu interrotta nella notte tra il 18 e il 19 novembre 1936 insieme a quella di un salesiano coadiutore, Eliseo García, che rimase con lui per non lasciarlo solo, poiché Alexandre non voleva abbandonare il villaggio e cercare un posto più sicuro. In poche ore entrambi furono arrestati, condannati dal comitato anarchico del comune, e portati sulle rive del Garraf, sul Mediterraneo, dove furono fucilati. I loro corpi non furono ricuperati. Alexandre aveva 58 anni.
            Questa è una nota che avrebbe potuto far parte della pagina degli eventi di qualsiasi giornale e cadere nel più assoluto oblio. Ma non è stato così. La Chiesa ha proclamato entrambi beati. Per la Famiglia Salesiana sono stati e saranno sempre “segni di fede e di riconciliazione”. In queste pagine si farà riferimento al sig. Alexandre. Chi era quest’uomo che la gente soprannominava “el Sord dels Frares”?

Le circostanze della sua vita
            Alexandre Planas Saurì nacque a Mataró (provincia di Barcellona) nel 1878, sei anni prima che il treno che portava don Bosco a Barcellona (per visitare e incontrarsi con i salesiani e i giovani della casa di Sarriá) si fermasse alla stazione di questa città, per prelevare la signora Dorotea de Chopitea e i Martí Codolar che desideravano accompagnarlo nell’ultimo tratto del viaggio verso Barcellona.
            Della sua infanzia e adolescenza si sa molto poco. Ricevette il battesimo nella parrocchia più popolare della città, San Giuseppe e San Giovanni. Era, senza dubbio, un ragazzo assiduo nelle celebrazioni domenicali, nelle attività e nelle feste della parrocchia. A giudicare dalla traiettoria della sua vita successiva, fu un giovane che seppe sviluppare una solida vita spirituale.
            Alexandre aveva una notevole menomazione fisica: era totalmente sordo e aveva un corpo sgraziato (basso di statura, con il corpo curvo). È sconosciuta la circostanza che lo ha portato a Sant Vicenç dels Horts, una città a circa 50 km dalla sua città natale. La verità è che nel 1900 era tra i salesiani della piccola città di Sant Vicenç come impiegato nelle attività quotidiane della casa salesiana: il giardino, le pulizie, l’agricoltura, le commissioni… Un giovane uomo di ingegno e laborioso. E, soprattutto, “buono e molto pio”.
            La casa di Sant Vicenç dels Horts fu acquistata da don Filippo Rinaldi, già ispettore di Spagna, nel 1895, per ospitare il noviziato e gli studi di filosofia che dovevano essere fatti in seguito. Fu il primo centro di formazione dei salesiani in Spagna. Alexandre vi arrivò nel 1900 come dipendente, guadagnandosi subito la stima di tutti. Si sentiva molto a suo agio, pienamente integrato nello spirito e nella missione di quella casa.
            Alla fine dell’anno scolastico 1902-1903, la casa subì un forte cambiamento di orientamento. Il Rettor Maggiore, don Michele Rua, aveva creato le tre province della Spagna. Quelle di Madrid e di Siviglia decisero di organizzare la formazione nelle rispettive province. Anche quella di Barcellona trasferì il noviziato e la filosofia a Girona. La casa di Sant Vicenç dels Horts restò praticamente vuota in pochi mesi, abitata solo dal signor Alexandre.
            Da quell’anno, fino al 1931 (28 anni!), divenne il guardiano di quella casa: non solo della proprietà, ma soprattutto delle tradizioni salesiane che in pochi anni si erano radicate fortemente nella popolazione. Una presenza e un lavoro benevoli, vivendo come un anacoreta, ma per nulla estraneo agli amici della casa che lo proteggevano, ai malati del paese che visitava, alla vita parrocchiale che frequentava, ai parrocchiani che edificava con l’esempio della sua pietà, e ai bambini della catechesi parrocchiale e dell’oratorio festivo che animava insieme a un giovane del paese, Joan Juncadella, con il quale strinse una forte amicizia. Distante e vicino allo stesso tempo, con non poca influenza sulle persone. Un personaggio singolare. Il referente dello spirito salesiano nel villaggio. “El sord dels frares”.

L’uomo

            Alexandre, una persona disabile e sorda, ma che capiva i suoi interlocutori grazie al suo sguardo penetrante, dal movimento delle labbra, rispondeva sempre con lucidità, anche se a bassa voce. Un uomo dal cuore buono e luminoso: “Un tesoro posto in un brutto vaso di terracotta, ma noi, i bambini, siamo stati in grado di percepire perfettamente la sua dignità umana”.
            Si vestiva poveramente, sempre con la borsa a tracolla sulla spalla, a volte accompagnato da un cane. I salesiani lo lasciarono stare in casa. Poteva vivere con ciò che l’orto produceva e l’aiuto che riceveva da alcune persone. La sua povertà era esemplare, più che evangelica. E se aveva qualcosa di troppo, lo dava ai poveri. Con queste abitudini di vita, svolgeva il compito di custode della casa con assoluta fedeltà.
           Accanto all’uomo fedele e responsabile, appare l’uomo buono, umile, sacrificato, di una amabilità invincibile, anche se ferma. “Non permetteva che si parlasse male di nessuno”. Fino a questo giungeva la delicatezza del suo cuore. “Il consolatore di tutte le famiglie”. Un uomo dal cuore trasparente, di retta intenzione. Un uomo che si faceva amare e rispettare. La gente era con lui.

L’artista
            Alexandre aveva anche un’anima d’artista. Di artista e di mistico. Isolato dai rumori esterni, viveva assorto in una costante contemplazione mistica. E riusciva a cogliere nella materia i sentimenti più intimi della sua esperienza religiosa, che quasi sempre ruotava attorno alla passione di Gesù Cristo.
            Eresse nel cortile della casa tre monumenti ben visibili: Cristo inchiodato alla croce, la deposizione nelle mani di Maria e il santo sepolcro. Tra i tre, spiccava la croce che presiedeva il cortile. I passeggeri del treno che correva accanto alla fattoria potevano vederlo perfettamente. D’altra parte, allestì un piccolo laboratorio in una delle dipendenze della casa dove eseguiva gli ordini che riceveva o piccole immagini con cui soddisfaceva i gusti della pietà popolare e che distribuiva gratuitamente tra i vicini.

