Il cuore d’oro dell’educazione

Perché la devozione al Sacro Cuore di Gesù fa parte del DNA della Congregazione Salesiana.

Una gran bella chiesa che è costata “sangue e lacrime” a Don Bosco, che, già consumato dalla fatica, spese le sue ultime energie e anni nella costruzione di questo tempio richiesto dal Papa.
È un luogo caro a tutti i Salesiani anche per tanti altri motivi.

La statua dorata del campanile, per esempio, è un segno di riconoscenza: è stata donata dagli ex allievi argentini per ringraziare i Salesiani perché erano venuti nella loro Terra.
Anche perché in una lettera del 1883, don Bosco ha scritto la frase memorabile: «Ricordatevi che l’educazione è cosa di cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne dà in mano le chiavi». La lettera terminava così: «Pregate per me, e credetemi sempre nel SS. Cuore di Gesù».
Perché la devozione al Sacro Cuore di Gesù fa parte del DNA salesiano.
La festa del Sacro Cuore di Gesù vuole incoraggiarci ad avere un cuore vulnerabile. Soltanto un cuore che può essere ferito è in grado di amare. Così, in questa festa, contempliamo il cuore aperto di Gesù per aprire anche i nostri cuori all’amore. Il cuore è il simbolo ancestrale dell’amore e molti artisti hanno dipinto la ferita al cuore di Gesù con l’oro. Dal cuore aperto si irraggia verso di noi il fulgore dorato dell’amore, e la doratura ci mostra inoltre che le nostre fatiche e le nostre ferite possono tramutarsi in qualcosa di prezioso.
Ogni tempio e ogni devozione al Sacro Cuore di Gesù parla dell’Amore di quel cuore divino, il cuore del Figlio di Dio, per ciascuno dei suoi figli e figlie di questa umanità. E parla di dolore, parla di un amore di Dio che non sempre viene ricambiato. Oggi aggiungo un altro aspetto.

La statua del Gesù benedicente che svetta sul campanile della Basilica del Sacro Cuore di Roma

Penso che parli anche del dolore di questo Gesù Signore di fronte alla sofferenza di molte persone, allo scarto di altre, all’immigrazione di altre persone senza un orizzonte, alla solitudine, alla violenza che molte persone subiscono.
Penso che si possa dire che parla di tutto questo, e allo stesso tempo benedice, senza dubbio, tutto ciò che viene fatto a favore degli ultimi, cioè la stessa cosa che faceva Gesù quando percorreva le strade della Giudea e della Galilea.
Per questo è un bel segno che la Casa del Sacro Cuore sia ora la sede centrale della Congregazione.

Tanti cuori d’argento
Una di queste realtà gioiose che indubbiamente allietano il “Cuore di Dio stesso” è quella che ho potuto constatare di persona, ovvero ciò che si sta facendo presso la Fondazione salesiana Don Bosco nelle isole di Tenerife e Gran Canaria. La scorsa settimana sono stato lì e, tra le tante cose che ho vissuto, ho potuto vedere i 140 educatori che lavorano nei vari progetti della Fondazione (accoglienza, alloggio, formazione al lavoro e successivo inserimento lavorativo). E poi ho incontrato un altro centinaio di adolescenti e giovani che usufruiscono di questo servizio di Don Bosco per gli ultimi. Al termine del nostro prezioso incontro, mi hanno fatto un regalo.
Mi sono commosso perché nel lontano 1849 due ragazzini, Carlo Gastini e Felice Reviglio, avevano avuto la stessa idea e, in gran segreto, risparmiando sul cibo e conservando gelosamente le loro piccole mance, erano riusciti a comperare un regalo per l’onomastico di don Bosco. La notte di San Giovanni erano andati a bussare alla porta della camera di don Bosco. Pensate la sua meraviglia e commozione nel vedersi presentare due piccoli cuori d’argento, accompagnati da poche impacciatissime parole.
Il cuore dei ragazzi è sempre lo stesso e anche oggi, nelle Canarie, in una piccola scatola di cartone a forma di cuore, hanno messo più di cento cuori con i nomi di Nain, Rocio, Armiche, Mustapha, Xousef, Ainoha, Desiree, Abdjalil, Beatrice e Ibrahim, Yone e Mohamed e cento altri, esprimendo semplicemente qualcosa che veniva dal cuore; cose sincere di grande valore come queste:
–  Grazie per aver reso possibile tutto questo.
–  Grazie per la seconda possibilità che mi hai dato nella vita.
–  Continuo a lottare. Con te è più facile.
–  Grazie perché mi hai ridato la gioia.
–  Grazie per avermi aiutato a credere che posso fare tutto ciò che mi prefiggo.
–  Grazie per il cibo e la casa.
–  Grazie dal profondo del mio cuore.
–  Grazie per avermi aiutato.
–  Grazie per questa opportunità di crescita.
–  Grazie per aver creduto in noi giovani nonostante la nostra situazione…
E centinaia di espressioni simili, rivolte a don Bosco e agli educatori che in nome di don Bosco sono con loro ogni giorno.
Ho ascoltato quello che hanno condiviso con me, ho sentito alcune delle loro storie (molte delle quali piene di dolore); ho visto i loro sguardi e i loro sorrisi; e mi sono sentito molto orgoglioso di essere un salesiano e di appartenere a una famiglia di fratelli, educatori, educatrici e giovani così splendidi.
Ho pensato, ancora una volta, che don Bosco è più attuale e necessario che mai; e ho pensato alla finezza educativa con cui accompagniamo tanti giovani con grande rispetto e sensibilità per i loro sogni.
Abbiamo recitato insieme una preghiera rivolta al Dio che ci ama tutti, al Dio che benedice i suoi figli e le sue figlie. Una preghiera che ha fatto sentire a proprio agio cristiani, musulmani e indù. In quel momento senza alcun dubbio lo Spirito di Dio ci abbracciava tutti.
Ero felice perché, come don Bosco a Valdocco accoglieva i suoi primi ragazzi, oggi, in tanti Valdocco nel mondo, sta accadendo la stessa cosa.
Quando parliamo dell’amore di Dio, per molti è un concetto troppo astratto. Nel Sacro Cuore di Gesù l’amore di Dio per noi è diventato concreto, visibile e percettibile. Per noi Dio ha preso un cuore umano, nel cuore di Gesù ci ha aperto il suo cuore. Così, attraverso Gesù, possiamo portare i nostri destinatari al cuore di Dio.




