Hai pensato alla tua vocazione? San Francesco di Sales potrebbe aiutarti (1/10)

«Non è per la grandezza delle nostre azioni che noi piaceremo a Dio, ma per l’amore con cui le compiamo», san Francesco di Sales.
Un percorso a dieci puntate nel quale san Francesco di Sales potrebbe accompagnare anche oggi i giovani che si fanno domande sul senso della loro vita.

1. Se iniziassimo dall’ABC della vita cristiana

Cari giovani,
so di scrivere a chi si porta già nel cuore un piccolo desiderio di bene, una ricerca di luce. Avete già camminato nell’amicizia col Signore, ma mi permetto di riassumervi qui l’ABC della vita da credente, ovvero una vita interiore e spirituale ricca e profonda. Con queste basi potrete essere attrezzati per fare scelte fruttuose nella vostra esistenza. Questo lavoro non mi è nuovo: quando ero Vescovo ho visitato tutte le parrocchie della mia Diocesi e molte erano situate sui monti. Per raggiungerle non c’erano strade e dovevo camminare a lungo, anche d’inverno, ma ero felice di incontrare quelle persone semplici, per incoraggiarle a vivere come piace a Dio.
Per camminare con frutto è decisivo il lavoro della guida spirituale che si accorge di cosa sta capitando nel vostro cuore, vi incoraggia, vi segue, vi fa proposte chiare, graduali e stimolanti. Scrivevo nella Filotea: “Vuoi metterti in cammino nei sentieri dello Spirito con sicurezza? Trova qualcuno capace, che ti sia di guida e ti accompagni; è la raccomandazione delle raccomandazioni”. Quattro secoli fa, come oggi: questo è il punto cruciale, decisivo.
La meta da raggiungere è la santità, che consiste in una vita cristiana consapevole, ovvero una profonda amicizia con Dio, una vita spirituale fervente, segnata dall’amore a Dio e al prossimo. Si tratta di una via semplice, sapendo che le grandi occasioni per servire Dio si presentano raramente, mentre le piccole le abbiamo sempre. Questo ci stimola ad una carità pronta, attiva, diligente.
Se, pensando ad una meta così, siete tentati dallo scoraggiamento, vi ripeto quanto scrissi secoli fa: “Non bisogna pretendere che tutti comincino con la perfezione: poco importa il modo di cominciare. Basta essere risoluti a continuare e terminare bene”.
Per partire con il piede giusto vi invito alla purificazione del cuore attraverso la confessione. Il peccato è una mancanza di amore, un furto alla vostra umanità, un trovarsi al buio e al freddo: nella confessione si consegna a Gesù tutto quello che può appesantire e rendere buio il viaggio. È ri-avere la gioia del cuore.
Procedendo, gli attrezzi per camminare sono antichi e preziosi quanto la Chiesa, e hanno sostenuto generazioni di cristiani di ogni età, da 20 secoli! Anche voi li avete certamente sperimentati.
La preghiera, ovvero dialogare con un Padre innamorato di voi e della vostra vita. Non dimenticate che a pregare si impara pregando: quindi abbiate fedeltà e perseveranza.
La Parola di Dio, ovvero la “lettera di Dio” indirizzata proprio a voi come singoli. È come una sorta di bussola che orienta il camminare, soprattutto quando c’è nebbia, buio e rischiate di perdere l’orientamento! Non dimenticate che leggendola avete tra le mani il Tesoro.
Il sacramento dell’Eucaristia è il termometro della vostra vita credente: se il vostro cuore non ha maturato un vivo desiderio di accogliere il Pane della Vita, l’incontro con Lui avrà risultati modesti. Scrivevo ai miei contemporanei: “Se il mondo vi chiede perché vi comunicate così spesso, rispondete che è per imparare ad amare Dio, per purificarvi dalle vostre imperfezioni, per liberarvi dalle vostre miserie, per trovare forza nelle vostre debolezze e consolazioni nelle vostre afflizioni. Due tipi di persone devono comunicarsi sovente: i perfetti, perché essendo ben disposti farebbero un torto a non accostarsi alla fonte e sorgente della perfezione; e gli imperfetti per poter tendere alla perfezione. I forti per non indebolirsi e i deboli per rafforzarsi. I malati per guarire e i sani per non ammalarsi.” Partecipate alla S. Messa con grande frequenza: il più possibile!
Insisto poi sulle virtù, perché se l’incontro con Dio è vero e profondo cambia anche i rapporti con le persone, il lavoro, le cose. Esse consentono di avere un carattere umanamente ricco, capace di amicizie vere e profonde, di essere gioiosamente impegnati nel fare bene il proprio dovere (lavoro-studio), pazienti e cordiali nel tratto, buoni.
Tutto questo non avviene nel vostro cuore solitario, per migliorarlo e compiacersi. La vita con altri è uno stimolo a camminare meglio (quanti sono migliori di noi!), ad aiutare di più (quanti hanno bisogno di noi!), a farsi aiutare (quanto abbiamo da imparare!), a ricordarci che non siamo autosufficienti (non ci siamo auto-creati e auto-educati!). Senza una dimensione comunitaria, ci perdiamo presto.
Spero che abbiate già gustato i frutti di una guida stabile, di confessioni autentiche, della preghiera fedele e soda, della ricchezza della Parola, dell’Eucaristia vissuta con fecondità, delle virtù praticate nella gioia del quotidiano, di amicizie arricchenti, dell’imprescindibilità del servizio. In questo humus si fiorisce: solo in questo ecosistema si percepisce il vero volto del Dio cristiano, alla cui mano è bello e dà gioia affidare la propria vita.

Ufficio Animazione Vocazionale

(continua)




Don Bosco e la raccolta differenziata dei rifiuti porta a porta

Chi l’avrebbe mai detto? Don Bosco ecologista anzitempo? Don Bosco pioniere della raccolta differenziata dei rifiuti a domicilio 140 anni fa?

Si direbbe di sì, stando almeno ad una delle lettere che abbiamo recuperato negli anni scorsi e che si trova nel IX volume dell’epistolario (no. 4144). Si tratta di una circolare a stampa del 1885 che nel suo piccolo – la città di Torino dell’epoca – anticipa e, ovviamente a suo modo, “risolve” i grandi problemi che affronta la nostra società, quella cosiddetta dei “consumi” e dell’“usa e getta”.

Il destinatario
Trattandosi di una lettera circolare il destinatario è generico, una persona conosciuta o meno. Don Bosco con furbizia ne “cattura” subito l’attenzione definendola “benemerita e caritativa”. Fatta tale premessa, don Bosco indica al suo corrispondente un dato di fatto sotto gli occhi di tutti:

La S. V. saprà che le ossa, avanzate dalla mensa e generalmente dalle famiglie gettate nella spazzatura come oggetto d’ingombro, riunite in grande quantità riescono in quella vece utili alla umana industria, e sono perciò ricercate dagli uomini dell’arte [= industria] pagate alcuni soldi per miriagramma. Una società di Torino, colla quale mi sono messo in rapporto, ne acquisterebbe in qualsivoglia quantità”. Dunque ciò che darebbe fastidio, tanto in casa che fuori casa, magari per le strade della città, viene saggiamente utilizzato con vantaggio di tanti.

Un’alta finalità
A questo punto don Bosco lancia la sua proposta: “In vista di ciò e in conformità di quanto si va già praticando in alcuni paesi a favore di altri Istituti di beneficenza, io sono venuto nel pensiero di ricorrere alle benestanti e benevole famiglie di questa illustre città, e pregarle, che invece di lasciare che vada a male e torni disutile questo rifiuto della loro tavola, lo vogliano cedere gratuitamente a benefizio dei poveri orfanelli raccolti ne’ miei Istituti, e specialmente a vantaggio delle Missioni di Patagonia, dove i Salesiani con ingenti spese e con pericolo della propria vita stanno ammaestrando ed incivilendo le tribù selvagge, per far loro godere i frutti della Redenzione e del verace progresso. Simile ricorso e siffatta preghiera io fo pertanto alla S. V. benemerita, convinto che vorrà prenderli in benigna considerazione ed esaudirli.

Il progetto sembrava appetibile da più parti: le famiglie si liberavano di parte dei rifiuti da tavola, la ditta era interessata a raccoglierli per riutilizzarli diversamente (prodotti alimentari per animali, concimi per la campagna ecc.); don Bosco ne ricavava denaro per le missioni… e la città rimaneva più pulita.

Una perfetta organizzazione
La situazione era chiara, l’obiettivo era alto, i vantaggi erano di tutti, ma non potevano bastare. Occorreva procedere alla raccolta di ossa “porta a porta” in tutta la città. Don Bosco non si scompone. Settantenne, ha ormai dalle sue profonde intuizioni, lunga esperienza ma anche grande capacità manageriali. Ecco allora organizzare tale “impresa” facendo attenzione ad evitare i sempre possibili abusi nelle varie fasi dell’operazione-raccolta: “A quelle famiglie, che avranno la bontà di aderire a questa umile mia domanda, sarà consegnato un apposito sacchetto, ove riporre le ossa mentovate, le quali verrebbero spesso ritirate e pesate da persona a ciò incaricata dalla società acquisitrice, rilasciandone un buono di ricevuta, il quale per caso di controllo colla società medesima sarebbe di quando in quando ritirato a nome mio. Così alla S. V. non resterà altro da fare che impartire gli ordini opportuni, affinché questi inutili avanzi della sua mensa, che andrebbero dispersi, siano riposti nel sacchetto medesimo, per essere consegnati al raccoglitore e quindi venduti ed usufruiti dalla carità. Il sacchetto porterà le lettere iniziali O. S. (Oratorio Salesiano), e la persona che passerà a vuotarlo presenterà pure un qualche segno, per farsi conoscere dalla S. V. o dai suoi famigli[ari]”.
Che dire? Se non che il progetto sembra valido in tutte le sue parti, addirittura migliore di qualche analogo progetto delle nostre città di terzo millennio!

Gli incentivi
Ovviamente la proposta andava sostenuta con qualche incentivo, non certo di tipo economico o promozionale, bensì morale e spirituale. Quale? Eccolo: “la S. V. si renderà benemerita delle opere sopraccennate, avrà la gratitudine di migliaia di poveri giovinetti, e quello che maggiormente importa ne riceverà la ricompensa da Dio promessa a tutti coloro, che si adoperano al benessere morale e materiale del loro simile”.