Il credente
            Ma ciò che dominava la sua personalità era la sua fede cristiana. La professava nell’intimo del suo essere e la manifestava con totale chiarezza, a volte anche ostentatamente, professandola in pubblico. “Un vero santo”, un “uomo di Dio”, diceva la gente. “Quando arrivavamo alla cappella al mattino o al pomeriggio trovavamo sempre, immancabilmente, Alexandre che pregava, in ginocchio, facendo le sue pratiche di pietà”. “La sua pietà era profondissima”. Un uomo totalmente aperto alla voce dello Spirito, con la sensibilità che possiedono i santi. La cosa più ammirevole di quest’uomo era la sua sete e fame di Dio, “cercando sempre più spiritualità”.
            La fede di Alexandre si apriva anzitutto al mistero di Dio, davanti alla cui grandezza cadeva in ginocchio in profonda adorazione: “Piegato col corpo, con gli occhi abbassati, pieno di vita interiore… posto in un lato della chiesa, con il capo piegato, inginocchiato, assorto nel mistero di Dio, immerso pienamente nella meditazione della santa compiacenza, sfogava i suoi affetti e le sue emozioni…”.
            “Trascorreva ore davanti al tabernacolo, inginocchiato, con il corpo piegato quasi orizzontalmente a terra, dopo la comunione”. Dalla contemplazione di Dio e dalla sua grandezza salvifica, Alexandre traeva una grande fiducia nella Divina Provvidenza, ma anche una radicale avversione alle colpe contro la gloria di Dio e al suo santo nome. Non poteva tollerare che si bestemmiasse. “Percependo una bestemmia, o diventava teso guardando intensamente colui che l’aveva pronunciata, o sussurrava con compassione, in modo che la persona potesse sentire: ‘La Madonna piange, Nostro Signore piange’”.
            La sua fede si esprimeva nelle devozioni tradizionali dell’Eucaristia, come abbiamo visto, e nel rosario mariano. Ma dove il suo impulso religioso trovava il canale più adatto alle sue esigenze era senza dubbio nella meditazione della passione di Cristo. “Del Sordo, ricordo l’impressione che avevamo nel sentirlo parlare della Passione di Cristo”.
            Egli portava il mistero della croce nella sua carne e nella sua anima. In suo onore aveva eretto i monumenti della croce, della deposizione e della sepoltura di Cristo. Tutte le testimonianze ricordano anche il crocifisso di ferro che portava appeso al petto, e la cui catena era conficcata nella pelle. E dormiva sempre con un grande crocifisso accanto a sé. Non volle spogliarsi del crocifisso nemmeno nei mesi di persecuzione religiosa che culminarono nel martirio. “Faccio del male? – diceva – e se mi uccidono, tanto meglio, così ho già il cielo aperto”.
            Ogni giorno faceva l’esercizio della Via Crucis: “Quando saliva nella sala studio, il signor Planas entrava nella cappella, e quando dopo un’ora scendevamo, stava finendo la Via Crucis, che faceva totalmente inclinato, fino a toccare terra con la testa”.
            Fondata su questa esperienza della croce alla quale si aggiungeva la sua profonda devozione al Sacro Cuore, la spiritualità del Sordo fu proiettata verso l’ascesi e la solidarietà. Viveva da penitente, in povertà evangelica e spirito di mortificazione. Dormiva su assi senza materasso o cuscino, avendo accanto a sé un teschio che gli ricordava la morte e “alcuni strumenti di penitenza”. Questo non lo apprese dai salesiani. Lo aveva appreso precedentemente e lo spiegava ricordando la spiritualità del padre gesuita, sant’Alfonso Rodríguez, il cui manuale era solito leggere nella casa del noviziato e che talvolta meditava in quegli anni.
            Ma l’amore per la croce lo spingeva anche alla solidarietà. La sua austerità era impressionante. Si vestiva come i poveri e mangiava frugalmente. Dava tutto quello che poteva dare: non soldi, perché non ne aveva, ma sempre il suo aiuto fraterno: “Quando c’era da fare qualcosa per qualcuno, lasciava tutto e andava dove c’era bisogno”. Quelli che più ne hanno beneficiato sono stati i bambini della catechesi e i malati. “Non mancava mai al capezzale di una persona gravemente malata: vegliava su di lui mentre la famiglia riposava. E se non c’era nessuno in famiglia che potesse preparare il defunto, era pronto per questo servizio. I preferiti erano i malati poveri che, se poteva, aiutava con le elemosine che raccoglieva o con il frutto del suo lavoro”.

(continua)

don Joan Lluís Playà, sdb




L’orario dei treni

Io conoscevo un uomo che sapeva a memoria l’orario ferroviario, perché l’unica cosa che gli dava gioia erano le ferrovie, ed egli passava tutto il suo tempo alla stazione, guardava come i treni arrivavano e come ripartivano. Egli osservava con meraviglia i vagoni, la forza delle locomotive, la grandezza delle ruote, osservava meravigliato i controllori che saltavano in carrozza e il capostazione.
Conosceva ogni treno, sapeva da dove veniva, dove andava, quando sarebbe arrivato in un certo posto e quali treni ripartivano da quel posto e quando sarebbero arrivati.
Sapeva i numeri dei treni, sapeva in che giorno viaggiano, se hanno il vagone ristorante, se aspettano o no delle coincidenze. Sapeva quali treni hanno il vagone postale e quanto costa un biglietto per Frauenfeld, per Olten, per Niederbipp o per un qualche posto.
Non andava al bar, non andava al cinema, non andava a spasso, non aveva né la bicicletta, né la radio, né il televisore, non leggeva giornali né libri, e se avesse ricevuto delle lettere, non avrebbe letto neanche queste. Per fare queste cose gli mancava il tempo, perché egli passava le sue giornate alla stazione, e solo quando l’orario ferroviario cambiava, a maggio e a ottobre, non lo si vedeva più per qualche settimana.
Allora se ne stava a casa seduto al suo tavolo e imparava tutto a memoria, leggeva l’orario nuovo dalla prima all’ultima pagina, faceva attenzione ai cambiamenti ed era contento quando non c’erano. Capitò anche che qualcuno gli chiese l’orario di partenza di un treno. Allora divenne raggiante in volto e volle sapere con esattezza qual era la meta del viaggio, e chi gli aveva chiesto l’informazione perse di sicuro il treno, perché egli non lo lasciò andare, non si accontentò di citare l’ora, citò anche il numero del treno, il numero dei vagoni, le possibili coincidenze, tutti gli orari di partenza; spiegò che con quel treno si poteva andare a Parigi, dove bisognava scendere e a che ora si arrivava, e non capiva che tutto ciò alla gente non interessava. Se però qualcuno lo piantava lì e se ne andava prima che gli avesse elencato tutte le sue conoscenze, si arrabbiava, lo insultava e gli gridava dietro:
– Lei non ha la minima idea delle ferrovie!
Lui personalmente, non salì mai su un treno.
Ciò non avrebbe avuto senso, diceva, perché egli sapeva già prima a che ora il treno arrivava (Peter Bichsel).

Molte persone (tra cui molti studiosi insigni) sanno tutto della Bibbia, anche l’esegesi dei versetti più piccoli e nascosti, anche il significato delle parole più difficili e perfino quello che lo scrittore sacro voleva veramente dire, anche se sembra il contrario.
Ma non trasformano in vita personale niente di quello che è scritto nella Bibbia.