Storia della costruzione della chiesa di Maria Ausiliatrice (3/3)

(continuazione dall’articolo precedente)

Sempre in azione
Ma la Provvidenza bisogna anche “cercarla”. Ed ecco don Bosco in agosto tornare a scrivere al conte Cibrario, Segretario dell’Ordine Mauriziano, per ricordargli che era giunto il tempo di onorare la seconda parte dell’impegno economico assunto due anni prima. Da Genova per fortuna gli arrivano cospicue offerte da parte del conte Pallavicini e dei conti Viancino di Viancino; altre offerte gli pervengono in settembre dalla contessa Callori di Vignale e così da altre città, Roma e Firenze in particolare.
Arriva però presto un inverno freddissimo, con il conseguente incremento dei prezzi al consumo, pane compreso. Don Bosco va in crisi di liquidità. Fra lo sfamare centinaia di bocche e il sospendere i lavori edilizi, la scelta è obbligata. I lavori per la chiesa dunque ristagnano, mentre i debiti crescono. Il 4 dicembre don Bosco prende allora carta e penna (d’oca) e scrive a Roma al solito cavalier Oreglia: “Raccolga molti danari, poi ritorni, ché non sappiamo più dove prenderne. È vero che la Madonna fa sempre la sua parte, ma in fine dell’anno tutti i provveditori domandano denaro”. Splendido!

9 giugno 1868: solennissima consacrazione della chiesa di Maria Ausiliatrice
Nel gennaio 1868 don Bosco si diede da fare per completare l’arredamento interno della chiesa di Maria Ausiliatrice.
A Valdocco la situazione si presentava comunque piuttosto seria. Scriveva don Bosco a Roma al cav. Oreglia: “Qui continuiamo con un freddo molto intenso: oggi toccò 18 gradi sotto zero; malgrado il fuoco della stufa il ghiaccio in mia camera non poté fondere.

Abbiamo ritardato la levata dei giovani, e siccome la maggior parte è vestita ancora da estate, così ciascuno si pose in dosso due camicie, giubba, corpetto, due paia di calzoni, cappotti militari; altri si tengono le coperte del letto sulle spalle lungo la giornata e sembrano proprio tante mascherate da carnevale”.
Fortunatamente una settimana dopo il freddo diminuì ed il metro di neve cominciò a sciogliersi.
Intanto a Roma si stava preparando la medaglia commemorativa. Don Bosco, avutala in mano, fece fare delle correzioni nella scritta e dimezzare lo spessore onde risparmiare. Il pur tanto denaro raccolto era sempre inferiore al bisogno. Così la colletta per la cappella di S. Anna promossa dalle nobildonne fiorentine, in particolare dalla contessa Virginia Cambray Digny, moglie del ministro di Agricoltura, Finanza e Commercio, a metà febbraio era ancora ad un sesto del totale (6000 lire). Don Bosco comunque non disperò e invitò la contessa a Torino: “Spero che Ella in qualche occasione potrà farci una visita ed osservare co’ propri occhi questo per noi maestoso edifizio, di cui si può dire che ogni mattone è una offerta fatta da quanti ora vicini ora lontani ma sempre per grazia ricevuta”.
E così era veramente, se ad inizio primavera lo ripeté al solito cavaliere (e lo avrebbe stampato poco dopo nel libro commemorativo Maraviglia della madre di Dio invocata sotto il titolo di Maria Ausiliatrice): “Io sono ingolfato nelle spese, note molte da saldare, tutti i lavori da ripigliare; faccia quel che può ma preghi con fede. Credo tempo opportuno per chi vuole grazia da Maria! Noi ne vediamo ogni giorno una”.

Altare iniziale della chiesa di Maria Ausiliatrice

I preparativi della festa
A metà di marzo l’arcivescovo Riccardi fissò la consacrazione della chiesa per la prima quindicina di giugno. Tutto era ormai pronto: i due campanili della facciata sormontata da due arcangeli, la grande statua dorata sulla cupola già benedetta dall’arcivescovo, i cinque altari di marmo con i rispettivi quadri, fra cui quello meraviglioso di Maria Ausiliatrice con il bambino in braccio, circondata da angeli, apostoli, evangelisti, in un tripudio di luce e colori.
Scattò allora un piano eccezionale per la preparazione. Anzitutto si trattava di trovare il vescovo consacrante; poi di contattare vari vescovi per le solenni celebrazioni della mattina e della sera di ogni giorno dell’ottavario; inoltre di diramare gli inviti personali a decine di insigni benefattori, sacerdoti e laici di tutta Italia, molti dei quali da degnamente ospitare in casa; infine di preparare centinaia di ragazzi sia a solennizzare con canti i pontificali e le cerimonie liturgiche, sia a partecipare ad accademie, giochi, sfilate, momenti di gioia ed allegria.