Una modulistica precisa
Da uomo concreto escogita un mezzo, che diremmo modernissimo, per riuscire nella sua impresa: chiede ai suoi destinatari di rimandargli indietro il tagliando, messo in calce alla lettera, che porta il suo indirizzo: “La pregherei ancora di volermene assicurare per mia norma e pel compimento delle pratiche a farsi, col distaccare e rimandarmi la parte di questo stampato, la quale porta il mio indirizzo. Appena avuta la sua adesione darò ordine che le sia consegnato il mentovato sacchetto”.
Don Bosco chiude la sua lettera con la consueta formula di ringraziamento e di augurio, che tanto tornava gradito ai suoi corrispondenti.
Don Bosco, oltre che essere un grande educatore, un lungimirante fondatore, un uomo di Dio, è stato anche un genio della carità cristiana.




La venerabile Dorotea di Chopitea

Chi era Dorotea di Chopitea? Era una cooperatrice salesiana, una vera madre dei poveri della città di Barcellona, creatrice di numerose istituzioni al servizio della carità e della missione apostolica della Chiesa. La sua figura assume oggi un’importanza particolare e ci incoraggia a imitare il suo esempio di essere “misericordiosi come il Padre”.

Una vizcayano in Cile
Nel 1790, durante il regno di Carlo IV, un vizcayano, Pedro Nicolás de Chopitea, originario di Lequeitio, emigrò in Cile, allora parte dell’Impero spagnolo. Il giovane emigrante prosperò e sposò una giovane creola, Isabel de Villota.

Don Pedro Nolasco Chopitea e Isabel Villota si stabilirono a Santiago del Cile. Dio concesse loro una numerosa famiglia di 18 figli, anche se solo 12 sopravvissero, cinque maschi e sette femmine. La più piccola nacque, fu battezzata e cresimata lo stesso giorno, il 5 agosto 1816, e prese i nomi di Antonia, Dorotea e Dolores, anche se fu sempre conosciuta come Dorotea, che in greco significa “dono di Dio”. La famiglia di Pietro ed Elisabetta era benestante, cristiana e impegnata a utilizzare le proprie ricchezze a beneficio dei poveri che la circondava.

Nel 1816, anno di nascita di Dorotea, i cileni iniziarono a chiedere apertamente l’indipendenza dalla Spagna, che ottennero nel 1818. L’anno successivo Don Pedro, che si era schierato con i realisti, cioè a favore della Spagna, e per questo era stato imprigionato, trasferì la sua famiglia oltreoceano a Barcellona, in modo che le turbolenze politiche non coinvolgessero i suoi figli più grandi, pur continuando a mantenere una fitta rete di relazioni con gli ambienti politici ed economici del Cile.

Nella grande casa di Barcellona, Dorotea, di tre anni, fu affidata alle cure della sorella Josefina, di dodici anni. Così Josefina, in seguito “Suor Josefina”, fu per la piccola Dorotea la “piccola madre giovane”. Si affidò a lei con totale affetto, lasciandosi guidare con docilità.

A tredici anni, su consiglio di Josefina, prese come direttore spirituale il sacerdote Pedro Nardó, della parrocchia di Santa Maria del Mar. Per 50 anni Pedro fu il suo confessore e il suo consigliere nei momenti più delicati e difficili. Il sacerdote le insegnò con gentilezza e forza a “separare il suo cuore dalle ricchezze”.

Per tutta la vita, Dorotea considerò le ricchezze della sua famiglia non come una fonte di divertimento e dissipazione, ma come un grande mezzo messo in mano da Dio per fare del bene ai poveri. Don Pedro Nardó le fece leggere più volte la parabola evangelica del ricco e del povero Lazzaro. Come segno distintivo cristiano, consigliò a Josefina e Dorotea di vestirsi sempre in modo modesto e semplice, senza la cascata di nastri e garze di seta leggera che la moda dell’epoca imponeva alle giovani donne aristocratiche.

Dorotea ricevette in famiglia la solida istruzione che all’epoca veniva impartita alle ragazze provenienti da famiglie benestanti. Infatti, in seguito aiutò molte volte il marito nella sua professione di mercante.

Moglie all’età di sedici anni
Le Chopiteas si erano incontrate a Barcellona con degli amici cileni, la famiglia Serra, che era tornata in Spagna per lo stesso motivo, l’indipendenza. Il padre, Mariano Serra i Soler, era originario di Palafrugell e si era ritagliato una brillante posizione economica. Sposato con una giovane creola, Mariana Muñoz, ebbe quattro figli, il maggiore dei quali, José María, nacque in Cile il 4 novembre 1810.

All’età di sedici anni, Dorotea visse il momento più delicato della sua vita. Era fidanzata con José María Serra, anche se si parlava del matrimonio come di un evento futuro. Ma accadde che Don Pedro Chopitea dovette tornare in America Latina per difendere i suoi interessi e poco dopo sua moglie Isabel si preparò ad attraversare l’Atlantico per raggiungerlo in Uruguay insieme ai loro figli più piccoli. Improvvisamente, Dorotea si trovò di fronte a una decisione fondamentale per la sua vita: rompere il profondo affetto che la legava a José María Serra e partire con sua madre, oppure sposarsi all’età di sedici anni. Dorotea, su consiglio di Don Pedro Nardó, decise di sposarsi. Il matrimonio ebbe luogo nella basilica Santa Maria del Mar il 31 ottobre 1832.

La giovane coppia si stabilì in Carrer Montcada, nel palazzo dei genitori del marito. L’intesa tra i due era perfetta e divenne fonte di felicità e benessere.

Dorotea era una persona esile e smunta, con un carattere forte e determinato. Il “ti amerò sempre” giurato dai due coniugi davanti a Dio si trasformò in una vita matrimoniale affettuosa e solida, che diede vita a sei figlie: tutte ricevettero il nome di Maria con vari complementi: Maria Dolores, Maria Ana, Maria Isabel, Maria Luisa, Maria Jesus e Maria del Carmen. La prima venne al mondo nel 1834, l’ultima nel 1845.

Cinquant’anni dopo il “sì” pronunciato nella chiesa di Santa Maria del Mar, José Maria Serra dirà che in tutti quegli anni “il nostro amore è cresciuto di giorno in giorno”.

Dorotea, madre dei poveri
Dorotea è la padrona di casa, in cui lavorano diverse famiglie di dipendenti. È l’intelligente collaboratrice di José María, che presto raggiunge fama e notorietà nel mondo degli affari. È al suo fianco nei momenti di successo e in quelli di incertezza e fallimento. Dorotea era al fianco del marito quando questi viaggiava all’estero. Era con lui nella Russia dello zar Alessandro II, nell’Italia dei Savoia e nella Roma di papa Leone XIII.

Nella sua visita a Roma, all’età di sessantadue anni, fu accompagnata dalla nipote Isidora Pons, che testimoniò al processo apostolico: “Fu ricevuta dal Papa. La deferenza con cui Leone XIII trattò mia zia, alla quale offrì in dono il suo prendisole bianco, mi è rimasta impressa”.

Affettuosa e forte
I dipendenti della casa Serra si sentivano parte della famiglia. Maria Arnenos ha dichiarato sotto giuramento: “Aveva un affetto materno per noi dipendenti. Si occupava del nostro benessere materiale e spirituale con un amore concreto. Quando qualcuno era malato, faceva in modo che non gli mancasse nulla, si occupava anche dei più piccoli dettagli”. Il suo stipendio era più alto di quello dei dipendenti di altre famiglie.

Una persona delicata, un carattere forte e determinato. Questo fu il campo di battaglia su cui Dorotea lottò per tutta la vita per acquisire l’umiltà e la calma che la natura non le aveva dato. Per quanto grande fosse il suo impeto, maggiore era la sua forza di vivere sempre alla presenza di Dio. Così scrisse nei suoi appunti spirituali:
“Mi sforzerò di fare in modo che fin dal mattino tutte le mie azioni siano rivolte a Dio”, “Non rinuncerò alla meditazione e alla lettura spirituale senza un serio motivo”, “Farò venti atti quotidiani di mortificazione e altrettanti di amore per Dio”, “Compiere tutte le azioni da Dio e per Dio, rinnovando frequentemente la purezza dell’intenzione… Prometto a Dio di purificare la mia intenzione in tutte le mie azioni”.

Cooperatrice Salesiana
Negli ultimi decenni del 1800, Barcellona è una città in piena “rivoluzione industriale”. La periferia della città era piena di persone molto povere. Mancavano rifugi, ospedali e scuole. Negli esercizi spirituali che fece nel 1867, Doña Dorotea scrisse tra i suoi propositi:
“La mia virtù preferita sarà la carità verso i poveri, anche se mi costerà grandi sacrifici”. E Adrián de Gispert, secondo nipote di Dorotea, ha testimoniato: “So che zia Dorotea ha fondato ospedali, rifugi, scuole, laboratori di arti e mestieri e molte altre opere. Ricordo di aver visitato alcune di esse in sua compagnia. Quando il marito era in vita, la aiutava in queste opere caritatevoli e sociali. Dopo la sua morte, salvaguardò innanzitutto il patrimonio delle sue cinque figlie; poi, i suoi beni personali (la sua ricchissima dote, il patrimonio ricevuto personalmente in eredità, i beni che il marito volle registrare a suo nome) li utilizzò per i poveri con un’amministrazione attenta e prudente”. Un testimone dichiarò sotto giuramento: “Dopo aver provveduto alla sua famiglia, dedicò il resto ai poveri come atto di giustizia”.

Avendo notizie di don Bosco, gli scrisse il 20 settembre 1882 (lei aveva sessantasei anni, don Bosco sessantasette). Gli disse che Barcellona era una città “eminentemente industriale e mercantile” e che la sua giovane e dinamica congregazione avrebbe trovato molto lavoro tra i ragazzi della periferia. Offrì una scuola per apprendisti lavoratori.

Don Felipe Rinaldi arrivò a Barcellona nel 1889 e scrive: “Ci recammo a Barcellona su sua chiamata, perché voleva provvedere soprattutto ai giovani lavoratori e agli orfani abbandonati. Comprò un terreno con una casa, di cui curò l’ampliamento. Arrivai a Barcellona quando la costruzione era già stata completata… Ho visto con i miei occhi molti casi di assistenza a bambini, vedove, anziani, disoccupati e malati. Molte volte ho sentito dire che svolgeva personalmente i servizi più umili per i malati”.

Nel 1884 pensò di affidare un asilo alle Figlie di Maria Ausiliatrice: bisognava pensare ai bambini di quella periferia.