Hai pensato alla tua vocazione? San Francesco di Sales potrebbe aiutarti (6/10)

(continuazione dall’articolo precedente)

6. A casa tutto bene

Cari giovani,
«penso che, nel mondo, non vi siano anime che amino più cordialmente, più teneramente e, per dir tutto molto alla buona, più amorosamente di me, perché a Dio è piaciuto fare così il mio cuore». Si tramanda nella mia famiglia che la prima frase apparsa sulla mia bocca di fanciullo sia stata: «Mia mamma e Dio mi vogliono tanto bene».
Fin da piccolo sono stato in mezzo alla gente. Mio papà aveva deciso che io sarei stato educato non nel nostro castello, ma in una scuola più regolare, confrontandomi con altri compagni e docenti, allontanandomi insomma da quella specie di “bolla di amore” che si era creata al castello.
Tornato dagli studi a Parigi e a Padova, io ero ben convinto della mia scelta di diventare sacerdote, ma mio papà non era proprio di quel parere: aveva preparato, a mia insaputa, una biblioteca completa riguardante il Diritto, una carica di Senatore e una nobile fidanzata. Non fu facile piegarlo verso un’altra strada. Con pacatezza presentai a papà le mie intenzioni: «Padre mio, vi servirò fino all’ultimo soffio di vita, prometto tutto il servizio ai miei fratelli. Mi parlate di riflettere, Padre mio. Vi posso dire che l’idea del sacerdozio l’ho avuta fin da quando ero bambino». Il babbo, nonostante fosse «di uno spirito molto fermo», pianse. La mamma intervenne delicatamente. Ci fu silenzio. La realtà nuova, sotto la parola silenziosa di Dio, fermentava. Mio padre disse: «Figlio mio, fate in Dio e per Dio quello che Egli vi ispirerà. Da parte sua, vi do la mia benedizione». Poi non resse più: bruscamente si chiuse nel suo studio.
Alla fine della vita di mio papà, mi è stata donata la grazia di scorgere in sintesi tutto l’amore che me lo rendeva particolarmente caro: nella schiettezza, nella capacità di caricarsi di impegni importanti, nell’assumersi fino in fondo la responsabilità di guidarmi, nella costante fiducia che ha dimostrato nei miei confronti ho sempre scorto la bontà di un uomo nobile, abituato anche alla vita rude ma con un cuore grande. Inoltre, con il passare del tempo, il suo temperamento vivo si è addolcito, egli ha imparato addirittura a lasciarsi contraddire: la buona lunga influenza di mia mamma è stata decisiva.
Papà e mamma mi hanno mostrato realmente due differenti, ma complementari, volti della grazia e della bontà di Dio stesso.
Forse anche voi, come me, vi sarete interrogati su come vivere la fatica di sperimentare che la vocazione che state scoprendo è diversa da quanto gli altri si aspetterebbero da voi. Io ho proposto, tanto agli uomini più semplici della mia terra quanto al re e alla regina di Francia, una via molto semplice ma fortemente esigente: da una parte «nulla ti turbi» e «nulla chiedere e nulla rifiutare»; dall’altra parte che l’esistenza, con le scelte che porta con sé, trova senso nell’essere affrontata, anche con fatica, esclusivamente per vivere «come piace a Dio». Solo da qui nasce la «perfetta letizia», che probabilmente accomuna tutti i veri santi, uomini e donne di Dio di ieri e oggi.

Ufficio Animazione Vocazionale

(continua)




I libri itineranti di don Bosco

In una lettera-circolare di don Bosco del luglio 1885 scriveva: “Il buon libro entra persino nelle case ove non può entrare il sacerdote… Talora rimane polveroso sovra un tavolino o in una biblioteca. Nessuno pensa a lui. Ma vien l’ora della solitudine, o della mestizia, o del dolore, o della noia, o della necessità di svago, o dell’ansia dell’avvenire, e questo amico fedele depone la sua polvere, apre i suoi fogli e…”.

“Senza libri non c’è lettura e senza lettura non c’è conoscenza; senza conoscenza non c’è libertà”, leggo su internet, non so se scritto da qualche nostalgico o affezionato ai libri o da qualche buon conoscitore di Cicerone.
Don Bosco dal canto suo, appena terminati gli studi, si è fatto subito scrittore e qualche suo libro è poi diventato un autentico best seller con decine e decine di edizioni e ristampe. Una volta poi fondata la congregazione, ha invitato i suoi giovani collaboratori a fare altrettanto, servendosi di una tipografia in proprio avviata nella stessa casa di Valdocco. In un tempo in cui tre quarti degli Italiani erano analfabeti così scriveva nella succitata circolare: “Un libro in una famiglia, se non è letto da colui a cui è destinato o donato, è letto dal figlio o dalla figlia, dall’amico o dal vicino. Un libro in un paese talora passa nelle mani di cento persone. Iddio solo conosce il bene che produce un libro in una città, in una biblioteca circolante, in una società d’operai, in un ospedale, donato come pegno di amicizia”. E aggiungeva: “In meno di trent’anni sommano circa a venti milioni i fascicoli o volumi da noi sparsi tra il popolo. Se qualche libro sarà rimasto trascurato, altri avranno avuto ciascuno un centinaio di lettori, e quindi il numero di coloro ai quali i nostri libri fecero del bene si può credere con certezza di gran lunga maggiore del numero dei volumi pubblicati”.
Con un po’ di fantasia potremmo dire che in qualche modo la rete editoriale di don Bosco annunciava oggi tanto il libro online, che sta lì a disposizione di tutti, che cammina da solo, quasi vagabondo, quanto l’e-book, l’unico che nella perdurante crisi della lettura in Italia in questi anni fa registrare nuovi acquirenti e nuovi lettori grazie anche al suo costo ridotto.

La concorrenza
La concorrenza alla lettura di un libro è forte: oggi si passano ore ed ore con gli occhi fissi su Facebook, WhatsApp e Instagram, blog e piattaforme di ogni genere per mandare e ricevere messaggini, per vedere e spedire foto, per guardare filmati e ascoltare musica. Di per sé potrebbero essere tutte cose belle, buone e giuste, ma possono sostituire la lettura di un buon libro?
Qualche dubbio è legittimo. I social per lo più sono promotori di una sorta di cultura dell’effimero, del transitorio, del frammentario – anche senza pensare subito all’alluvione delle fake news – dove ogni nuova comunicazione elimina quello precedente. Lo dicono i nomi stessi: SMS “servizio di un breve messaggio” o Twitter, cinguettio di uccello, Instagram, ossia immagine veloce pubblicata sul momento. Essi trasmettono rapide informazioni, brevissime condivisioni di esperienze e stati d’animo con persone con cui sei già in contatto. I libri, i buoni libri invece, quelli pensati e meditati, sono in grado di suscitare interrogativi, di farci percepire in profondità la bellezza che si trova nella natura e nell’arte in tutte le sue forme, nella solidarietà fra gli uomini, nella passione e nel cuore che mettiamo in ogni nostra azione. E non solo, perché è proprio una vasta cultura generale, data soprattutto dai libri di storia in particolare, quella che offre alle classi dirigenziali la duttilità, la capacità di orientamento, l’ampiezza di orizzonti che, unite alle competenze, servono per compiere le scelte di portata generale e di natura complessiva che loro competono. Del deficit di tale cultura ce ne stiamo rendendo conto proprio in questi giorni.