Finalmente il gran giorno

Tre giorni prima del 9 giugno, a Valdocco arrivarono i ragazzi del collegio di Lanzo. Domenica 7 giugno “L’Unità Cattolica” pubblicò il programma delle celebrazioni, lunedì 8 giugno giunsero i primi invitati e si annunciò la venuta del duca d’Aosta in rappresentanza della Famiglia Reale. Arrivarono pure i ragazzi del collegio di Mirabello. Ecco allora i cantori passare ore ed ore a fare le prove della nuova Messa del maestro De Vecchi e del nuovo Tantum ergo di don Cagliero nonché della solennissima antifona Maria succurre miseris dello stesso Cagliero che si era ispirato al polifonico Tu es Petrus della basilica vaticana.
Il mattino seguente, 9 giugno alle 5,30 passando tra una duplice fila di 1200 ragazzi festosi e canterini, l’arcivescovo compì il triplice giro attorno alla chiesa e poi con il clero entrò nella chiesa per compiere a porte chiuse le previste cerimonie di consacrazione degli altari. Solo alle 10,30 la chiesa venne spalancata al pubblico che assistette alla messa dell’arcivescovo e a quella successiva di don Bosco. L’arcivescovo ritornò di pomeriggio per i vespri pontificali, solennizzati dal triplice coro dei cantori: 150 tenori e bassi ai piedi dell’altare di S. Giuseppe, 200 soprani e contralti sulla cupola, altri 100 tenori e bassi sul posto dell’orchestra. Don Cagliero li diresse, anche senza vederli tutti, attraverso un marchingegno elettrico studiato per l’occasione.

La vecchia sacrestia della chiesa di Maria Ausiliatrice

Fu un trionfo di musica sacra, un incantesimo, un qualcosa di paradisiaco. Indescrivibile fu la commozione dei presenti, che all’uscita della chiesa poterono pure ammirare l’illuminazione esterna della facciata e della cupola sormontata dalla statua di Maria Ausiliatrice pure illuminata.
E don Bosco? Tutto il giorno circondato da una folla di benefattori ed amici, commosso oltre ogni dire, non fece altro che lodare la Madonna. Un sogno “impossibile” si era realizzato.

Un ottavario altrettanto solenne
Celebrazioni solenni si alternarono mattina e sera lungo l’ottavario. Furono giornate indimenticabili, le più solenni che Valdocco avesse mai visto. Non per nulla don Bosco se ne fece propagatore subito con la robusta pubblicazione “Rimembranza di una solennità in onore di Maria Ausiliatrice”.
Il 17 giugno a Valdocco tornò un po’ di pace, i ragazzi ospitati tornarono ai loro collegi, i devoti alle loro case; la chiesa mancava ancora di rifiniture interne, di ornamenti, suppellettili… Ma la devozione all’Ausiliatrice dei Cristiani, ormai diventata la “Madonna di don Bosco” gli sfuggì rapidamente di mano e dilagò per il Piemonte, l’Italia, l’Europa, l’America Latina. Oggi nel mondo si contano a centinaia le chiese a lei dedicate, a migliaia i suoi altari, a milioni i quadretti e le immaginette. Don Bosco ripete a tutti oggi, come a don Cagliero in partenza per le missioni nel novembre 1875: “Confidate ogni cosa in Gesù Cristo Sacramentato ed in Maria Ausiliatrice e vedrete che cosa sono i miracoli”.




San Paolo VI. Il papa più salesiano

Papa Montini ha conosciuto da vicino i salesiani, li ha apprezzati, li ha sempre incoraggiati e sostenuti nella loro missione educativa. Altri papi prima di lui, e dopo di lui, hanno dato grandi segni di affetto alla Società salesiana. Ne ricordiamo alcuni.

I due Papi all’origine e allo sviluppo dell’opera salesiana
Due sono stati i Papi con cui don Bosco ebbe direttamente a che fare. Anzitutto il beato Pio IX, il Papa che egli sostenne in momenti tragici per la Chiesa, di cui difese l’autorità, i diritti, il prestigio, tanto da essere qualificato dagli avversari come “il Garibaldi del Vaticano”. Ne fu ricambiato con numerose ed affettuose udienze private, molte concessioni ed indulti. Lo sostenne pure economicamente. Durante il suo pontificato furono approvate la Società salesiana, le sue costituzioni, l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (FMA), la Pia Unione dei Cooperatori salesiani, l’Associazione dei devoti di Maria Ausiliatrice. Si autonominò protettore della Società.
Gli successe papa Leone XIII che a sua volta accettò di essere il primo Cooperatore salesiano, trattò don Bosco con insolita cordialità e gli concesse i privilegi che erano ormai indispensabili per il rapido e prodigioso sviluppo della Congregazione. Eresse il primo Vicariato Apostolico affidato ai Salesiani, nominando il primo vescovo nella persona di monsignor Giovanni Cagliero nel 1883. Nella prima udienza a don Rua dopo la morte di don Bosco, gli fu largo di consigli per il consolidamento della Società salesiana.

I due (futuri) Papi che sedettero alla mensa di don Bosco
San Pio X da semplice canonico s’incontrò con don Bosco a Torino nel 1875, sedette alla sua mensa e si fece iscrivere fra i Cooperatori salesiani. Se ne partì altamente edificato. Da vescovo e patriarca di Venezia diede prove di benevolenza verso la Società Salesiana. Nel 1907 firmò il decreto d’introduzione del processo apostolico di don Bosco e nel 1914 quello per san Domenico Savio. Nel 1908 nominò monsignor Cagliero delegato apostolico nel Centro America. È il primo cooperatore salesiano elevato all’onore degli altari.
Pure Pio XI, da giovane sacerdote nel 1883 andò a far visita a don Bosco all’Oratorio, fermandosi colà due giorni. Sedette alla mensa di don Bosco e se ne partì pieno di profondi e soavi ricordi. Non risparmiò mezzo per promuovere rapidamente il processo apostolico di don Bosco, per la cui canonizzazione volle stabilire nientemeno che il giorno di Pasqua del 1934, chiusura dell’Anno Santo. Grazie a lui la causa di Domenico Savio superò difficoltà, che parevano insuperabili: nel 1933 ne firmò il decreto dell’eroicità delle virtù; nel 1936 proclamò l’eroicità delle virtù di santa Maria Mazzarello, che beatificò il 20 novembre 1938. Altri segni di predilezione per la Società Salesiana furono la concessione dell’Indulgenza del lavoro santificato (1922) e l’elevazione alla porpora del cardinale polacco Augusto Hlond (1927).