Don Bosco poté recarsi a Barcellona solo nella primavera del 1886 e le cronache riportano ampiamente l’accoglienza trionfale che gli fu riservata nella metropoli catalana e le attenzioni affettuose e rispettose con cui Doña Dorotea, le figlie, i nipoti e i parenti circondarono il santo.

Il 5 febbraio 1888, quando fu informato della morte di don Bosco, il Beato Miguel Rúa gli scrisse: “Il nostro carissimo padre Don Bosco è volato in cielo, lasciando i suoi figli pieni di dolore”. Egli mostrò sempre una viva stima e un grato affetto per la nostra madre di Barcellona, come la chiamava, la madre dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice.

Inoltre, prima di morire, le assicurò che le avrebbe preparato un buon posto in cielo. Nello stesso anno, Doña Dorotea consegnò ai Salesiani l’oratorio e le scuole popolari di via Rocafort, nel cuore di Barcellona.

L’ultima consegna alla Famiglia Salesiana fu la scuola “Santa Dorotea”, affidata alle Figlie di Maria Ausiliatrice. Per il suo acquisto erano necessarie 60.000 pesetas e lei le consegnò dicendo: “Dio mi vuole povera”. Quella somma fu la sua ultima provvista per la vecchiaia, ciò che conservò per vivere modestamente insieme a Maria, la sua fedele compagna.

Il Venerdì Santo del 1891, nella fredda chiesa di Maria Reparatrice, mentre faceva la colletta, contrasse una polmonite. Aveva settantacinque anni e fu subito chiaro che non avrebbe superato la crisi. Don Rinaldi andò da lei e rimase a lungo al suo capezzale. Scrive: “Nei pochi giorni in cui era ancora viva, non pensava alla sua malattia ma ai poveri e alla sua anima. Voleva dire qualcosa in particolare a ciascuna delle sue figlie e le benedisse tutte nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, come un antico patriarca. Mentre stavamo intorno al suo letto raccomandandola al Signore, a un certo punto alzò gli occhi. Il confessore le presentò il crocifisso da baciare. Noi che eravamo presenti ci inginocchiammo. Dona Dorotea si raccolse, chiuse gli occhi e spirò dolcemente”.

Era il 3 aprile 1891, cinque giorni dopo la Pasqua.

Papa Giovanni Paolo II la dichiarò “venerabile” il 9 giugno 1983, cioè “una cristiana che ha praticato in modo eroico l’amore di Dio e del prossimo”.

don Echave-Sustaeta del Villar Nicolás, sdb
Vice-Postulatore della causa della venerabile




Don Bosco. Un’Ave Maria alla fine della Santa Messa

La devozione di san Giovanni Bosco alla Madonna è ben conosciuta. Le grazie ricevute dall’Ausiliatrice, perfino quelle straordinarie, miracolose, forse sono anch’esse in parte conosciute. Probabilmente si conosce di meno la promessa strappata alla Vergine, di portare in Paradiso, coloro che per tutta la vita abbinano un’Ave Maria alla Santa Messa.

Che il santo avesse una porta aperta nel Cielo alle sue preghiere, è ben risaputo. Fin da chierico nel seminario le sue preghiere erano esaudite, e per mascherare questo suo intervento presso il Cielo ha usato per un po’ di tempo il trucco delle pillole di pane al posto di medicine miracolose, fino a quando è stato scoperto da un vero farmacista. Le numerose richieste di intercessione e tanti miracoli avvenuti nella sua vita, raccontati abbondantemente dai suoi biografi, confermano questa sua potente intercessione.

La promessa di avere con sé in paradiso parecchie migliaia di giovani, avuta dalla Santissima Vergine, si trova confermata da due seminaristi che lo hanno sentito raccontare in una mutua di Spirituali Esercizi ai Chierici del Seminario Vescovile di Bergamo. Uno di loro era Angelo Cattaneo, futuro Vicario Apostolico dell’Honan Meridionale nella Cina, e lo ha testimoniato in una carta indirizzata a don Michele Rua, e un altro, Stefano Scaini, che più tardi è diventato gesuita; anche lui ha lasciato una testimonianza tramite una carta indirizzata ai salesiani. Ecco la prima testimonianza.

D. Bosco parlava quindi delle insidie che il demonio tendeva ai giovani per distrarli dalla Confessione e diceva loro che avrebbe voluto svelare ai singoli, che glie lo richiedessero, le condizioni spirituali delle loro anime.
[…]
Quando, dopo una predica ai seminaristi [di Bergamo], si presentò a Don Bosco uno di essi [Angelo Cattaneo] con una lista di peccati tra mano, il Santo la gettò sul fuoco e quindi gli elencò tutte quelle colpe come se le leggesse. Poi egli disse ai suoi attenti uditori di avere ottenuto dalla Madonna la promessa di avere con sé, in paradiso, parecchie migliaia di giovani, alla condizione che essi recitassero quotidianamente, per tutta la vita terrena, un’Ave durante la Messa.
(Pilla Eugenio, I sogni di Don Bosco, p. 207)

E anche la seconda.

Molto Rev. Signore,

Ben contento di poter portare anch’io il mio piccolo tributo di stima e di grato affetto alla santa memoria di Don Bosco, Le narro cosa, che forse non riuscirà inutile a chi avrà l’alta fortuna di scriverne la vita.
L’anno 1861, fu il veneratissimo Don Bosco a dettare i Spirituali Esercizi ai Chierici del Seminario Vescovile di Bergamo, fra i quali ero io pure.
Ora, in una delle sue prediche ci disse presso a poco così: “In una certa occasione potei domandare a Maria Santissima la grazia di avere presso di me in Paradiso parecchie migliaia di giovani (mi sembra dicesse anche il numero delle migliaia ma non lo ricordo), e la Madonna Santissima me ne fece promessa. Se anche voi altri desiderate appartenere a tal numero, io son ben lieto di ascrivervi, a patto che ogni giorno per tutto il tempo di vostra vita recitiate un’Ave Maria, e quella possibilmente nel tempo che ascolterete la Santa Messa, anzi nel momento della Consacrazione”.
Non so qual conto facessero gli altri di questa proposta, io per parte mia l’accolsi con giubilo, stante l’altissima stima, che in quei giorni mi aveva inspirato di sé Don Bosco, e non tralasciai neppur un giorno, che mi ricordi, di recitare l’Ave Maria secondo la detta intenzione. Ma col passar degli anni mi venne un dubbio, che feci sciogliere a Don Bosco istesso; ed ecco il modo.
La sera del giorno 3 Gennaio 1882, trovandomi a Torino diretto a Chieri per entrare nel Noviziato della Compagnia di Gesù, chiesi ed ottenni di poter parlare a Don Bosco. Mi accolse con grande bontà, ed avendogli io detto che stava per entrare nel Noviziato della Compagnia, disse: – Oh! quanto ne godo! Quando sento che alcuno entra nella Compagnia di Gesù, ne provo tanto piacere come se entrasse fra i miei Salesiani.
Quindi gli dissi: – Se mi permette vorrei domandarle schiarimenti sopra una cosa, che mi sta molto a cuore. Dica, si ricorda di quando venne nel Seminario di Bergamo a dettarci gli Esercizi Spirituali? – Sì, mi ricordo. – Le sovviene d’averci parlato d’una grazia domandata alla Madonna ecc. – e gli ricordai le sue parole, il patto ecc. – Sì, mi ricordo – Ebbene: io quell’Ave Maria l’ho sempre recitata; la reciterò sempre… ma… Vostra Signoria ci ha parlato di migliaia di giovani; io sono già fuori di questa categoria… e quindi temo di non appartenere al numero fortunato…
E Don Bosco con grande sicurezza: – Continui a recitare quell’Ave Maria e ci troveremo insieme in Paradiso. – Quindi, ricevuta la Santa Benedizione e baciatagli con affetto la mano, partii pieno di consolazione e di dolce speranza d’aver proprio un giorno a trovarmi in Paradiso con Lui.
Se Vostra Signoria crede che questo possa riuscire di qualche gloria a Dio e di qualche onore alla santa memoria di Don Bosco, sappia che io son prontissimo a confermarne la sostanza anche col giuramento.
Lomello, 4 Marzo 1891.

Umilissimo Dev.mo Servo
V. Stefano Scaini S.I.
[MB VI,846]

Queste testimonianze fanno capire quanto stava al cuore di don Bosco la salvezza eterna. In tutte le sue iniziative educative e sociali, molto necessarie per altro, non perdeva di vista il fine ultimo della vita umana, il Paradiso. Voleva preparare tutti a questo ultimo esame della vita, e per questo insisteva di abituare anche ai giovani a fare l’esercizio della buona morte ogni fine mese, ricordando le ultime cose, dette anche i novissimi: la morte, il giudizio, il Paradiso e l’inferno. E per questo aveva chiesto e ottenuto dall’Ausiliatrice questa grazia speciale.

Ovviamente ci sembra strano oggi questa preghiera fatta durante la Santa Messa e anche proprio al momento della Consacrazione. Ma, per capire questo, bisogna ricordare che ai tempi di don Bosco la Messa veniva celebrata interamente in latino, e siccome i fedeli nella grande maggioranza non conoscevano questa lingua, era facile distrarsi invece di pregare. Per trovare un rimedio a questa umana inclinazione si abituava a raccomandare varie preghiere durante la celebrazione.

Possiamo oggi recitare questa Ave Maria alla fine della celebrazione? Ce lo fa capire proprio don Bosco: “possibilmente nel tempo che ascolterete la Santa Messa…”. Per di più le norme liturgiche odierne non raccomandano inserimenti di altre preghiere fuori da quelle del Messale.
Possiamo sperare che questa Ave Maria aggiunga anche noi al numero dei beneficiari della promessa? Col vivere nella grazia di Dio, col farlo per tutta la vita e con la risposta di don Bosco a Stefano Scaini, “Continui a recitare quell’Ave Maria e ci troveremo insieme in Paradiso”, possiamo rispondere affermativamente.




Lettera del Rettor Maggiore dopo la nomina cardinalizia

A tutti i Confratelli Salesiani (SDB) Ai membri dei Gruppi della Famiglia Salesiana

Cari fratelli e sorelle,
giunga a ciascuno e a ciascuna di voi il mio sincero, fraterno e affettuoso saluto.