La biblioteca di don Bosco
Don Bosco con la diffusione dei suoi libri, con la biblioteca di Valdocco ricca di 15 mila libri, con la sua tipografia, con le biblioteche delle singole case salesiane, con uno stuolo di salesiani che hanno scritti libri per la gioventù, ha fatto crescere migliaia di giovani come “onesti cittadini e buoni cristiani”. Quanto è malinconico oggi venire a conoscenza che circa mezzo milione di ragazzi in Italia frequentano istituti scolastici privi di biblioteca! Certo è più facile e immediatamente redditizio costruire nuovi supermercati, nuovi centri commerciali, cinema all’avanguardia, catene multinazionali che trattano tecnologia e innovazione.
Libri cartacei o i libri online – oggi le biblioteche grazie alla tecnologia offrono interessantissimi servizi a distanza di vario genere – non fa differenza: purché facciano crescere in umanità. Ad una condizione però: che siano leggibili e a disposizione di tutti, anche dei non nativi digitali, anche di chi non ha gli strumenti dell’ultimissima generazione, anche a chi vive in situazioni disagiate. Lo ha scritto don Bosco nella lettera succitata: “Rammentatevi che s. Agostino divenuto Vescovo, benché esimio maestro di belle lettere ed oratore eloquente, preferiva le improprietà di lingua e la niuna eleganza di stile, al rischio di non essere inteso dal popolo”. È quanto continuano a fare attualmente i figli di don Bosco, con libri, con libretti divulgativi, con video e materiali postati nel web, che continuano a girare, oggi come ieri, in tutte le lingue ovunque, fino agli estremi confini della terra.




Don Bosco e i marenghi

            Nel 1849 il tipografo G. B. Paravia pubblicava Il sistema metrico decimale ridotto a semplicità preceduto dalle quattro operazioni dell’aritmetica ad uso degli artigiani e della gente di campagna per cura del sacerdote Bosco Gioanni. Il manuale includeva un’appendice sulle monete più usate in Piemonte e le principali monete estere.
            Eppure solo qualche anno prima don Bosco conosceva così poco le monete nobili in uso nel Regno di Sardegna da confondere una doppia di Savoia con un marengo. Era agli inizi della sua attività oratoriana e sino allora doveva averne viste ben poche monete d’oro. Ricevutane un giorno una, corse a spenderla per i suoi birichini, ordinando merce varia per il valore di un marengo. Il negoziante, pratico ed onesto, consegnandogli la merce ordinata, gli diede pure il resto di circa nove lire.
            — Ma come — chiede don Bosco —, non vi ho dato un marengo?
            — No — risponde il bottegaio — la vostra moneta è una pezza da 28 e mezzo! (MB II, 93)
            Sin dagli inizi non c’era in don Bosco alcuna avidità di denaro, ma solo ansia di bene!

Doppie di Savoia e marenghi
            Quando nel maggio del 1814 Re Vittorio Emanuele I rientrò in possesso dei suoi Stati, volle ripristinare l’antico sistema monetano basato sulla Lira di Piemonte di venti soldi di dodici denari ciascuno, sistema che durante l’occupazione francese era stato sostituito da quello decimale. Prima di allora 6 lire facevano uno scudo d’argento e 24 una doppia di Savoia d’oro. Non mancavano naturalmente i sottomultipli, tra i quali la monetina di rame detta il Mauriziotto del valore di 5 soldi, così chiamata perché portava sul rovescio l’immagine di S. Maurizio.
            Ma l’uso di contare in franchi si era ormai talmente diffuso che il Re nel 1816 decise di adottare anch’egli il sistema monetario decimale, creando la Lira nuova di Piemonte di valore uguale al franco, con relativi multipli e sottomultipli, dalla pezza d’oro da 100 lire alla monetina di rame da 1 centesimo.
            La doppia di Savoia tuttavia continuò il suo corso per molti anni ancora. Nata nel 1755 da un editto di Carlo Emanuele III, fu chiamata, dopo la creazione della lira nuova, pezza da ventinove o da ventotto e mezzo, appunto perché corrispondeva a lire nuove 28,45. Era più volentieri chiamata Galin-a (gallina) perché, mentre recava sul dritto l’immagine del Sovrano con tanto di codino, sul rovescio mostrava un uccellacelo ad ali spiegate che, nell’intenzione dell’artista, doveva rappresentare un’aquila, ma panciuto com’era, sembrava piuttosto una gallina.
            Anche la pezza da venti franchi, chiamata marengo perché fatta coniare da Napoleone a Torino nel 1800 dopo la vittoria di Marengo, rimase in circolazione per un bel po’ assieme alle monete d’oro sabaude. Portava sul diritto il busto di Minerva e sul rovescio il motto: LibertàEgalitéEridania. Corrispondeva alla moneta francese chiamata napoleone d’oro. Il termine «Eridania» stava a indicare la terra dove scorre il Po, il leggendario Eridano.
            Il nome di marengo si usò poi indifferentemente anche per la pezza d’oro da 20 lire nuove di Vittorio Emanuele I, mentre marenghino era la moneta d’oro da 10 lire, con metà valore quindi del marengo, fatta coniare più tardi da Carlo Alberto. Marengo e marenghino furono termini spesso usati uno per l’altro, come franco e lira. Così usava pure don Bosco. Nella prefazione al «Galantuomo» del 1860 (l’almanacco-strenna agli abbonati delle «Letture Cattoliche») se ne ha un esempio. Don Bosco vi recita la parte di un venditore di bibite al seguito dell’esercito sardo nella guerra del ’59. Alla battaglia di Magenta, egli racconta, perde la borsa dei soldi e il capitano della compagnia lo risarcisce con un gruzzolo di «quindici luccicanti marenghini».
            Scrivendo il 22 maggio 1866 al Cav. Federico Oreglia, da lui mandato a Roma a raccogliere offerte per la nuova chiesa di Maria Ausiliatrice, gli dice:
            «In quanto al suo soggiorno in Roma stia a tempo illimitato, cioè finché abbia diecimila franchi da portare a casa per la chiesa e per pagare il panettiere […].
            Dio benedica lei, Sig. Cavaliere, e benedica le sue fatiche e faccia che ogni sua parola salvi un’anima e guadagni un marengo. Amen» (E 459).
            Significativo augurio di don Bosco ad un collaboratore generoso!

Napoleoni con e senza cappello
            Dal 1° maggio 1866, oltre alla moneta aurea, corrispondente al napoleone d’oro che portava sul diritto l’immagine di Napoleone col cappello, venne ad avere corso forzoso, nell’ormai costituito Regno d’Italia, una moneta cartacea dello stesso valore nominale, ma di valore reale ben inferiore. Il popolo la chiamò subito napoleone col capo scoperto perché portava l’effige di Vittorio Emanuele II senza cappello.
            Lo sapeva bene anche don Bosco quando ebbe da restituire al Conte Federico Calieri un mutuo di 1000 franchi da lui fattogli in 50 napoleoni d’oro. Non si lasciò sfuggire l’occasione di prendere due piccioni con una fava, approfittando della confidenza che gli veniva concessa. La Contessa Carlotta infatti gli aveva già promesso da sua parte un’offerta per la nuova chiesa. Scrisse adunque alla Contessa in data 29 giugno 1866: «Le dirò che dopo dimani scade il mio debito verso il sig. Conte ed io debbo procurare di pagare il debito per acquistarmi il credito. Quando Ella era in Casa Collegno mi disse che in questa epoca avrebbe fatto un’oblazione per la chiesa e per l’altare di S. Giuseppe, ma non fissò precisamente la somma. Abbia dunque la bontà di dirmi:
            se la sua carità comporta che faccia oblazioni in questo momento per noi e quali;
            dove dovrei indirizzare il danaro per il sig. Conte;
            se il sig. Conte per avventura ha pagamenti che possa far con biglietti, oppure, siccome è cosa ragionevole, debba cangiare i biglietti in napoleoni secondo ho ricevuto» (E 477).
            Come si può facilmente capire, don Bosco fa assegnamento sull’offerta della Contessa e propone il saldo del proprio debito verso il Conte, se non risulterà di svantaggio a nessuno, in napoleoni cartacei. La risposta venne e consolante. Il denaro doveva venir inviato a Cesare, il figlio dei Conti Callori, e poteva essere in moneta cartacea. Scrive difatti don Bosco a Cesare in data 23 luglio:
            «Prima che termini questo mese porterò i mille franchi a sua casa come mi scrive e farò in modo di portare altrettanti napoleoni ma tutti col capo scoperto. Perché se portassi cinquanta napoleoni col cappello in testa, forse metterebbero in combustione fin Giove, Saturno e Marte» (E 489).
            E poco dopo egli effettuerà il saldo molto conveniente, mentre la Contessa nel contempo gli donerà 1000 franchi per il pulpito della nuova chiesa (E 495). Se c’è un debito da pagare, c’è la Provvidenza che si dà da fare!