Il papa più salesiano
Se Pio XI fu giustamente chiamato il “Papa di don Bosco”, forse altrettanto giustamente il “Papa più salesiano” per la conoscenza, stima ed affetto dimostrati alla società salesiana – senza voler con ciò sottovalutare altri Papi precedenti e successivi – è stato papa san Paolo VI. Il padre Giorgio, giornalista, era grande ammiratore di don Bosco (non ancora beato), di cui conservava nello studio un quadro con scritta autografa, sovente ammirato dal piccolo Giovanni Battista. Durante i suoi studi a Torino il giovane Montini aveva ondeggiato fra scegliere la vita benedettina conosciuta a San Bernardino di Chiari (diventata poi casa salesiana, lo è tuttora), e la vita salesiana. Pochi giorni dopo la sua ordinazione sacerdotale (Brescia 29 maggio 1920), chiese al vescovo, prima ancora di ricevere la destinazione pastorale, se poteva sceglierla lui. In tal caso avrebbe voluto andare con don Bosco. Il vescovo decise invece per gli studi a Roma. Ma ad un Montini “salesiano mancato” ne venne un altro. Pochi anni dopo quel colloquio, il cugino Luigi (1906-1963) gli espresse il desiderio di diventare pure lui sacerdote. Il futuro Papa, che lo conosceva bene, gli disse che per un temperamento dinamico e tumultuoso andava bene la vita salesiana e dunque si consigliasse con il famoso salesiano don Cojazzi. Il parere fu positivo e alla notizia don Giovanni fu così contento che il cugino prendesse il suo posto tanto da accompagnarlo lui stesso nell’aspirandato missionario salesiano di Ivrea. Sarà poi missionario per 17 anni in Cina e successivamente in Brasile fino alla morte. A completare la salesianità della famiglia Montini ci fu la presenza, per una decina di anni, nella casa salesiana del Colle Don Bosco di un fratello di Enrico, Luigi (1905­1973).
Non è necessario dire poi quanto monsignor Montini sia stato vicino ai salesiani nelle varie responsabilità assunte: ad esempio come Sostituto alla Segreteria di Stato o nel primissimo dopoguerra a Roma per l’incipiente opera del Borgo don Bosco per gli sciuscià, come arcivescovo di Milano a fine anni ’50 per la presa in consegna dell’opera dei barabitt di Arese, come Papa nel sostegno a tutta la Congregazione e la Famiglia salesiana, erigendo fra l’altro l’Università Pontificia Salesiana e la Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium delle FMA. Della sua immensa stima per l’opera salesiana, missionaria in particolare, ha parlato più volte in udienze private al Rettor Maggiore don Luigi Ricceri ed in udienze pubbliche. Famosa quella confidenzialissima concessa ai Capitolari del Capitolo Generale 20 il 20 dicembre 1971. Ovviamente in molti discorsi tenuti ai salesiani, di Milano in particolare, ha dimostrato una profonda conoscenza del carisma salesiano e delle sue potenzialità.




Storia della costruzione della chiesa di Maria Ausiliatrice (2/3)

(continuazione dall’articolo precedente)


La lotteria
L’autorizzazione venne concessa in tempi rapidissimi, per cui a Valdocco immediatamente si avviò la complessa macchina di raccolta e valutazione dei doni e di smercio dei biglietti: tutto come indicato nel piano di regolamento diffuso a mezzo stampa. Ad operare in prima persona per avere nominativi di personaggi di rilievo da inserire nel catalogo dei Promotori, per chiedere altri doni, per trovare acquirenti o “smerciatori” di biglietti della lotteria, fu il cav. Federico Oreglia di Santo Stefano, salesiano coadiutore. La lotteria venne ovviamente pubblicizzata sulla stampa cattolica della città, anche se solo dopo la chiusura, ai primi di giugno, di quella dei sordomuti.

I lavori continuano, le spese pure, i debiti anche
Il 4 giugno i lavori di muratura erano già due metri fuori dal suolo, ma il 2 luglio don Bosco fu costretto a ricorrere con urgenza ad un generoso benefattore, perché il capomastro Buzzetti potesse pagare la “quindicina agli operai” (8000 euro). Pochi giorni dopo nuovamente chiese ad un altro nobile benefattore se poteva impegnarsi a pagare lungo l’anno almeno qualcuno dei quattro lotti di tegole, assi ed assicelle per il tetto della chiesa, per un totale di spesa di circa 16 000 lire (64 000 euro). Il 17 luglio fu la volta di un sacerdote promotore della lotteria ad essere richiesto di pressante aiuto per poter pagare “un’altra quindicina per gli operai”: don Bosco gli propose di fargli avere il denaro con un immediato mutuo bancario, ovvero di prepararglielo per fine settimana quando lui stesso sarebbe andato a prenderlo o anche, meglio ancora, di portarglielo direttamente a Valdocco, dove avrebbe potuto vedere di persona la chiesa in costruzione. Insomma si navigava a vista ed il rischio di affondare per carenza di liquidità si rinnovava ogni mese.
Il 10 agosto mandò i moduli stampati alla contessa Virginia Cambray Digny, moglie del sindaco di Firenze, nuova capitale del Regno, invitandola a promuovere personalmente la lotteria. A fine mese una parte delle mura era già al tetto. E poco prima di Natale al marchese Angelo Nobili Vitelleschi di Firenze mandò 400 biglietti con preghiera di smerciarli fra le persone conosciute.
La ricerca di oggetti-dono per la lotteria di Valdocco e lo smercio dei relativi biglietti sarebbero proseguiti pure gli anni seguenti. Le circolari di don Bosco si sarebbero diffuse soprattutto al centro nord del Paese. Pure i benefattori di Roma, il papa in persona, avrebbe fatto la sua parte. Ma perché avrebbero dovuto impegnarsi a smerciare biglietti della lotteria per costruire una chiesa che non era la loro, per di più in una città che aveva appena cessato di essere capitale del Regno (gennaio 1865)?
Le motivazioni potevano essere varie, fra cui evidentemente quella di vincere qualche bel premio; ma di certo una fra le maggiori era di indole spirituale: a tutti coloro che avessero contribuito a costruire la “casa di Maria” in terra, a Valdocco, mediante elemosine in genere o il pagamento di strutture o di oggetti (finestre, vetrate, altare, campane, paramenti…) don Bosco, a nome della Vergine Maria, assicurava un premio speciale: un “bell’alloggio”, una “camera” ma non in un luogo qualunque, bensì “in paradiso”.