Dopo la notizia inaspettata (soprattutto per me), con la quale il Santo Padre Francesco ha annunciato anche il mio nome tra le 21 persone che ha scelto per essere “create” Cardinali della Chiesa nel prossimo Concistoro del 30 settembre, migliaia di persone si saranno domandate: e ora cosa accadrà? Chi guiderà la Congregazione nel prossimo futuro? Quali passi l’attendono?
Potete ben capire che sono gli stessi interrogativi che anch’io mi sono posto, mentre ringraziavo con fede il Signore per questo dono che Papa Francesco ci ha fatto come Congregazione salesiana e come Famiglia di Don Bosco.
Che grande affetto ha il Papa nei nostri confronti!!!
Pertanto, mentre ringrazio Dio per questo dono che è di tutta la Congregazione e della Famiglia Salesiana, esprimo la mia gratitudine a Papa Francesco assicurando per lui, da parte di tutti i membri della nostra grande Famiglia, una più fervida e intensa preghiera. Preghiera che, come detto, sarà sempre accompagnata dal nostro sincero e profondo affetto.
Dopo circa mezz’ora dall’annuncio della nomina in occasione della preghiera dell’Angelus di domenica scorsa, 9 luglio, il Santo Padre mi ha consegnato una lettera nella quale mi ha chiesto un incontro urgente con lui, per concordare i tempi necessari del mio servizio come Rettor Maggiore per il bene, innanzitutto, della Congregazione. Il Papa stesso, nella citata lettera, mi ha parlato esplicitamente della preparazione e del prossimo Capitolo Generale previsto per il 2026.
Quindi, ieri pomeriggio, martedì 11 luglio, sono stato ricevuto da Papa Francesco. Ho avuto con lui un dialogo fraterno. Come sempre il Papa si è mostrato attento, cordiale, profondo estimatore del carisma di don Bosco e particolarmente affettuoso. Sentimenti che, a nome mio personale e di tutta la Famiglia salesiana, ho ricambiato.
Ora sono in grado di condividere con la Congregazione salesiana e la nostra Famiglia sparsa nel mondo, le disposizioni che il Santo Padre mi ha comunicato.

Eccole:
– potremo anticipare il 29° Capitolo generale di un anno, cioè nel febbraio 2025;
– il Papa ha ritenuto che, per il bene della nostra Congregazione, dopo il Concistoro del 30 settembre 2023 io possa continuare il mio servizio come Rettore Maggiore fino al 31 luglio 2024, cioè fino alla conclusione della sessione plenaria estiva del Consiglio Generale;
– dopo tale data presenterò le mie dimissioni da Rettor Maggiore per assumere dalle mani del Santo Padre il servizio che mi affiderà. Questo è quanto il Papa stesso mi ha comunicato;
– a norma dell’art. 143 delle nostre Costituzioni, che dà le disposizioni nel caso della «cessazione dall’ufficio del Rettor Maggiore», essendo stato chiamato da Papa Francesco per un altro servizio, il mio Vicario, don Stefano Martoglio, assumerà il governo della Congregazione ad interim fino alla celebrazione del CG29;
– il Capitolo Generale 29° sarà convocato da me almeno un anno prima della sua celebrazione, come stabilito dalle nostre Costituzioni e dai Regolamenti generali (Reg. 111), e sarà il mio Vicario, don Stefano Martoglio, a presiederlo;
– per tutto questo tempo continueremo a seguire il programma del sessennio stabilito per l’animazione e nel governo della Congregazione. Al fine di completare tutte le visite straordinarie programmate (comprese quelle relative all’anno 2025), il Rettor Maggiore, udito il parere dei membri del Consiglio generale, procederà alla nomina di un ulteriore visitatore straordinario. In questo modo sarà possibile arrivare al CG29 con un quadro completo e aggiornato della situazione dell’intera Congregazione;
– per tutti gli altri elementi relativi al Capitolo generale, fornirò informazioni dettagliate nella lettera di convocazione ufficiale del CG29.

In conclusione mi rimane da dire e da rispondere ad un altro interrogativo che molti di voi avranno: quale compito mi affiderà il Santo Padre?
Papa Francesco non me l’ha ancora detto. Inoltre, con questo ampio margine di tempo ritengo che sia la cosa più opportuna.
In ogni caso, chiedo a tutti voi, cari Confratelli e membri dei gruppi della nostra Famiglia Salesiana di continuare a intensificare la preghiera. Soprattutto per Papa Francesco. Lui stesso l’ha espressamente richiesta al termine dell’udienza privata a me concessa.
E vi chiedo anche di pregare per quello che vivremo in questo anno come Congregazione e come Famiglia Salesiana.
Chiedo, infine, anche di pregare per me, posto di fronte alla prospettiva di un nuovo servizio nella Chiesa che, come figlio di Don Bosco, accetto in filiale obbedienza, senza averlo né cercato né voluto. Il nostro amato Padre Don Bosco mi è testimone davanti al Signore Gesù.
Vi ringrazio per l’affetto, la vicinanza espressa in questi giorni con i numerosi messaggi che mi sono pervenuti da ogni parte del mondo.
Dalla Basilica di Maria Ausiliatrice vi invio un affettuoso e riconoscente saluto affidando tutti e ciascuno a Lei, la Madre, la quale continuerà ad accompagnarci e a sostenerci.
Sento come rivolte a me le stesse espressioni che la Madonna disse a don Bosco nel sogno dei nove anni – di cui l’anno prossimo si celebrerà il secondo centenario: «A suo tempo tutto comprenderai». E sappiamo che per il nostro Padre ciò è effettivamente avvenuto quasi al termine della vita, davanti all’altare di Maria Ausiliatrice nella Basilica del Sacro Cuore di Gesù, che era stata consacrata il giorno prima, il 16 maggio 1887.
Mettiamo tutto nelle mani del Signore e di sua Madre.

Con immenso affetto vi saluto,
Prot. 23/0319
Torino, 12 luglio 2023




Basilica del Sacro Cuore a Roma

Al tramonto della vita, ubbidendo a un desiderio di papa Leone XIII, don Bosco assume la difficile costruzione del tempio del Sacro Cuore di Gesù al Castro Pretorio di Roma. Per portare a termine l’impresa gigantesca non ha risparmiato faticosi viaggi, umiliazioni, sacrifici, che hanno abbreviato la sua preziosa vita di apostolo della gioventù.

La devozione al Sacro Cuore di Gesù risale agli inizi della Chiesa. Nei primi secoli i Santi Padri invitavano a guardare il Costato trafitto di Cristo, simbolo di amore, anche se non rimandava in modo esplicito al Cuore del Redentore.
I primi riferimenti trovati sono quelli che provengono dai mistici Matilde di Magdeburgo (1207-1282), santa Matilde di Hackeborn (1241-1299), santa Gertrude di Helfta (ca. 1256-1302) e beato Enrico Suso (1295-1366).
Uno sviluppo importante arriva con le opere di san Giovanni Eudes (1601-1680), poi con le rivelazioni private della visitandina santa Margherita Maria Alacoque, diffuse da san Claude de la Colombière (1641-1682) e dai suoi confratelli gesuiti.
Alla fine dell’800 si diffondono le chiese consacrate al Sacro Cuore di Gesù, principalmente come templi espiatori.
Con la consacrazione del genere umano al Sacro Cuore di Gesù, tramite l’enciclica di Leone XIII, Annum Sacrum (1899) il culto si estende notevolmente e si rafforza con altre due encicliche che verranno più tardi: Miserentissimus Redemptor (1928) di Pio XI e soprattutto Haurietis Aquas (1956) di Pio XII.

Ai tempi di don Bosco, dopo la costruzione della stazione ferroviaria Termini da parte di papa Pio IX nel 1863, cominciano a popolarsi le vicinanze, e le chiese circostanti non riuscivano a servire i fedeli in modo adeguato. Nasce così il desiderio di edificare un tempio nella zona, ed si è inizialmente pensato di dedicarlo a san Giuseppe, nominato come patrono della Chiesa Universale l’8 dicembre 1870. Dopo una serie di avvenimenti, nel 1871 il papa cambia il patronaggio della voluta chiesa, dedicandola al Sacro Cuore di Gesù, e rimane in stato di progetto fino al 1879. Intanto il culto verso il Sacro Cuore continua a diffondersi, e nel 1875, a Parigi, sulla collina più alta della città, Montmartre (Monte dei Martiri), si pone la prima pietra alla chiesa omonima, Sacré Cœur, che verrà completata nel 1914 e consacrata nel 1919.

Dopo la morte di papa Pio IX, il nuovo papa Leone XIII (come arcivescovo di Perugia aveva consacrato la sua diocesi al Sacro Cuore) decide di riprendere il progetto, e il 16 agosto 1879 si pone la prima pietra. I lavori si interrompono poco dopo per la mancanza di sostegno finanziario. Uno dei cardinali, Gaetano Alimonda (futuro arcivescovo di Torino) consiglia al papa di affidare l’impresa a don Bosco e, anche se il pontefice inizialmente è titubante sapendo gli impegni delle missioni salesiane dentro e fuori l’Italia, fa la proposta al Santo nell’aprile del 1880. Don Bosco non ci pensa due volte e risponde: “Il desiderio del Papa è per me un comando: accetto l’impegno che Vostra Santità ha la benevolenza di affidarmi”. All’avvertimento del Papa che non potrà sostenerlo economicamente, il Santo chiede solo l’apostolica benedizione e i favori spirituali necessari per il compito affidato.

Posa della prima pietra della chiesa Sacro Cuore di Gesù a Roma

Di ritorno a Torino, vuole avere l’approvazione del Capitolo per questa impresa; dei sette voti, solo uno è positivo: il suo… Il Santo non si scoraggiò e argomentò: “Mi avete dato tutti un no rotondo e sta bene, perché avete agito secondo la prudenza necessaria in casi seri e di grande importanza come questo. Ma se invece di un no mi date un sì, io vi assicuro che il Sacro Cuore di Gesù manderà i mezzi per fabbricare la sua chiesa, pagherà i nostri debiti e ci darà una bella mancia” (MB XIV,580). Dopo questo intervento si è ripetuta la votazione e i risultati furono tutti positivi e la mancia principale fu l’Ospizio del Sacro Cuore che fu costruito accanto alla chiesa per i ragazzi poveri e abbandonati. Questo secondo progetto dell’Ospizio è stato inserito in una Convenzione fatta l’11 dicembre 1880, che garantiva l’uso perpetuo della chiesa alla Congregazione Salesiana.
L’accettazione gli causerà gravi preoccupazioni e gli costerà la salute, ma don Bosco che insegnava ai suoi figli il lavoro e la temperanza e diceva che sarebbe stato un giorno di trionfo quello in cui si fosse detto che un salesiano era morto sulla breccia affranto dalla fatica, li precedeva con l’esempio.