Soldi e mutte
            Ma don Bosco non maneggiava soltanto marenghi e napoleoni. Nelle sue tasche si trovavano più di frequente spiccioli vari, monete di rame, che gli servivano per le spese ordinarie come prendere la vettura quando usciva da Torino, fare piccoli acquisti ed elemosine e, magari, compiere qualche gesto che oggi chiameremmo carismatico, come quando versò nelle mani del capomastro Bozzetti i primi otto soldi per la costruzione della nuova chiesa di Maria Ausiliatrice.
            Otto soldi, pari a 4 monete da 10 centesimi o ad 8 da 5, corrispondevano ad una «mutta» del sistema antico, moneta battuta in rame con qualche parte di argento, del valore iniziale di 20 soldi piemontesi, ridottosi ben presto ad otto soldi. Era l’antica lira piemontese venuta al mondo per opera di Vittorio Amedeo III nel 1794 ed abolita solo nel 1865. La parola «mutta» — in piem. mota (leggi: muta) —, in sé, significa «zolla» o «formella». Si chiamavano «mote» le formelle fatte con corteccia di quercia, usate per la concia del cuoio, e, dopo l’uso, utilizzate ancora per ardere o mantenere il fuoco acceso. Queste formelle, prima grosse come un pagnottone, si erano ridotte per l’avarizia dei produttori a sì minime proporzioni che il popolino finì per chiamare «mote» le lirette di Vittorio Amedeo.
            Stando alle «Memorie Biografiche» certi zelatori protestanti per allontanare i ragazzi dall’Oratorio di don Bosco, li attiravano dicendo loro: «Che cosa andate a fare all’Oratorio? Venite con noi, vi divertirete come vi piace e avrete in regalo due mutte e un bel libro» (MB III, 402) Due mutte bastavano per farsi una buona merenda.
            Ma anche don Bosco si conquistava la gente con le mutte. Trovandosi un giorno seduto a cassetta vicino al vetturino che bestemmiava a gran forza per far correre i cavalli, gli promise una mutta se si fosse trattenuto dal bestemmiare fino a Torino e riuscì nel suo intento (MB VII, 189). Dopo tutto con una mutta il povero cocchiere poteva comprarsi almeno un litro di vino da bere con i colleghi, e nello stesso tempo far tesoro delle parole udite contro il vizio della bestemmia.

Il santo dei milioni
Don Bosco nella sua vita maneggiò grandi somme di denaro, raccolte a prezzo di enormi sacrifici, umilianti questue, laboriose lotterie, incessanti peregrinazioni. Con questo denaro egli diede pane, vestito, alloggio e lavoro a tanti poveri ragazzi, comperò case, aprì ospizi e collegi, costruì chiese, avviò non indifferenti iniziative tipografiche ed editoriali, lanciò le missioni salesiane in America e, infine, già affranto dagli acciacchi della vecchiaia, eresse ancora a Roma, in obbedienza al Papa, la Basilica del Sacro Cuore, opera questa che fu la cagione non ultima della sua morte prematura.
            Non tutti compresero lo spirito che lo animava, non tutti apprezzarono le sue multiformi attività e la stampa anticlericale si sbizzarrì in ridicole insinuazioni.
            Il 4 aprile 1872 il periodico satirico torinese «Il Fischietto», che soprannominava don Bosco «Dominus Lignus», lo disse fornito di «fondi favolosi». Il 31 ottobre 1886 il giornale romano «La Riforma», organo politico crispino, pubblicava un articolo sulle sue spedizioni missionarie, presentando ironicamente il prete di Valdocco come «vera stoffa da industriale», come l’uomo che aveva capito «che il buon mercato è la chiave della riuscita di tutte le più grandi imprese moderne», e continuava dicendo: «Don Bosco ha in sé qualcosa di quell’industria che ora si vuol chiamare, per antonomasia, dei fratelli Bocconi». Erano questi i fratelli Ferdinando e Luigi Bocconi, ideatori dei grandi magazzini di vendita al minuto aperti a Milano in quegli anni e chiamati poi «La Rinascente». Luigi Pietracqua, romanziere e commediografo dialettale, a pochi giorni dalla scomparsa di don Bosco firmava sul giornale «’L Birichin» di Torino un sonetto satirico, che così iniziava:
            «Don Bòsch l’é mòrt — L’era na testa fin-a, Capace ‘d gavé ’d sangh d’ant un-a rava, Perchè a palà ij milion chiel a contava, E… sensa guadagneje con la schin-a!».
            (Don Bosco è morto — Era un uomo astuto, Capace di cavar sangue da una rapa, Perché contava i milioni a palate, E… senza guadagnarli col proprio sudore).
            E continuava esaltando a suo modo il miracolo di don Bosco che da tutti prendeva denaro riempiendosi la borsa divenuta ormai grossa come un tino (E as fasìa 7 borsòt gròss com na tina). Arricchito a questo modo, non aveva più bisogno di lavorare, si limitava soltanto a gabbare i gonzi con preghiere, croci e sante messe. Il sonettista blasfemo conchiudeva chiamando don Bosco: «San Milion».
            Chi conosce lo stile di povertà in cui visse e morì il Santo, può facilmente capire di qual bassa lega fosse l’umorismo del Pietracqua. Don Bosco fu infatti un abilissimo amministratore del denaro che la carità dei buoni gli procurava, ma non tenne mai nulla per sé. Il mobiglio della sua cameretta a Valdocco consisteva in un lettuccio di ferro, un tavolino, una sedia, e, più tardi, un sofà, senza tendine alla finestra, senza tappeti, senza neppure lo scendiletto. Nell’ultima malattia, tormentato dalla sete, quando gli provvidero acqua di seltz per dargli sollievo, non voleva berla credendola una bevanda costosa. Fu necessario assicurarlo che costava solo sette centesimi la bottiglia. «Disse ancora a don Viglietti: — Fammi anche il piacere di osservare nelle tasche dei miei abiti; vi sono il portafoglio e il portamonete. Credo che non vi sia più niente; ma caso mai vi fosse danaro, consegnalo a don Rua. Voglio morire in modo che si dica: Don Bosco è morto senza un soldo in tasca» (MB XVIII, 493).
            Così moriva il Santo dei Milioni!