La Madonna fa la questua per la sua chiesa

Il 15 gennaio 1867 la Prefettura di Torino con apposito decreto fissa l’estrazione dei biglietti della lotteria il 1° aprile. Da Valdocco ci si affretta a spedire in tutta Italia i biglietti rimasti, con preghiera di restituire quelli invenduti entro metà marzo, così da poterli rispedire altrove prima dell’estrazione.
Don Bosco, che già da fine dicembre 1866 si era accinto ad un secondo viaggio a Roma (9 anni dopo il primo), con tappa a Firenze, per cercare di mettere d’accordo Stato e Chiesa sulla nomina di nuovi vescovi, ne approfitta per ripercorrere la rete delle sue amicizie fiorentine e romane. Riesce a smerciare molte mazzette di biglietti, tant’è che il compagno di viaggio, don Francesia sollecita la spedizione di altre, perché “tutti ne vogliono”.

La basilica e la primitiva piazza

Se al momento la benefica Torino, declassata dal ruolo di capitale del Regno, è in crisi, Firenze invece sta crescendo e così fa la sua parte con tante generose nobildonne; Bologna non è da meno, con il marchese Prospero Bevilacqua e la contessa Sassatelli. Non manca Milano, anche se proprio alla milanese Rosa Guenzati il 21 marzo don Bosco confida: “La lotteria si avvicina al suo termine ed abbiano ancora molti biglietti”.
Quale il risultato economico finale della lotteria? Circa 90 000 lire [328 000 euro], una bella cifra, si direbbe, ma che costituisce solo un sesto del denaro già speso; tant’è vero che il 3 aprile don Bosco deve chiedere ad un benefattore un urgente prestito di 5000 lire [18 250 euro] per un pagamento indilazionabile di materiale edilizio: gli era venuta meno un’entrata prevista.

La Madonna interviene
La settimana seguente don Bosco, trattando degli altari laterali con la contessa Virginia Cambray Digny di Firenze – si era fatta personalmente promotrice di una raccolta di fondi per un altare da dedicarsi a sant’Anna (madre della Madonna) – le comunica la ripresa dei lavori e la speranza (risultata poi vana) di potere inaugurare la chiesa entro l’anno. Conta sempre e soprattutto sulle offerte per le grazie che la Madonna concede di continuo agli oblatori e lo scrive a tutti, alla stessa Cambray Digny, alla signorina Pellico, sorella del famoso Silvio ecc. Qualche benefattrice, incredula, gliene chiede conferma e don Bosco lo ribadisce.

La basilica di Maria Ausiliatrice come la costruì Don Bosco

Le grazie aumentano, la loro fama si diffonde e don Bosco deve contenersi perché, come scrive il 9 maggio al cavaliere Oreglia di S. Stefano, salesiano inviato a Roma a cercare beneficenza: “Io non le posso scrivere perché ci sono interessato”. Invero non può mancare di aggiornare il suo elemosiniere il mese seguente: “Un signore guarito di un braccio portò immediatamente 3000 lire [11 000 euro] con cui si sono pagati una parte dei debiti dell’anno precedente… Io non ho mai vantato cose straordinarie; io ho sempre detto che M.SS. Ausiliatrice ha conceduto e concede tuttora grazie straordinarie a quelli che in qualche modo concorrono alla costruzione di questa chiesa. Io ho sempre detto e dico: ‘l’offerta si farà a grazia ricevuta, non prima’ [corsivo nell’originale]”. E il 25 luglio alla contessa Callori racconta di una ragazza da lui ricevuta, “pazza e furiosa” trattenuta da due uomini; appena benedetta si calmò e si confessò.

Se la Madonna si attiva, don Bosco non sta certo fermo. Il 24 maggio spedisce altra circolare per l’erezione e l’arredo della cappella dei SS. Cuori di Gesù e Maria: allega un modulo per l’iscrizione di offerta mensile, mentre chiede a tutti un’Ave Maria per gli oblatori. Lo stesso giorno, con una notevole “faccia tosta” domanda alla madre Galeffi delle Oblate di Tor de Specchi di Roma, se i 2000 scudi promessi tempo prima per l’altare dei SS. Cuori fanno parte, o no, della sua rinnovata disponibilità a fare altre cose per la chiesa. Il 4 luglio ringrazia il principe Orazio Falconieri di Carpegna di Roma per dono di calice e offerta per la chiesa. A tutti scrive che la chiesa avanza ed attende doni promessi, come gli altari delle cappelle, le campane, le balaustrine ecc. Le grandi offerte provengono dunque dagli aristocratici, dai principi della chiesa, ma non manca l’“obolo della vedova”, le offerte capillari della gente semplice: “La settimana scorsa in piccole offerte fatte per grazie ricevute vennero registrati 3800 franchi” [12 800 euro].
Il 20 febbraio 1867 la “Gazzetta Piemontese” dà la seguente notizia: “alle tante calamità ond’è afflitta l’Italia – [si pensi alla terza guerra d’indipendenza appena conclusa], ora dobbiamo aggiungere la ricomparsa del colera”. È l’inizio dell’incubo che minaccerà l’Italia per dodici mesi successivi, con decine di migliaia di morti in tutto il paese, Roma compresa, dove il morbo miete vittime anche fra personalità civili ed ecclesiastiche.
Sono preoccupatissimi i benefattori di don Bosco, che però li tranquillizza: “niuno di quelli che prendono parte alla costruzione della chiesa in onore di Maria sarà vittima di questi malanni, purché si riponga fiducia in lei”, scrive ad inizio luglio alla duchessa di Sora.