L’edificazione del Tempio del Sacro Cuore al Castro Pretorio in Roma venne realizzata non solo per l’obbedienza al Papa ma anche per la devozione.
Riprendiamo uno dei suoi interventi su questa devozione, fatto in una buonanotte rivolta agli allievi e confratelli a un solo mese di distanza dall’incarico, il 3 di giugno del 1880, vigilia della festa del Sacro Cuore.
Domani, miei cari figliuoli, la Chiesa celebra la festa del Sacro Cuore di Gesù. Bisogna che anche noi con grande impegno procuriamo di onorarlo. È vero che la solennità esterna la trasporteremo a domenica; ma domani incominciamo a far festa nel nostro cuore, a pregare in modo speciale, a far comunioni fervorose. Domenica poi ci sarà musica e le altre cerimonie del culto esterno, che rendono tanto belle e maestose le feste cristiane.
Qualcheduno di voi vorrà sapere che cosa sia questa festa e perché si onori specialmente il Sacro Cuore di Gesù. Vi dirò che questa festa non è altro che onorare con una speciale rimembranza l’amore che Gesù portò agli uomini. Oh l’amore grandissimo, infinito che Gesù ci portò nella sua incarnazione e nascita, nella sua vita e predicazione, e particolarmente nella sua passione e morte! Siccome poi sede dell’amore è il cuore, così si venera il Sacro Cuore, come oggetto che serviva di fornace a questo smisurato amore. Questo culto al Sacratissimo Cuor di Gesù, cioè all’amore che Gesù ci dimostrò, fu di tutti i tempi e sempre; ma non sempre vi fu una festa appositamente stabilita per venerarlo. Come sia comparso Gesù alla Beata Margherita una festa le abbia manifestato i grandi beni che verranno agli uomini onorando di culto speciale il suo amabilissimo cuore, e come se ne sia perciò stabilita la festa, lo sentirete nella predica di domenica a sera.
Ora facciamoci coraggio ed ognuno faccia del suo meglio per corrispondere a tanto amore che Gesù ci ha portato.
(MB XI,249)

Sette anni più tardi, nel 1887, la chiesa fu completata per il culto. Il 14 maggio di quell’anno don Bosco assistette con commozione alla consacrazione del tempio, presieduta solennemente dal cardinale vicario Lucido Maria Parocchi. Due giorni più tardi, il 16 maggio, celebrò l’unica Santa Messa in questa chiesa, all’altare dell’Ausiliatrice, interrotta ben più di quindici volte dalle lacrime. Erano lacrime di riconoscenza per la luce divina ricevuta: aveva capito le parole del suo sogno di nove anni: “A suo tempo tutto comprenderai!”. Un compito portato a termine tra tante incomprensioni, difficoltà e fatiche, ma che corona una vita spesa per Dio e per i giovani, premiato dalla stessa Divinità.

Recentemente è stato realizzato un video sulla Basilica del Sacro Cuore. Ve lo proponiamo a seguire.






La presenza salesiana nel Caraibi

Sotto il sole dei Caraibi, in villaggi pieni di vita e di gioia, don Bosco continua a essere una risposta significativa per i giovani di queste terre.

Da oltre cento anni, la presenza salesiana ha trovato tanto un ambiente quanto un clima molto fertili in alcuni Paesi dei Caraibi, che oggi, come in passato, confermano la loro importanza nella presenza dei loro giovani, nella loro gente gioiosa, affettuosa e semplice, nella loro sensibilità religiosa e nella loro capacità di accoglienza: Cuba, Haiti, la Repubblica Dominicana e Porto Rico hanno offerto e continuano a offrire un ambiente propizio alla missione salesiana e una terra fertile per il carisma di don Bosco.

I Salesiani, organizzati in due Ispettorie, quella delle Antille e quella di Haiti, insieme a molti altri membri della famiglia salesiana, concretizzano oggi questa presenza. Sono il frutto della generosità e della passione di grandi missionari, con buona volontà, grandi sogni, fiducia nella Provvidenza e impegno nell’educazione e nell’evangelizzazione dei giovani; è così che si è consolidata la presenza di don Bosco. Ci sono stati anche eventi storici naturali o sociali che hanno motivato le decisioni che hanno portato alla sua attuale conformazione.

Un po’ di storia

Sebbene la prima richiesta di Salesiani nelle Indie Occidentali risalga al 1896, il primo Paese a ricevere una presenza salesiana fu Cuba nel 1916, seguita dalla Repubblica Dominicana nel 1933, poi Haiti nel 1936 e infine Porto Rico nel 1947.

Dolores Betancourt, nativa di Camagüey, aveva firmato un accordo privato a Torino con don Pablo Albera riguardo a una fondazione nella sua città d’origine. I primi Salesiani arrivarono a Cuba il 4 aprile 1917 per aprire un’opera a Camagüey.

Padre José Calasanz (1872-1936), originario di Azanuy, Spagna, salesiano dal 1890, fu inviato come missionario per promuovere le fondazioni a Cuba, in Perù e in Bolivia. Nel 1917 i primi Salesiani entrarono a Cuba, insieme al sacerdote don Esteban Capra e a due coadiutori (i signori Ullivarri e Celaya). Nel 1917, ai Salesiani fu affidata la chiesa dedicata a Nostra Signora della Carità in una zona rurale di Camagüey, da dove coordinarono la prima scuola di arti e mestieri.

Haiti, Cap-Haïtien

Le comunità salesiane iniziarono a crescere e a consolidarsi a Cuba, dapprima condividendo la proprietà canonica con l’Ispettoria Salesiana di Tarragona, in Spagna. Nel 1924, passò all’Ispettoria del Messico e tre anni dopo, a causa della persecuzione religiosa subita in Messico, la sede dell’Ispettoria fu trasferita all’Avana, Cuba.

Padre Pittini svolse le funzioni di Provinciale nella parte orientale degli Stati Uniti e lì ricevette istruzioni dal Superiore Generale, don Pedro Ricaldone, di trasferirsi a Santo Domingo, per esaminare la possibilità che la Congregazione potesse insediarsi nella Repubblica Dominicana.

Il 16 agosto 1933, Padre Pittini arrivò nel porto di San Pedro de Macorís. Nel febbraio 1934, Padre Pittini assunse il ruolo di Superiore dei Salesiani appena arrivati nella Repubblica Dominicana; supervisionò i lavori della scuola in costruzione e fece conoscenza con i Domenicani. L’11 ottobre 1935, papa Pio XI lo nominò arcivescovo di Santo Domingo.

Haiti, Pétion-Ville

I Salesiani arrivarono ad Haiti nel 1936. Il Rettor Maggiore delegò don Pedro Gimbert, ex Ispettore di Lione, a impiantare il carisma salesiano ad Haiti. Arrivò il 27 maggio 1936, accompagnato da un curato salesiano, il signor Adriano Massa. In seguito, arrivarono altri confratelli per completare la comunità.
Dalla sua fondazione, Haiti fece successivamente parte dell’Ispettoria Salesiana del Messico-Antille con sede all’Avana; successivamente fece parte dell’Ispettoria delle Antille – insieme a Cuba, Repubblica Dominicana e Porto Rico – con sede a Santo Domingo.

Haiti, Gressier

La fondazione a Porto Rico divenne realtà il 24 aprile 1947, quando Padre Pedro M. Savani, ex Ispettore di Messico-Antille, arrivò per occuparsi della Parrocchia di San Juan Bosco a Santurce, in via Lutz. Da qui, iniziò la gestione di un Oratorio sull’attuale terreno di Cantera, dove, nel 1949, iniziò la costruzione della cappella che sarebbe poi diventata l’imponente Chiesa-Santuario di Maria Ausiliatrice.

L’erezione canonica della Provincia delle Antille avvenne il 15 settembre 1953 durante il rettorato di don Renato Ziggiotti, sotto il patrocinio di san Giovanni Bosco, con sede a La Víbora (L’Avana, Cuba). In seguito fu trasferita a Compostela (L’Avana Vecchia). Dopo la Rivoluzione cubana, la sede provinciale fu trasferita a Santo Domingo, Repubblica Dominicana, presso il “Collegio Don Bosco”, dove rimase fino al 1993, quando fu trasferita nell’attuale sede situata in Calle 30 de Marzo #52, nella città di Santo Domingo.

Dal gennaio 1992, Haiti è un Visitatoria, con sede a Port-au-Prince.

Don Bosco nei Caraibi oggi
L’Ispettoria Salesiana delle Antille è composta da tre Paesi della regione caraibica: Cuba, Repubblica Dominicana e Porto Rico. Haiti forma un’Ispettoria separata. In totale ci sono 169 Salesiani di don Bosco nei quattro Paesi: 15 a Cuba, 74 ad Haiti, 67 nella Repubblica Dominicana e 13 a Porto Rico.

Le opere che animano le due Ispettorie in 32 comunità sono: 41 centri educativi (di cui almeno 20 sono centri di formazione tecnica), 33 oratori, 23 opere sociali, 8 case di ritiro-incontri, 1 centro di formazione ambientale, 3 case di formazione, 4 centri di comunicazione sociale-studi di registrazione, 2 stazioni radio e 18 parrocchie con 80 cappelle e 44 case di missione.

La Famiglia Salesiana nei Caraibi ha una grande vitalità ed è composta da vari gruppi: Salesiani di Don Bosco, Figlie di Maria Ausiliatrice, Cooperatori Salesiani, Associazione dei Devoti di Maria Ausiliatrice, Exallieve (SDB-FMA), Figlie dei Sacri Cuori, Volontari di Don Bosco, Dame Salesiane e Missionarie Parrocchiali di Maria Ausiliatrice (quest’ultima, una Pia Unione, approvata dall’Arcivescovo di Santo Domingo, monsignor Octavio A. Beras, è stata fondata da don Andrés Nemeth, sdb, il 16 giugno 1961; anche se non fa parte della Famiglia Salesiana, per la sua vicinanza, partecipa alle sue riunioni). I rapporti sono cordiali, alcuni progetti pastorali sono condivisi e si incontrano frequentemente.