Venerabile Costantino Vendrame: apostolo di Cristo

La causa di canonizzazione del servo di Dio Costantino Vendrame, sta avanzando. Nel 19 settembre 2023 è stato consegnato il volume della “Positio super Vita, Virtutibus et Fama Sanctitatis” presso la Congregazione delle Cause dei Santi in Vaticano. Presentiamo brevemente questo sacerdote professo della Società di San Francesco di Sales.

Dalle colline venete alle colline del Nord-Est India
Il Servo di Dio don Costantino Vendrame nasce a San Martino di Colle Umberto (Treviso) il 27 agosto 1893. San Martino, frazione del più ampio abitato di Colle Umberto, è un ridente paese italiano del Veneto in provincia di Treviso: dalle sue colline, San Martino è orientato sia alla pianura lì solcata dal Piave, sia alle Prealpi del Bellunese, mantenendo di tale duplice natura – è paese collinare che guarda alle montagne e alla pianura – quelle caratteristiche, di vicinanza ai più grandi centri abitati e di ideale proiezione al mondo sobrio e schivo della montagna, che il futuro missionario don Costantino avrebbe ritrovato nel Nord-Est India, stretto tra i primi contrafforti della catena himalayana e la valle del Brahmaputra.

A quel mondo di gente semplice appartiene anche la sua famiglia: il papà Pietro, di professione fabbro, e la mamma Elena Fiori originaria del Cadore si conoscono molto probabilmente sui monti. Forti i legami di don Vendrame con i fratelli: Giovanni per il quale conserverà la fedeltà del ricordo; Antonia, madre di una famiglia numerosa; l’amatissima Angela cui lo unisce un affetto profondo, in sintonia di opere e intenti. Angela resterà – con una creatività esuberante – a servizio della parrocchia e offrirà sofferenze e meriti per l’impresa apostolico-missionaria del fratello. Viva era in famiglia anche la memoria del fratello maggiore Canciano, volato in Cielo a soli 13 anni.
Battezzato il giorno dopo la nascita (28 agosto) e cresimato nel novembre 1898, presto orfano di padre, per Costantino Vendrame – prima comunione il 21 luglio 1904 e un’infanzia trascorsa negli impegni quotidiani – la vocazione sacerdotale si delinea da bambino. Essa affonda forse le radici nell’affidamento del piccolo Costantino alla Madonna – per iniziativa della mamma –: affidamento maturato quindi in una più completa donazione.

La realtà del Seminario – che il Servo di Dio frequenta a Ceneda (Vittorio Veneto) con piena riuscita – manca però di quel respiro missionario che egli avverte proprio. Si orienta così ai Salesiani ed è nella casa salesiana di Mogliano Veneto che: “nella piccola portineria nel 1912 col buon Don Dones si decise la mia vocazione salesiana e missionaria”.
Compie dunque le tappe di formazione alla consacrazione religiosa tra i figli di don Bosco, in particolare come aspirante (dall’ottobre 1912 a Verona), novizio (dal 24 agosto 1913 a Ivrea), professo temporaneo (nel 1914) e perpetuo (dal 1° gennaio 1920 a Chioggia). Verrà ordinato sacerdote a Milano il 15 marzo 1924. Sin dall’ammissione al noviziato, è certificato «fermissimo anche nella pratica, e ben istruito». I suoi voti al Seminario erano stati sempre eccellenti ed egli fa buona riuscita nella Società di San Francesco di Sales.
L’iter preparatorio è segnato dalla ferma obbligatoria sotto le armi. Erano gli anni della Grande Guerra: 1914-1918 (per l’Italia: 1915-1918). In quei momenti il chierico Vendrame non retrocede; si apre ai superiori; tiene fede agli impegni presi. Gli anni del Primo Conflitto Mondiale forgiano ulteriormente in lui quel coraggio che tanto utile gli sarà in missione.

Missionario di fuoco

Don Costantino Vendrame riceve il crocifisso missionario nella Basilica di Maria Ausiliatrice a Torino il 5 ottobre 1924. Alcune settimane più tardi si imbarca da Venezia alla volta dell’India: destinazione Assam, nel Nord-Est. Vi arriva in tempo per Natale. Su un’immaginetta scrisse: «Sacro Cuor di Gesù, tutto ho confidato in voi, tutto ho sperato da voi e non sono rimasto confuso». Con i confratelli, medita durante il viaggio Incontro al Re d’Amore: «Tutto è qui: tutto il Vangelo, tutta la Legge. Vi ho amato […]», «V’ho amato più della mia vita, perché la vita mia l’ho data per voi – e quando s’è data la propria vita, s’è dato tutto». È questo il programma del suo impegno missionario.

Rispetto ai Salesiani più giovani – che avrebbero compiuto in India la maggior parte del cammino alla consacrazione – egli vi giunge uomo fatto, nel pieno vigore: ha 31 anni e può avvantaggiarsi, oltre che della dura esperienza in guerra, del tirocinio negli oratori italiani. Lo attende una terra bella e difficile, dove il paganesimo di stampo “animista” domina e alcune sette protestanti nutrono verso la Chiesa Cattolica un atteggiamento di pregiudiziale diffidenza o aperta opposizione. Egli sceglie il contatto con la gente, decide di fare il primo passo: comincia dai bambini, cui insegna a pregare e permette di giocare. Saranno questi “piccoli amici” (pochi cattolici, alcuni protestanti, quasi tutti pagani) a parlare di Gesù e del missionario cattolico in famiglia, ad aiutare don Vendrame nell’apostolato. Lo affiancano i confratelli – che negli anni riconosceranno in lui il “pioniere” dell’attuazione missionaria salesiana in Assam – e validi collaboratori laici, formati nel tempo.
Di questo primo periodo resta traccia di un missionario di “fuoco”, animato dal solo interesse per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Il suo stile diventa quello dell’Apostolo delle genti, cui sarà paragonato per l’efficacia propulsiva dell’annuncio e la forte capacità attrattiva dei pagani a Cristo. «Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (cf. 1 Cor 9,16), dice don Vendrame con la vita. Si espone a ogni usura, purché Cristo sia annunciato. Davvero anche per lui: «Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi […], pericoli dai pagani […]; disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, digiuni frequenti, freddo e nudità» (cf. 2 Cor 11,26-27). Il Servo di Dio diventa camminatore nel Nord-Est India infestato da rischi d’ogni sorta; si sostenta con un regime alimentare scarsissimo; affronta rientri a notte fonda o notti trascorse quasi all’addiaccio.