(continua)




Don Bosco a don Orione: Noi saremo sempre amici

San Luigi Orione: “I miei anni più belli sono stati quelli passati nell’Oratorio salesiano.”

Un emozionante ricordo del santo don Orione.
Chi non conosce il canto “Giù dai colli, un dì lontano con la sola madre accanto”? Penso molto pochi, visto che tuttora è cantato in decine di lingue in oltre 100 paesi del mondo. Altrettanto pochi però penso che conoscano il commento fatto dall’anziano don (san) Luigi Orione durante la messa (cantata!) del 31 gennaio 1940 dagli Orionini di Tortona alle ore 4,45 (esattamente l’ora in cui era morto don Bosco 52 anni prima). Ecco le sue precise parole (tratte dalle fonti orionine):
«L’inno a don Bosco che comincia con “Giù dai colli” è stato composto e musicato per la beatificazione di don Bosco. La spiegazione della prima strofa è questa. Alla morte del santo, dal governo di quei tempi, nonostante che tutti i giovani lo desideravano e tutta Torino lo desiderasse, non fu concesso che don Bosco, la sua salma, venisse sepolta in Maria Ausiliatrice e parve grande favore che la cara salma venisse sepolta a Valsalice… una bella casa!… La salma dunque venne portata a Valsalice e là, tutti gli anni fino alla Beatificazione, andarono gli alunni salesiani, nel giorno della morte di don Bosco, a trovare il Padre, a pregare. Dopo che don Bosco fu beatificato, il suo corpo venne portato in Maria Ausiliatrice. E la strofa che avete cantato “Oggi, o Padre, torni ancora” ricorda anche questo. Celebra don Bosco che ritorna fra i giovani ancora, da Valsalice – che è posta sopra una collina al di là del Po – a Torino che è al piano».

I suoi ricordi di quella giornata

E continuava don Orione: «Il Signore mi ha dato la grazia di trovarmi presente, nel 1929, a quel trasporto, che fu un trionfo in mezzo a Torino in festa, fra una gioia ed un entusiasmo indicibile. Anch’io fui vicino al carro trionfale. Il tragitto fu fatto tutto a piedi da Valsalice all’Oratorio. E, insieme con me, subito dietro il carro, c’era uno in camicia rossa, un Garibaldino; eravamo vicini, a fianco a fianco. Era uno dei più antichi dei primi alunni di don Bosco; quando seppe che si trasportava il corpo di don Bosco, anche lui c’era dietro il carro. E tutti cantavano: “Don Bosco ritorna fra i giovani ancor”. In quel trasporto tutto era gioia; i giovani cantavano e i Torinesi agitavano fazzoletti e gettavano fiori. Si passò anche davanti al Palazzo Reale. Ricordo che al balcone c’era il Principe di Piemonte, circondato da generali; il carro si fermò un momento ed egli fece cenno di compiacenza; i superiori Salesiani chinarono il capo, come a ringraziarlo di quell’atto di omaggio a don Bosco. Poi il carro raggiunse Maria Ausiliatrice. E di lì a qualche minuto venne anche il Principe, circondato da personaggi della Casa Reale, a rendere atto di devozione al nuovo Beato».

“I miei anni più belli”
Il ragazzo Luigi Orione era vissuto con don Bosco tre anni, dal 1886 al 1889. Li ricordava quarant’anni dopo in questi commossi termini: «I miei anni più belli sono stati quelli passati nell’Oratorio salesiano». «Oh, potessi io rivivere anche pochi di quei giorni vissuti all’Oratorio, vivente don Bosco!». Aveva amato tanto don Bosco che gli era stato concesso, in via eccezionalissima, di confessarsi da lui anche quando le forze fisiche erano al lumicino. Nell’ultimo di tali colloqui (17 dicembre 1887) il santo educatore gli aveva confidato: “Noi saremo sempre amici”.

Nello spostamento della salma di don Bosco da Valsalice alla Basilica di Maria Ausiliatrice, vediamo a don Luigi Orione in rocchetto bianco accanto all’urna

Un’amicizia totale, la loro, per cui non meraviglia che poco dopo il quindicenne Luigi si iscrivesse subito nella lista dei ragazzi di Valdocco che offrivano al Signore la propria vita per ottenere la conservazione di quella dell’amato Padre. Il Signore non accolse la sua eroica richiesta, ma ne “ricambiò” la generosità con il primo miracolo di don Bosco da morto: al contatto con la sua salma si riattaccò e rimarginò l’indice della mano destra che il ragazzo, mancino, si era tagliato mentre in cucina preparava dei pezzettini di pane da posare proprio sulla salma di don Bosco, esposta nella chiesa di S. Francesco di Sales, per distribuirli come reliquie ai tantissimi devoti.
Ciononostante il giovane non si fece salesiano: anzi ebbe la certezza che il Signore lo chiamava ad un’altra vocazione, proprio dopo essersi “consultato” con don Bosco davanti alla sua tomba di Valsalice. Così la Provvidenza volle che vi fosse un salesiano in meno, ma una Famiglia religiosa in più, quella orionina, che irradiasse, per nuove e originali vie, l’“impronta” ricevuta da don Bosco: l’amore al Santissimo Sacramento e ai sacramenti della confessione e comunione, la devozione alla Madonna e all’amore al Papa e alla Chiesa, il sistema preventivo, la carità apostolica verso i giovani “poveri ed abbandonati” ecc.