In un clima sociale e politico molto particolare, i quattro Paesi stanno vivendo una migrazione di massa dei loro giovani e di intere famiglie, motivata dalla fame, dalla mancanza di cibo e di lavoro, dalla violenza e dalla ricerca di opportunità meglio retribuite. In queste circostanze, la presenza salesiana continua a essere molto impegnata nei processi di educazione, formazione al lavoro, cittadinanza e vita di fede. C’è un serio impegno nella difesa dei diritti all’istruzione, all’alimentazione e ad una vita dignitosa per bambini, adolescenti e giovani; i campi da gioco sono utilizzati per accompagnare e incoraggiare le attività ludiche e gli incontri che permettono di fare amicizia. La musica e la danza sono espressioni naturali che trovano negli oratori salesiani lo stimolo e lo spazio per esprimersi al meglio. I loro cortili sono sempre stati luoghi di incontro e di rifugio, anche di fronte agli eventi naturali che li hanno colpiti.

Questa presenza oggi è profetica nel condividere con la gente le realtà sociali che ogni Paese sta vivendo, decidendo di rimanere vicino ai più bisognosi, incoraggiando la fede quotidiana, un’amicizia semplice che parla di Dio, piena di speranza e di conforto, con gesti fraterni di solidarietà e di amore per i più vulnerabili, soprattutto i bambini e i giovani.

Santo Domingo, La Plaza

don Hugo OROZCO SÁNCHEZ, sdb
Consigliere Regionale per Interamerica




Il Rettor Maggiore, don Angel FERNANDEZ ARTIME, nominato cardinale

Papa Francesco, alla fine della preghiera mariana di domenica, 9 di luglio 2023, ha annunciato la creazione di 21 nuovi cardinali, fra i quali anche il Rettor Maggiore dei salesiani, don Angel FERNANDEZ ARTIME.

Auguriamo al nostro Rettor Maggiore tante grazie dal Signore che lo guidi nella nuova missione affidata dalla Chiesa Universale!

La notizia ufficiale si trova QUI.




Secondo Congresso dei Coadiutori dell’Africa

Il secondo Congresso Regionale dei Salesiani Coadiutori della Regione Africa-Madagascar si è svolto dal 24 al 29 maggio 2023 a Yaoundé, in Camerun, nella Visitatoria “Nostra Signora dell’Africa” dell’Africa Tropicale Equatoriale (ATE). Il motto del Congresso: “Camminando con Raffaele e Tobia, pedalando con Artemide” ha guidato le giornate di approfondimento del carisma, puntando a promuovere l’identità vocazionale del salesiano coadiutore e ad offrire una visione che aiuti la formazione permanente. Presentiamo l’intervento del Consigliere Regionale, don Alphonse Owoudou.


Introduzione
Il Capitolo Generale 28° ci ha posto una sfida di identità sotto forma di domanda: “Che tipo di Salesiani per i giovani di oggi?”. Questa domanda potrebbe essere rivolta a noi durante questo Congresso dei Fratelli Salesiani: Quali Salesiani per i giovani dell’Africa e del Madagascar di oggi? Le varie riflessioni che hanno alimentato questi giorni ci danno motivo di ridisegnare costantemente il ritratto di ciascuno dei nostri confratelli laici consacrati, ed è questo il contributo che daremo contemplando un libro della Bibbia, il libro di Tobith, una leggenda estremamente profetica, pedagogica e pastorale. Vedremo, attraverso una prospettiva analogica e un po’ ermeneutica, come e in che misura, come don Bosco e in particolare come sant’Artemide Zatti, il Coadiutore è chiamato a diventare un genitore spirituale e un accompagnatore competente per i giovani, per non dire un vero e proprio “sacramento della presenza salesiana”.

1.Camminare con Raffaello e il giovane Tobia
La leggenda di Raffaele e Tobia è un’affascinante storia biblica che riguarda un giovane di nome Tobia e il suo angelo custode, Raffaele. Vorrei riassumere la vita di Tobith dandogli la parola: “Io, Tobith, camminavo nella verità e facevo ciò che era giusto. Facevo l’elemosina alla mia famiglia e ai prigionieri assiri a Ninive e visitavo spesso Gerusalemme per le feste, portando offerte e decime. Quando crebbi, mi sposai ed ebbi un figlio di nome Tobia. Deportato da Sennacherib, mi astenni dal mangiare il loro cibo e Dio mi concesse misericordia davanti a lui. Tramite mio nipote Ahikar, ottenni di tornare a Ninive dove aiutai gli orfani, le vedove e gli stranieri secondo la legge di Mosè”.

Accusato da uno dei cittadini, Tobith viene purtroppo rovinato e persino accecato dagli escrementi di un uccello che gli cadono sul viso. Ricordiamo anche il litigio con la moglie (cap. 2), che aveva portato una pecora: il marito cieco pensava che l’avesse rubata, cosa che fece arrabbiare la moglie, la quale insultò il marito cieco. Tobith aveva un figlio, al quale aveva dato il suo stesso nome. L’arcangelo Raffaele apparve a questo ragazzo in forma umana e gli offrì il suo aiuto. Raffaele accompagna Tobia in una missione difficile, un viaggio pericoloso per raccogliere denaro per la sua famiglia (cap. 4). Durante il viaggio, Raffaele aiuta Tobia a sconfiggere un demone che ha ucciso i mariti delle sue future mogli e cura la cecità di Tobia. Alla fine del viaggio, Tobia sposa Sara, la figlia di un parente lontano, e Raffaele rivela la sua vera identità di angelo di Dio.

Il salesiano laico Artemide Zatti era un religioso e un uomo vicino ai suoi fratelli e sorelle, soprattutto a quelli che soffrivano. Ha dedicato la sua vita ad aiutare i malati e i poveri in Argentina. Zatti era un giovane proveniente da una famiglia povera che iniziò a lavorare all’età di quattro anni per aiutare la famiglia. In seguito emigrò in Argentina con la sua famiglia alla ricerca di una vita migliore. Colpito dalla tubercolosi, guarì e si unì all’ordine salesiano.
Zatti lavorò come farmacista e gestì anche un ospedale, dove fu descritto come molto devoto ai malati e ai poveri. Era anche coinvolto in attività religiose ed era considerato un potenziale candidato alla canonizzazione. Zatti era noto per la sua compassione e dedizione ai pazienti, per la sua competenza medica, per il suo lavoro volto all’espansione dell’ospedale e per la sua eredità duratura. La sua bicicletta, che usava per girare la città visitando i poveri malati, divenne un simbolo della sua vita dedicata agli altri. Zatti rifiutava i regali per sé, preferendo continuare a usare la sua bicicletta, che considerava un mezzo di trasporto sufficiente per adempiere alla sua missione di curare i malati e servire gli altri.

2. I due tweet di papa Francesco e una bicicletta
1. Il fratello salesiano Artemide Zatti, pieno di gratitudine per ciò che aveva ricevuto, ha voluto dire “grazie” facendosi carico delle ferite degli altri: guarito dalla tubercolosi, ha dedicato tutta la sua vita a prendersi cura dei malati con amore e tenerezza.
2. La fede cristiana ci chiede sempre di camminare insieme agli altri, di uscire da noi stessi verso Dio e i nostri fratelli e sorelle. E di saper ringraziare, superando l’insoddisfazione e l’indifferenza che imbruttiscono il nostro cuore.

Papa Francesco, parlando di Zatti, insiste sul “camminare insieme”, ossia condividere e unirsi attraverso l’amore per aiutare coloro che soffrono. Zatti ha dedicato tutta la sua vita a servire i più svantaggiati, utilizzando la sua bicicletta come mezzo di trasporto per recarsi nei quartieri poveri della città e aiutare i malati. La sua bicicletta divenne così un potente simbolo dei valori che condivideva: umiltà, generosità e semplicità.
Infatti, Zatti non mostrava particolare interesse nel possedere un’auto o persino un motorino quando i suoi amici volevano regalargliene uno. La bicicletta era tutto ciò di cui aveva bisogno per raggiungere il suo nobile obiettivo: aiutare le persone più bisognose di sostegno. La scelta del mezzo di trasporto rifletteva anche un’altra caratteristica intrinseca della sua personalità: l’amore incondizionato che distribuiva senza restrizioni o condizioni a coloro che non avevano la fortuna di ricevere altrettanto, semplicemente perché le loro circostanze sociali o finanziarie non glielo permettevano.
Ogni gesto di Zatti risuonava profondamente con tutti, invitando tutti a seguire il suo esempio. Camminare insieme significa essere disponibili psicologicamente e fisicamente, in modo che ogni persona possa sentirsi sostenuta da chi la circonda, ma soprattutto servire gli altri con gentilezza e compassione, come lui stesso si è preso cura di loro per tanti anni. Queste azioni sono un riflesso concreto del messaggio delineato da papa Francesco sul “camminare insieme”: raggiungere coloro che soffrono per prevedere collettivamente un miglioramento generale del benessere della comunità attraverso un atteggiamento generale di maggiore solidarietà e calore verso gli altri nella nostra vita quotidiana.

3. La nostra missione di accompagnamento e sinodalità

Questa storia tratta dal Libro di Tobith è un esempio eccellente dell’importanza e del ruolo cruciale che l’accompagnamento, la sinodalità e la solidarietà svolgono nella nostra missione comune di servizio agli altri.
Raffaele accompagnò Tobia durante tutto il suo viaggio, compresi gli incidenti, adattandosi a ogni situazione e prendendosi il tempo per rispondere alle sue domande, assistere i suoi compagni e aiutare coloro che stavano soffrendo. Il suo ruolo era quello di incoraggiare, incitare e spingere Tobia ad affrontare le sfide che gli si paravano davanti, affinché potesse raggiungere la sua destinazione. Ma ha fatto di più: gli ha anche fornito un aiuto pratico nelle situazioni in cui era impotente contro le forze invisibili che lo controllavano.

Inoltre, Raffaele non ha lavorato da solo durante il viaggio; ha lavorato fianco a fianco con Tobia per trovare soluzioni adatte alle circostanze. Ha capito che per essere efficace, doveva ascoltare le richieste del giovane, rispettare il suo stile di leadership personale e creare un sistema di cooperazione tra loro per raggiungere l’obiettivo finale che condividevano: sconfiggere Asmodeus e guarire suo padre.
Raffaele e Tobia ci insegnano che per fornire un coaching reale, utile, conveniente e soddisfacente, dobbiamo essere attenti alle esigenze degli altri, uscire dalla nostra zona di comfort se necessario, ascoltare attivamente ciò che hanno da dire, mostrare empatia, ma soprattutto lavorare insieme in modo che ognuno di noi possa contribuire, in base alle proprie capacità specifiche, al raggiungimento degli obiettivi comuni che tutti condividiamo. Questo apprendimento è più che mai attuale, perché senza la collaborazione tra persone con obiettivi comuni, la missione sarà compromessa.