Sempre in trincea
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e negli anni successivi, don Costantino Vendrame può dunque avvantaggiarsi – in frangenti di particolare fatica “ambientale” (campi militari; povertà estrema nel Sud dell’India) ed “ecclesiale” (durissime opposizioni nel Nord Est India) – di tutto un allenamento previo: sotto custodia dei Gurkha; a Deoli; a Dehra Dun; missionario a Wandiwash nel Tamil Nadu; a Mawkhar in Assam. A Deoli è “rettore” dei religiosi nel campo; anche a Dehra Dun è di esempio.
Liberato al termine della guerra, ma impossibilitato da ragioni politiche del tutto estranee alla sua persona a rientrare in Assam, don Vendrame – che aveva superato i 50 anni ed era usurato dalle privazioni – è assegnato da Mons. Louis Mathias, Arcivescovo di Madras, al Tamil Nadu. Lì don Costantino dovrà ricominciare tutto: ancora una volta, saprà farsi profondamente amare, cosciente – come scrive in una lettera del 1950 indirizzata ai confratelli sacerdoti della Diocesi di Vittorio Veneto – delle condizioni durissime del suo mandato missionario:
Egli era convinto che ovunque vi fosse del bene da fare e ovunque vi fossero anime da salvare. Rimasto “ad experimentum”, così da garantire continuità a quella missione povera, rientra infine in Assam: potrebbe riposarsi, ma si progetta di fondare la presenza cattolica a Mawkhar, quartiere di Shillong allora considerato il “fortino” dei protestanti.
Ed è proprio a Mawkhar che il Servo di Dio realizza il suo “capolavoro”: la nascita d’una comunità cattolica ancora oggi fiorente in cui – in anni lontani dall’attuale sensibilità ecumenica – la presenza cattolica fu dapprima osteggiata con durezza, quindi tollerata, poi accettata e infine stimata. L’unità e la carità testimoniante da don Vendrame furono per Mawkhar un annuncio inedito e “scandaloso”, che conquistò i cuori più duri e gli attrasse la benevolenza di molti: aveva portato il «miele di san Francesco» – cioè l’amorevolezza salesiana, ispirata alla dolcezza del Salesio – in una terra dove gli animi si erano chiusi.

Verso il traguardo
Quando i dolori alle ossa si fanno insistenti, egli ammette in una lettera: «con difficoltà ho potuto controllare il lavoro della giornata». Si dischiude l’ultimo tratto di cammino terreno. Arriva il giorno in cui chiede di controllare se fosse rimasto un po’ di cibo: richiesta unica per don Vendrame che si faceva bastare l’essenziale e, rientrando tardi, non voleva mai disturbare per la cena. Quella sera nemmeno riusciva ad articolare qualche frase: era stremato, invecchiato anzitempo. Aveva taciuto sino all’ultimo, preda di un’artrite che gli intaccò anche la colonna vertebrale.
Si profila allora il ricovero, ma a Dibrugarh: avrebbe evitato a lui il continuo accorrere della gente; alla gente il dolore di assistere impotente all’agonia del loro padre. Il Servo di Dio arriverà a svenire dal dolore: ogni movimento divenne per lui terribile.
Gli sono vicini Mons. Oreste Marengo – suo amico e antico chierico, Vescovo di Dibrugarh –, le Suore di Maria Bambina, alcuni laici, il personale medico-sanitario tra cui molte infermiere, conquistate dalla sua dolcezza.
Tutti lo riconoscono vero uomo di Dio: anche chi è non cristiano. Don Vendrame nel suo patire può dire, come Gesù: «io non sono solo, perché il Padre è con me» (cf. Gv 16,32).
Provato dalla malattia e dalle complicanze di una polmonite da stasi, muore il 30 gennaio 1957 nella vigilia della festa di san Giovanni Bosco. Pochi giorni prima (24 gennaio), nell’ultima lettera alla sorella Angela era ancora era proiettato al dinamismo apostolico, lucido nella sofferenza ma uomo di speranza sempre.
Era così povero da non aver nemmeno una vesta idonea alla sepoltura: Mons. Marengo gliene donò una sua perché fosse più degnamente rivestito. Una testimonianza racconta come in morte don Costantino fosse bello, stesse persino meglio che in vita, finalmente liberato dalle “fatiche” e dagli “strapazzi” che ne avevano segnato tanti decenni.
Dopo un primo funerale / momento di commiato a Diburgarh, le veglie funebri e le solenni esequie si svolsero a Shillong. La gente era accorsa con tanti fiori da sembrare la processione Eucaristica. Il concorso di popolo fu immenso, molti si accostarono ai sacramenti di Riconciliazione e Comunione: questo atteggiamento generalizzato di avvicinamento a Dio, anche da parte di chi se ne era allontanato, fu uno dei segni più grandi che accompagnarono la morte di don Costantino.




Hai pensato alla tua vocazione? San Francesco di Sales potrebbe aiutarti (5/10)

(continuazione dall’articolo precedente)

5. In fondo, ce la posso fare da solo?

Cari giovani,
ho imparato sulla mia pelle quanto sia importante avere nella propria vita una guida spirituale.
Nel 1586, quando avevo 19 anni, ho vissuto una delle più grandi esperienze di crisi nella mia vita e ho tentato di risolverla da solo, ma con scarsi risultati. Da questa esperienza ho capito che non è possibile il “fai da te” nella vita spirituale, perché nel cuore dell’uomo si giocano continuamente tensioni forti tra l’amore di Dio e l’amore di sé stessi e che sono difficili da risolvere senza l’aiuto di una persona che ti accompagni nel cammino.
Così, una volta arrivato a Padova per proseguire gli studi universitari, la mia prima preoccupazione è stata quella di trovare una buona guida spirituale con la quale stendere un programma personale di vita e così prendere sul serio il mio cammino di crescita.
In questa occasione ho fatto esperienza che non possono essere il perfezionismo e il volontarismo gli elementi che fanno camminare in una vita piena, ma solo l’accettazione della propria fragilità consegnata completamente a Dio.
Anche dopo essere diventato prete, ho continuato il mio cammino di accompagnamento e di direzione spirituale; ho scoperto, però, l’importanza di condividere il cammino della mia vita interiore anche con mio cugino Louis de Sales e, soprattutto, con Antoine Favre, senatore della Savoia. Pur nella diversità delle nostre vocazioni abbiamo condiviso una vera amicizia spirituale e camminato insieme nelle vie del Signore.
È stato importante nella mia vita avere anche un confessore con cui abitualmente aprire la mia coscienza e chiedere il perdono a Dio. Questo mi ha accompagnato a combattere il peccato alla radice e a diventare libero.
Affidatevi ad una guida spirituale, una persona familiare con Dio e di cui vi fidate, con la quale aprire il vostro cuore e leggere la vostra storia alla luce della Fede, in modo da prendere coscienza e mettere in rilievo i doni ricevuti e le grandi possibilità che vi si aprono davanti. Per me non c’è vera direzione spirituale se non c’è amicizia, cioè scambio, comunicazione, influsso reciproco. È questo il clima di base che permette la direzione spirituale.
Vi suggerisco un piccolo cammino che a me è stato utile percorrere con la mia guida spirituale e che mi ha consentito di trovare un equilibrio interiore:
– partite dalla vostra vita reale e dalla situazione concreta in cui vivete con le sue risorse e i suoi limiti, cercando di fare unità nelle tante esperienze che vivete. La vostra vita, infatti, rischia di essere riempita di tante cose da fare senza un senso e una direzione. Un suggerimento che vi consegno è quello di non essere distratti ed essere sempre presenti nel momento presente.
– durante le vostre giornate siete attratti e oscillate tra forze diverse, talvolta non armoniche tra loro: quella dei sensi, delle emozioni, della razionalità e della fede. Ciò che permette di trovare l’equilibrio tra esse è la dedizione, ovvero mettere sempre il cuore nelle cose che fate, con la consapevolezza che ogni istante è occasione e chiamata a compiere la volontà di Dio nella vostra vita.
Vi chiederete a che scopo fare la fatica di farsi accompagnare? È in gioco l’autenticità della vostra vita: a voi che siete presi da ansie, paure, timori e preoccupazioni, il cammino di accompagnamento aiuterà a scoprire chi siete veramente, ma soprattutto per Chi siete.