E Don Rua?
L’amicizia sincera e profonda di don Orione con don Bosco divenne poi amicizia altrettanto sincera e profonda con don Rua, che continuò fino alla morte di questi nel 1910. Infatti appena saputo dell’aggravamento della sua salute, don Orione ordinò subito una novena e si precipitò al suo capezzale. Con particolare commozione avrebbe poi ricordato quest’ultima visita: “Quando si ammalò, essendo io a Messina, telegrafai a Torino per chiedere se, partendo subito, avrei ancora potuto vederlo vivo. Mi fu risposto di sì; presi il treno e partii per Torino. Mi accolse, sorridendo, don Rua e mi diede la sua benedizione specialissima per me e per tutti quelli che sarebbero venuti alla nostra Casa.
Vi assicuro che era la benedizione di un santo”.
Giuntagli poi la notizia della morte inviò un telegramma a don (beato) F. Rinaldi: “Antico alunno del venerabile don Bosco mi unisco ai Salesiani nel piangere la morte di don Rua che mi fu padre spirituale indimenticabile. Qui preghiamo tutti, Sac. Orione”. I salesiani volevano seppellir don Rua a Valsalice, accanto alla tomba di don Bosco, ma vi erano difficoltà da parte delle autorità cittadine. Immediatamente con un altro telegramma, il 9 aprile, don Orione offrì allo stesso don Rinaldi il suo aiuto: “Se sorgessero difficoltà per deporre don Rua a Valsalice, voglia telegrafarmi, facilmente potrei aiutarli”.
Fu un grande sacrificio per lui non potere attraversare l’Italia da Messina a Torino per partecipare ai funerali di don Rua. Ora però sono tutti, Bosco, Rua, Orione, Rinaldi, in cielo, l’uno accanto all’altro nell’unica grande famiglia di Dio.




Storia della costruzione della chiesa di Maria Ausiliatrice (1/3)

Ha fatto tutto lei, la Madonna”, siamo soliti leggere nella letteratura spirituale salesiana, per indicare che la Vergine è stata all’origine di tutta la vicenda di don Bosco. Se applichiamo l’espressione alla costruzione della chiesa di Maria Ausiliatrice, essa trova un forte spessore di verità documentatissima, fermo restando sempre che, accanto all’intervento celeste, anche don Bosco ha fatto la sua parte, eccome!

Il lancio dell’idea e prime promesse di sussidi (1863)
A fine gennaio ­ inizio febbraio 1863 don Bosco diffuse un’ampia circolare circa lo scopo di una chiesa, intitolata a Maria Ausiliatrice, che aveva in animo di costruire a Valdocco: doveva servire per la massa dei giovani ivi accolti e per le ventimila anime del territorio circostante, con l’ulteriore possibilità di essere eretta a parrocchia dall’autorità diocesana.
Poco dopo, il 13 febbraio, comunicò al papa Pio IX, non solo che la chiesa era parrocchiale, ma che era già “in via di costruzione”. Da Roma ottenne l’esito sperato: a fine marzo ricevette 500 lire. Ringraziando il cardinale di Stato Antonelli per il sussidio ricevuto scriveva che “i lavori… sono per cominciarsi”. In effetti in maggio acquistò terreni e legname destinati alla cinta del cantiere e in estate si iniziarono i lavori di scavo, continuati poi fino all’autunno.
Alla vigilia della festa di Maria Ausiliatrice, il 23 maggio, il Ministero di Grazia, Giustizia e Culto, sentito il sindaco, marchese Emanuele Luserna, si dichiarò disponibile a concedere un sussidio. Don Bosco colse l’occasione per fare un immediato appello alla generosità del primo Segretario dell’Ordine Mauriziano e del sindaco. A questi, anzi, nella stessa data inviò un duplice appello: al primo, in forma privata, chiese il maggior sussidio possibile ricordandogli l’impegno che aveva assunto in occasione di una sua visita a Valdocco; con il secondo, in via formale, ufficiale, fece lo stesso, ma dilungandosi in particolari circa l’erigenda chiesa.

Le prime risposte interlocutorie
Agli appelli lanciati per ottenere offerte, seguirono le risposte. Quella del 29 maggio del segretario dell’Ordine Mauriziano fu negativa per l’anno in corso, ma non per l’anno successivo quando si sarebbe potuto mettere a bilancio un non meglio precisato sussidio. La risposta invece del 26 luglio da parte del Ministero fu positiva: venivano stanziate 6000 lire, ma la metà sarebbe stata consegnata all’uscita delle fondamenta al livello del suolo, l’altra metà alla copertura della chiesa; il tutto però condizionato dal sopralluogo e assenso di un’apposita commissione governativa. Infine l’11 dicembre giunse la risposta, purtroppo negativa, della Giunta comunale: il concorso economico del Comune era previsto solo per le chiese parrocchiali e quella di don Bosco non lo era. Ma neppure poteva esserlo facilmente, stante la sede vacante dell’arcidiocesi. Don Bosco si prese allora qualche giorno di riflessione e alla vigilia di Natale ribadì al sindaco la sua intenzione di costruire una grande chiesa parrocchiale a servizio del “popolatissimo quartiere”. In caso di mancato sussidio comunale, avrebbe dovuto limitarsi ad una chiesa di dimensioni molto più ridotte. Ma anche il nuovo appello cadde nel vuoto.
L’anno 1863 si chiudeva così per don Bosco con poco di concreto, salvo qualche generica promessa. C’era di che scoraggiarsi. Ma se le pubbliche autorità latitavano sul piano economico – pensava don Bosco – la divina Provvidenza non sarebbe venuta meno. Ne aveva sperimentato infatti la forte presenza una quindicina di anni prima, in occasione della costruzione della chiesa di San Francesco di Sales. Pertanto all’ingegner Antonio Spezia, già da lui conosciuto come ottimo professionista, affidò il compito di tracciare il progetto della nuova chiesa che aveva in mente. Fra l’altro avrebbe lavorato, ancora una volta, gratuitamente.