4. Una vocazione “medica” e pastorale
Raffaele, che significa “Dio guarisce”, è conosciuto come uno degli arcangeli della Bibbia, spesso associato alla guarigione e alla protezione. Allo stesso modo, Zatti era considerato un guaritore e un protettore dei malati e dei poveri della sua comunità. Ma questa terapia si svolgeva su diversi livelli. L’amore di Zatti per la povertà, il suo distacco dalle cose materiali e la sua disponibilità ad accettare e persino a mendicare ciò che riteneva necessario per il benessere dei suoi pazienti, sono alcuni dei tratti che lo fanno assomigliare a Gesù, che in realtà era un rabbino e guaritore laico. Era sempre disponibile a qualsiasi ora del giorno e della notte e con qualsiasi tempo, e viaggiava sui vecchi carretti di legno dei contadini se lo incontravano mentre si recava a casa di un paziente. Era anche umile e aveva una bassa opinione di sé, nonostante gli sforzi dei suoi benefattori per elevarlo ai suoi stessi occhi e agli occhi del mondo. La forte vita interiore del Santo Coadiutore, piena di amore per Dio e di fiducia totale nella bontà della divina provvidenza, la sua confessione regolare e il suo amore per il Santissimo Sacramento lo rendevano simile a don Bosco. Spesso leggeva brani della vita dei santi ai malati e, alla fine della giornata, dava loro un piccolo biglietto per la sera. Il buon umore di Zatti si basava anche sulle solide fondamenta della sua vita spirituale e consacrata, e mostrava sempre allegria e buona volontà nell’adempimento dei suoi doveri verso i malati e gli sfortunati. Era anche un pacificatore, aiutando a risolvere i conflitti tra i membri del suo staff e i medici di Viedma e della Patagonia. Queste caratteristiche del nostro santo Coadiutore vengono qui evidenziate perché sono anche un potente antidoto contro i nemici dei nostri tre voti, contro l’indifferenza e la pigrizia pastorale, contro l’attuale allontanamento tra i destinatari e noi stessi, e la strada reale che ci porta lontano dal carrierismo, che si traveste da clericalismo nel mondo religioso.
Alla scuola dell’angelo Raffaele e Zatti, scopriamo che anche noi, salesiani di don Bosco, siamo portatori della Buona Novella, che spesso consiste, come Gesù annunciò nella sinagoga (Luca 4), nel guarire e restaurare. Questa funzione “medica” è una parte importante della nostra missione di servire i giovani e i poveri. E se la “malattia”, come la povertà, può assumere diversi volti, noi Salesiani in generale, e i Salesiani Coadiutori in particolare, siamo noti per le nostre varie lotte contro i mali e le varie forme di precarietà, da cui deriva il nostro immenso lavoro nelle scuole, negli orfanotrofi, negli ospedali, negli oratori e nelle officine e laboratori dei nostri centri di formazione professionale e istituti tecnici. Inoltre, nella nostra Regione, come nella Congregazione, diverse Ispettorie, opere e membri della Famiglia Salesiana sono coinvolti in attività direttamente collegate alla salute, tra cui ospedali, cliniche e centri di assistenza agli anziani. La salute è vista come un aspetto importante del benessere dei giovani e dei poveri, e cerchiamo, con don Variara, con Zatti e altri, di rispondere alle loro esigenze in modo totale e olistico.
Oggi, abbiamo bisogno di una generazione di Salesiani sufficientemente radicati nel cielo, come Raffaele, e profondamente legati alle sfide della terra, come Azarias (il soprannome dell’angelo Raffaele), per preoccuparsi di conciliare il bene temporale con quello dell’eternità, lottando contro tutte le forme di malattia e in difesa della salute, soprattutto quelle che colpiscono i più vulnerabili della nostra società. Abbiamo bisogno di angeli e compagni che possano alleviare le nostre malattie fisiche, mentali ed emotive, così come i problemi di salute legati alla povertà, come la malnutrizione e l’accesso limitato all’assistenza sanitaria. Continuiamo a lavorare per soddisfare queste esigenze in modo efficace e olistico, fornendo un’assistenza sanitaria di qualità e lavorando per migliorare la vita delle persone più vulnerabili.

5. Metafora del rapporto educativo e pastorale
Azarias illustra la perfetta relazione educativa tra il coadiutore salesiano e i Tobia o giovani di oggi. Soprattutto se sappiamo che il soprannome Azarias significa in realtà assistente, ausiliario, coadiutore. Quindi, nello stesso modo in cui un angelo accompagnava un ragazzo verso la maturità, il coadiutore può e deve incoraggiare i giovani a crescere e maturare nelle relazioni con i loro coetanei, nelle cosiddette relazioni paritarie, ma anche nelle relazioni e nei doveri verso la famiglia e i genitori, e il mondo degli adulti in generale, nelle cosiddette relazioni asimmetriche. Ci incoraggia a rileggere questa meravigliosa storia tratta dal Libro di Tobith e a fare nostri i saggi consigli dell’anziano Tobith al figlio e la lezione di vita e di religione che Azarias dà alla famiglia riconciliata, prima di tornare a Dio, cioè a colui che lo ha mandato. Questo è un dettaglio importante: andare e tornare da Dio, Colui che ci ha mandato, come quegli andirivieni sulla scala di Giacobbe, dove gli angeli fanno la spola tra cielo e terra, come per insegnare agli angeli di oggi l’unione con Dio e la predilezione per i poveri della terra.
Sant’Artemide Zatti ci mostra come possiamo assimilare perfettamente questo ruolo nella nostra vita quotidiana: dedicando la sua vita ad aiutare i più giovani e i più poveri, ha fatto molto di più che dispensare semplicemente insegnamenti morali. Ha guidato i giovani verso la crescita personale, riconoscendo le loro capacità interiori e mostrando loro come esprimerle. Ha anche dato l’esempio mostrando compassione per i malati e i poveri; dimostrando con le sue azioni che è possibile cambiare il mondo intorno a noi attraverso l’amore, il dono di sé e il sacrificio.
Il Fratello Salesiano può essere statisticamente una minoranza (in Africa il 9% nelle province più ricche). Eppure si trova in una posizione privilegiata per cogliere questo modello ammirevole, volando verso le periferie della missione con e come l’angelo custode, percorrendo i sentieri della dimensione terrena e secolare della vita, e “pedalando” con Zatti al capezzale dei bisognosi, in tutta umiltà e senza l’arroganza dei grandi mezzi e dell’arsenale di alcuni pastori di oggi. In questo modo, possono imitare la Guida celeste fornita da Dio nella storia di Tobia: motivare l’obbedienza gentile verso il padre anziano e cieco, avviarlo di fronte alle avversità del viaggio, nonché prendere coraggiosamente una decisione importante per il suo futuro, confidare in Dio nei momenti decisivi, in poche parole un coraggio impressionante e un’empatia profonda che permetteranno al ragazzo una crescita armoniosa che lo condurrà verso un’autonomia riflessiva, anche se i suoi genitori, anticipando nella loro ansia la parabola del figliol prodigo, lo aspettavano ogni giorno con preoccupazione. Ma il testo dice che il giovane Tobia conosceva il cuore di suo padre e la tenerezza preoccupata di sua madre.

Conclusione
“Io sono Raffaele, uno dei sette angeli presenti davanti alla gloria del Signore. Non abbiate paura! La pace sia con voi e benedite Dio per sempre. Non abbiate paura di ciò che avete visto, perché era solo un’apparenza. Benedite il Signore, festeggiatelo e scrivete ciò che vi è accaduto”.

Alla fine della storia, Raffaele si definisce come un sacramento della presenza di Dio con Tobia. Esattamente quello che fece e fu Gesù, quello che illustrò il nostro fondatore don Bosco e quello che ci raccomanda il Rettor Maggiore nella terza priorità di questo sessennio. Essere un segno dell’altrove, “come se anche noi potessimo vedere l’invisibile”. L’invisibile in ambienti che sono comunque molto visibili, nelle scuole, nella catechesi, nei laboratori o, come diceva don Rinaldi, nell’agricoltura, dove alcuni Confratelli sanno come coltivare e far fruttare la terra e la creazione. Il coadiutore salesiano è una delle due forme di vocazione consacrata salesiana, l’altra è il sacerdote salesiano. Secondo la CG21, non sono solo i singoli a diffondere il messaggio di don Bosco, ma le sue comunità composte da sacerdoti e laici, fraternamente e profondamente uniti tra loro, chiamati a “vivere e lavorare insieme” (C 49).

La presenza significativa e complementare di chierici e laici salesiani nella comunità è un elemento essenziale della sua fisionomia e della sua pienezza apostolica. Quest’anno, alla luce della Strenna del Rettor Maggiore, siamo nella posizione ideale per ribadire che il coadiutore salesiano non è un laico come gli altri fedeli laici della Chiesa. È un religioso consacrato. Naturalmente, la sua vocazione conserva fortunatamente un legame reale con il concetto di laicità e lo esalta solo nelle sue espressioni più belle. In questo senso, questo secondo Congresso Regionale può legittimamente considerare ciascuno dei nostri Confratelli salesiani come quell’angelo, quell’arcangelo descritto nel libro di Tobith, che sta incessantemente davanti al volto di Dio e che percorre le strade del mondo, volando in aiuto di coloro che sono nel bisogno o in cammino, e portandoli alla lode e al ringraziamento. Ogni Confratello è quindi invitato a contemplare Raffaele che, in una mirabile kenosi, rinuncia al suo rango angelico e scende a percorrere le strade polverose per accompagnare Tobia nel cammino di iniziazione all’età adulta. Questa metafora invita il Fratello salesiano ad accompagnare i giovani di oggi verso la piena cittadinanza come cittadini e credenti, come voleva il nostro fondatore: amore per i genitori (Raffaele esorta Tobia ad obbedire a suo padre), impegno sociale (Raffaele aiuta Tobia e supervisiona le operazioni miracolose per i malati, castità e amore per sposare Sara, e lealtà per diventare l’erede di suo padre e di suo suocero Raguel) e servizio divino (Raffaele si proclama inviato direttamente da Dio e dà consigli per onorare e lodare Dio e amare il prossimo).
Come i messaggeri biblici (angeli) e gli apostoli nella storia della Chiesa, i Confratelli salesiani sono chiamati a essere disponibili, a servire l’unità e l’identità salesiana e la pienezza apostolica, partecipando attivamente alla vita e al governo della Congregazione. Accanto ai loro confratelli diaconi e sacerdoti, accompagnano i giovani – e altri confratelli – nella loro consacrazione e nei loro impegni educativi, integrando e celebrando la diversità all’interno della comunità salesiana. I Confratelli, ben dotati, formati e identificati, sono dei pilastri per i giovani nei loro percorsi di vita, spesso complicati e difficili, proprio come l’Arcangelo Raffaele, alias Azarias, è stato un pilastro, un riferimento sociale e spirituale per Tobia, che ha potuto così compiere la sua missione di figlio e futuro padre. Il lungo cammino di iniziazione dei nostri giovani dall’Africa all’età adulta è già fruttuoso e lo sarà ancora di più se saranno accompagnati da figure significative e persone fidate come Azarias, veri angeli custodi, compagni di Emmaus, capaci – come nelle nostre case di formazione e nelle nostre istituzioni – di educare, formare e accompagnare. Oltre a servire l’unità, l’identità salesiana e la pienezza apostolica all’interno della Congregazione salesiana con tutti i loro talenti, i Confratelli salesiani svolgono un ruolo molto importante come guide e mentori per i giovani che stanno ancora cercando il loro posto nel mondo: una figura simile a Zatti o a Raffaele che può essere vista come un genitore spirituale.