Ufficio Animazione Vocazionale

(continua)




Anime e cavalli di forza

Don Bosco scriveva di notte al lume di candela, dopo una giornata trascorsa tra preghiere, colloqui, riunioni, studio, parlate, visite di cortesia. Sempre pratico, tenace, con una prodigiosa visione del futuro.

“Da mihi animas, cetera tolle” è il motto che ha ispirato tutta la vita e l’azione di don Bosco a partire dall’oratorio voltante di Torino (1844) fino alle ultime iniziative sul letto di morte (gennaio 1888) per l’andata dei salesiani in Inghilterra e in Ecuador. Ma per lui le anime non erano disgiunte dai corpi, tant’è che fin dagli anni cinquanta si era proposto di consacrare la vita perché i giovani fossero “felici in terra come poi in cielo”. Felicità che, in terra, per i suoi giovani “poveri ed abbandonati” consisteva nell’avere un tetto, una famiglia, la scuola, un cortile, amicizie e attività piacevoli (gioco, musica teatro, gite…) e soprattutto una professione che garantisse loro un sereno futuro.
Si spiegano così i laboratori di “arti e mestieri” di Valdocco – le future scuole professionali – che don Bosco ha creato dal nulla: un’autentica startup, per dirla in termini attuali. Si era proposto lui stesso inizialmente come primo istruttore di sartoria, legatoria, calzoleria… ma il progresso non si fermava e don Bosco voleva essere all’avanguardia.

La disponibilità di forza motrice
A partire dal 1868, per iniziativa del sindaco di Torino, Giovanni Filippo Galvagno, una parte delle acque del torrente Ceronda, che nasceva a 1350 m di quota, vennero captate dal Canale Ceronda per essere distribuite a varie industrie che sorgevano nell’area nord del capoluogo piemontese, quella di Valdocco per intendersi. Suddiviso poi il canale in due rami all’altezza del quartiere di Lucento, quello di destra, ultimato nel 1873, dopo aver superato con un ponte-canale la Dora Riparia, proseguiva correndo parallelo all’attuale corso Regina Margherita e via San Donato per andare poi a scaricarsi nel Po. Don Bosco, sempre vigile a quanto avveniva in città, immediatamente chiese al Municipio “la concessione di almeno 20 cavalli di forza d’acqua” del canale che sarebbe passato appunto a lato di Valdocco. Accolta la domanda, fece costruire a sue spese le due bocche di presa e di restituzione dell’acqua, dispose le macchine nei laboratori in modo da poter ricevere facilmente la forza motrice e fece studiare da un ingegnere i motori necessari allo scopo. Quando tutto era pronto, il 4 luglio 1874 chiese alle autorità di procedere, a proprie spese, all’allacciamento. Per vari mesi non ebbe risposta, per cui il 7 novembre rinnovò la richiesta. La risposta questa volta pervenne abbastanza celermente. Sembrava positiva, ma chiedeva prima alcune precisazioni. Don Bosco rispose nei seguenti termini:

“Illustrissimo Sig. Sindaco,
Mi affretto di trasmettere a V. S. Ill.ma gli schiarimenti che compiacquesi dimandare colla sua lettera del 19 andante mese, ed ho l’onore di notificarle che l’industria cui verrà applicata la forza motrice dell’acqua della Ceronda sono:
1° La tipografia per cui sono impiegati operai non meno di numero 100.
2° Fabbrica di paste con operai non meno di 26.
3° Fondaria di caratteri tipografici, estortili, calcografia con operai oltre 30.
4° Labo[rato]rio in ferro mercé un martinetto con operai non meno di 30.
5° Falegnami, ebanisti, tornitori con una sega idraulica: operai non meno di 40.
Totale degli operai oltre a 220”.

Il numero comprendeva istruttori e giovani allievi. Stante la situazione, essi, oltre ad essere soggetti a inutili fatiche fisiche, non avrebbero potuto reggere la concorrenza. Infatti don Bosco aggiungeva: “Questi lavori ora si compiono mercé il dispendio di una macchina a vapore per la tipografia, ma per gli altri laboratorii si fanno a forza di braccia, in guisa che non si potrebbe sostenere la concorrenza di chi usa l’acqua motrice”.
E per evitare possibili ritardi e timori da parte delle pubbliche autorità offriva immediatamente una cauzione: “Non si dissente di depositare una cartella del debito pubblico per cauzione, appena si possa conoscere di quale ventura essa debba essere”.

Pensava sempre in grande… ma si accontentava del possibile
Si doveva pensare al futuro, a nuovi laboratori, a nuove macchine e dunque la richiesta di energia elettrica sarebbe necessariamente aumentata. Don Bosco allora alzò la richiesta e ne addusse le ragioni esistenziali e congiunturali:
“Ma mentre accetto la forza teorica di dieci cavalli, mi trovo nella necessità di osservare che tale forza è affatto insufficiente al mio bisogno, giacché il progetto di esecuzione, che si sta effettuando, basava sopra la forza di 30 [?] come ebbi l’onore di esporre nella lettera del novembre u. s. Per questo la prego di prendere in considerazione i lavori di costruzione già in corso, la natura di questo istituto, che vive di sola beneficienza, il numero degli operai che si occupano, l’essere noi stati dei primi ad iscriversi, e quindi volerci concedere, se non la forza di 30 cavalli promessa, almeno quella maggiore quantità di forza che fosse ancora disponibile…”.
“A buon intenditor poche parole” si direbbe.

Un imprenditore di successo
Non ci è pervenuta la quantità di acque concesse all’Oratorio in quella occasione. Resta il fatto che don Bosco dimostra ancora una volta quelle doti di capace imprenditore che tutti all’epoca gli hanno riconosciuto e che gli riconoscono tuttora: una storia di integrità morale, un giusto mix tra umiltà e fiducia in sé stesso, determinazione e coraggio, capacità comunicative e fiuto del futuro. Ovviamente quale carburante di tutte le sue ambizioni e aspirazioni stava una sola passione: quella per le anime. Aveva sì molti collaboratori, ma, in qualche modo, tutto cadeva sulle sue spalle. Ne sono la prova tangibile le migliaia di lettere, di cui abbiamo qui pubblicato una inedita, corretta e ricorretta più volte: lettere che solitamente scriveva di sera o di notte al lume di candela, dopo una giornata trascorsa tra preghiere, colloqui, riunioni, studio, parlate, visite di cortesia. Se di giorno architettava il suo progetto, di notte era poi capace di sognarne gli sviluppi. E questi sarebbero poi venuti nei decenni seguenti, con le centinaia di scuole professionali salesiane sparse nel mondo, con decine di migliaia di ragazzi (e poi di ragazze) che in esse avrebbero trovato un trampolino per un futuro carico di speranza.