San Francesco di Sales. La presenza di Maria (8/8)

(continuazione dall’articolo precedente)

LA PRESENZA DI MARIA, IN SAN FRANCESCO DI SALES (8/8)

Le prime notizie che abbiamo sulla devozione a Maria nella famiglia di Sales si riferiscono alla mamma, la giovane Francesca de Sionnaz, devota della Vergine, fedele alla preghiera del Rosario. L’amore a questa pia pratica passa nel figlio, che ragazzino ad Annecy si iscrive alla Confraternita del Rosario, impegnandosi a recitarlo tutto o in parte ogni giorno. La fedeltà allo chapelet lo accompagnerà tutta la vita.

La devozione alla Vergine continua negli anni parigini. Entrò nella Congregazione di Maria, che riuniva l’élite spirituale degli studenti del loro collegio.

C’è poi la crisi spirituale che irrompe alla fine del 1586: per varie settimane non mangia, non dorme, si dispera. Ha in testa l’idea di essere abbandonato dall’amore di Dio e di “non poter mai più vedere il vostro dolcissimo volto”. Finché un giorno di gennaio 1587, di ritorno dal collegio, entra nella chiesa di Saint-Etienne-des-Grès e davanti alla Vergine compie un atto di abbandono: recita la Salve Regina e viene liberato dalla tentazione e riacquista la serenità.

La preghiera e la devozione alla Madre di Dio continuano certamente negli anni di Padova: avrà affidato a Lei la sua vocazione al sacerdozio…

Il 18 dicembre 1593 è ordinato sacerdote e sicuramente avrà celebrato qualche messa nella chiesa di Annecy, dedicata a Notre Dame de Liesse (Nostra Signora della Gioia), per ringraziare Colei che l’aveva preso e condotto per mano durante quei lunghi anni di studio.

Passano gli anni e arriviamo all’agosto del 1603 Francesco riceve la lettera-invito da parte dell’arcivescovo di Bourges a predicare la prossima quaresima a Digione.
“La nostra Congregazione è frutto del viaggio a Digione” scriverà all’amico P. Pollien.”

Sarà proprio durante questo quaresimale, iniziato il 5 marzo 1604, che Francesco incontrerà la baronessa Giovanna Frémyot di Chantal. Inizierà un cammino verso Dio alla ricerca della Sua volontà, un cammino che durerà sei anni e che si concluderà il 6 giugno 1610, giorno in cui nasce la Visitazione con l’ingresso in noviziato di Giovanna e di altre due donne.
“La nostra piccola Congregazione è davvero un’opera del Cuore di Gesù e di Maria” e dopo poco tempo aggiunge fiducioso: “Dio ha cura delle sue serve e la Madonna provvede loro il necessario”.
Le sue Figlie si sarebbero chiamate Religiose della Visitazione di Santa Maria.

A quattrocento anni dalla fondazione, il monastero della Visitazione di Parigi scrive che l’Ordine non ha mai smesso di attingere in questa scena del Vangelo tutto il meglio della propria spiritualità.
“Contemplazione e lode del Signore, unite al servizio del prossimo; spirito di ringraziamento e umiltà del Magnificat; povertà reale che si getta con confidenza infinita nella bontà del Padre; disponibilità allo Spirito; ardore missionario per rivelare la presenza del Cristo; gioia nel Signore; Maria che custodisce fedelmente tutte queste cose nel suo cuore”.

Giovanna di Chantal così sintetizza lo spirito salesiano: “uno spirito di profonda umiltà verso Dio e di una grande dolcezza verso il prossimo” che sono appunto le virtù che immediatamente nascono dalla contemplazione vissuta del mistero della Visitazione.

Nel Trattenimento sullo spirito di semplicità, Francesco alle sue Visitandine dice:
“Dobbiamo avere una fiducia totalmente semplice, che ci faccia rimanere quiete nelle braccia del nostro Padre e della nostra cara Madre, sicure che Nostro Signore e la Madonna, nostra cara Madre, ci proteggeranno sempre con la loro cura e materna tenerezza”.
La Visitazione è il monumento vivente dell’amore di Francesco alla Madre di Gesù.

L’amico, monsignore J.P. Camus, così riassume l’amore alla Vergine di Francesco:
“Fu veramente grande la sua devozione alla Madre dello splendido amore, della scienza, dell’amore casto e della santa speranza. Sin dalla sua tenera età si dedicò a onorarla”.

Nelle lettere la presenza di Maria è come il lievito nella pasta: discreta, silenziosa, attiva ed efficace. Non mancano preghiere composte da Francesco stesso.

L’8 dicembre (!) 1621 ne invia una ad una visitandina:
“La gloriosissima Vergine, voglia colmarci del suo amore, affinché insieme, voi e io, che abbiamo avuto la fortuna d’essere chiamati e imbarcati sotto la sua protezione e nel suo nome, compiamo santamente la nostra navigazione in umile purità e semplicità, in modo che un giorno ci possiamo trovare nel porto della salvezza, che è il Paradiso”.

Quando scrive lettere a ridosso di qualche festa mariana, non perde occasione per farvi cenno o prendervi spunto per una riflessione. Così,
– per l’Assunzione di Maria al cielo: “Questa santa Vergine, con le sue preghiere, voglia farci vivere in questo santo amore! Che esso sia sempre l’unico oggetto del nostro cuore.
– per l’Annunciazione: è il giorno “del saluto più fortunato che sia mai stato rivolto a una persona. Io supplico questa gloriosa Vergine a volervi concedere un po’ della consolazione che essa ricevette”

Chi è Maria per Francesco?

a. È la Madre di Dio
Non solo Madre, ma anche… nonna!
“Onora, riverisci e rispetta con un amore speciale la santa e gloriosa Vergine Maria: ella è Madre del nostro Padre sovrano e perciò anche nostra cara nonna. Ricorriamo a Lei quali nipotini, gettiamoci sulle sue ginocchia con assoluta fiducia; in ogni momento, in ogni circostanza, facciamo appello a questa dolce Madre, invochiamo il suo amore materno e, facendo ogni sforzo per imitare le sue virtù, abbiamo per Lei un sincero cuore di figli”.

Ci porta a Gesù: “Fate tutto quello che Lui vi dirà!”
“Se vogliamo che Nostra Signora chieda a suo Figlio di cambiare l’acqua della nostra tiepidezza nel vino del suo amore, bisogna che facciamo tutto quello che Lui ci dirà. Facciamo bene quello che il Salvatore ci dirà, riempiamo bene i nostri cuori dell’acqua della penitenza e ci verrà cambiata questa acqua tiepida in vino di amore fervente”.

b. È il modello che dobbiamo imitare
Nell’ascoltare la Parola di Dio.
“Accoglila nel tuo cuore come un unguento prezioso, seguendo l’esempio della Santissima Vergine, che conservava con cura nel proprio, tutte le lodi dette in onore del Figlio”.

Modello nel vivere in umiltà.
“La Santissima Vergine, Nostra Signora, ci ha dato un esempio notevolissimo di umiltà quando ha pronunciato queste parole: Ecco la serva del Signore, si faccia di me secondo la tua parola; dicendo che è la serva del Signore, esprime l’atto di umiltà più grande che si possa fare e immediatamente compie un atto di generosità eccellentissima, dicendo: Si faccia di me secondo la tua parola”.

Modello nel vivere una santità comune.
“Se si vuole essere santi di una vera santità, bisogna che sia comune, quotidiana, feriale come quella di Nostro Signore e della Madonna”

Modello nel vivere nella serenità:
“Se vi sentite eccessivamente preoccupata, rasserenate la vostra anima e cercate di ridarle la tranquillità. Immaginate come la Vergine lavorava tranquillamente con una mano, mentre con l’altra teneva nostro Signore, durante la sua infanzia: lo teneva su un braccio, non distogliendo mai da Lui il suo sguardo”.

Modello nel donarci a Dio per tempo:
“Oh quanto sono felici le anime che, a imitazione di questa santa Vergine, si consacrano come primizie, fin dalla loro giovinezza, al servizio di Nostro Signore”.

c. È la forza nella sofferenza
Il marito della signora di Granieu soffre attacchi di gotta molto dolorosi.
Francesco partecipa alla sofferenza di un signore e aggiunge:
“Un dolore che la nostra santissima Signora e Badessa (è la Vergine Maria) vi può alleviare assai, conducendovi sul monte Calvario, dove tiene il noviziato del suo monastero, insegnando non solo a soffrire bene, ma a soffrire con amore tutto quello che avviene sia per noi sia per i nostri cari”.

Concludo con questo splendido passo che sottolinea il legame che unisce Maria e il credente ogni volta che si accosta all’Eucaristia:
“Volete diventare parenti della Vergine Maria? Comunicatevi! Infatti ricevendo il Santo Sacramento voi ricevete la carne della sua carne e il sangue del suo sangue, dal momento che il prezioso corpo del Salvatore, che è nella divina Eucaristia, è stato fatto e formato con il suo sangue purissimo e con la collaborazione dello Spirito Santo. Non potendo essere parenti della Madonna allo stesso modo di Elisabetta, siatelo imitando le sue virtù e la sua vita santa”.