L’anno decisivo (1864)

In poco più di un mese il progetto era pronto, per cui a fine gennaio 1864 venne consegnato alla Commissione edilizia comunale. Intanto don Bosco aveva chiesto alla direzione delle ferrovie dello Stato dell’Alta Italia il trasporto gratuito a Torino delle pietre da Borgone nella bassa Val di Susa. Il favore venne accordato in tempi rapidi, ma non così avvenne per la Commissione edilizia. A metà marzo essa infatti respinse i disegni consegnati per “non regolarità di costruzione”, con l’invito all’ingegnere di modificarli. Ripresentati il 14 maggio, vennero trovati difettosi nuovamente il 23 maggio, con un ulteriore invito a tenerne conto; in alternativa si suggerì di pensare ad un diverso progetto. Don Bosco accolse la prima proposta, il 27 maggio il progetto, rivisto, venne approvato ed il 2 giugno il Comune rilasciò la licenza edilizia.

Prima foto della chiesa di Maria Ausiliatrice

Intanto don Bosco non aveva perso tempo. Aveva chiesto al sindaco di far tracciare l’esatta rettilineazione dell’infossata via Cottolengo, onde poter a proprie spese rialzarla con il materiale dello scavo della chiesa. Inoltre aveva diffuso al centro­nord Italia, tramite alcuni fidatissimi benefattori, una circolare a stampa in cui presentava le motivazioni pastorale della nuova chiesa, le dimensioni, i relativi costi (invero poi quadruplicati in corso d’opera). L’appello, indirizzato soprattutto ai “divoti di Maria”, era accompagnato da una scheda di iscrizione per quanti volessero indicare in anticipo la somma che avrebbero versato nel triennio 1864­1866. La circolare indicava anche la possibilità di offrire materiali per la chiesa o altri oggetti ad essa necessari. In aprile l’annunzio fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del Regno e su “L’Unità Cattolica”.
I lavori proseguivano e don Bosco non poteva assentarsi per le continue richieste di modificazioni, soprattutto circa le linee di demarcazione sull’irregolare Via Cottolengo. In settembre ad una più ampia cerchia di benefattori inviò una nuova circolare, sul modello di quella precedente, ma con la precisazione che i lavori sarebbero terminati entro tre anni. Ne spedì copia pure ai principi Tommaso ed Eugenio di casa Savoia e al sindaco Emanuele Luserna di Rorà; a questi però chiese di nuovo solo di collaborare al progetto rettificando via Cottolengo.

Debiti, una lotteria e tanto coraggio
A fine gennaio 1865, in occasione della festa di san Francesco di Sales che vedeva radunati a Valdocco salesiani provenienti da varie case, don Bosco comunicò loro l’intenzione di avviare una nuova lotteria per raccogliere fondi per il prosieguo dei lavori (di scavo) per la chiesa. Dovette però rimandarla per la contemporanea presenza in città di un’altra in favore dei sordomuti. Di conseguenza i lavori, che sarebbero ripresi in primavera dopo la pausa invernale, non avevano copertura economica. Ecco allora don Bosco chiedere urgentemente all’amico e confratello di Mornese, don Domenico Pestarino, un prestito di 5000 lire (20 000 euro). Non voleva infatti ricorrere ad un mutuo bancario troppo oneroso nella capitale. Come non bastassero gli spinosi problemi finanziari, ne sorsero in concomitanza degli altri con i confinanti, in particolare con quelli della casa Bellezza. Don Bosco dovette pagare loro un indennizzo per la rinuncia al passaggio per Via della Giardiniera, che dunque veniva soppressa.

Solenne posa della prima pietra

Venne finalmente il giorno della posa della prima pietra della Basilica di Maria Ausiliatrice, il 27 aprile 1865. Don Bosco tre giorni prima, ne diramò gli inviti, nei quali annunciava che Sua Altezza reale il principe Amedeo di Savoia avrebbe messo la prima calce, mentre la funzione religiosa sarebbe stata presieduta dal vescovo di Casale, monsignor Pietro Maria Ferrè. Questi venne però a mancare all’ultimo minuto e la solenne cerimonia fu celebrata dal vescovo di Susa, monsignor Giovanni Antonio Odone, alla presenza del Prefetto della città, del Sindaco, di vari consiglieri comunali, di benefattori, di membri della nobiltà cittadina e della Commissione per la Lotteria. Il corteo del duca Amedeo venne accolto al suono della marcia reale dalla banda e dal coro di voci bianche degli allievi di Valdocco e del collegio di Mirabello. La stampa cittadina fece da cassa di risonanza al festoso evento e don Bosco, da par suo, cogliendone il grande significato politico-religioso, ne ampliò la storica portata con proprie pubblicazioni.

Piazza e chiesa di Maria Ausiliatrice

Tre giorni dopo, in una lunga e sofferta lettera a papa Pio IX per la difficile situazione in cui si trovava la Santa Sede a fronte della politica del Regno d’Italia, accennava alla chiesa ormai già con i muri fuori della terra. Chiedeva la benedizione sull’impresa in corso e dei doni per la lotteria che stava per lanciare. In effetti a metà maggio ne chiese formalmente l’autorizzazione alla Prefettura di Torino, motivandola con la necessità di saldare i debiti dei vari oratori di Torino, di provvedere vitto, vestito, alloggio e scuola ai circa 880 allievi di Valdocco e di continuare i lavori della chiesa di Maria Ausiliatrice. Ovviamente si impegnava ad osservare tutte le numerose disposizioni di legge al riguardo.

(continua)




I benefattori di don Bosco

Fare del bene ai giovani richiede non solo dedizione, ma anche ingenti risorse materiali e finanziarie. Don Bosco diceva «Io confido illimitatamente nella Divina Provvidenza ma anche la Provvidenza vuol essere aiutata da immensi sforzi nostri»; detto e fatto.

            Ai suoi missionari partenti, l’11 novembre 1875, don Bosco diede 20 preziosi «Ricordi». Il primo era: «Cercate anime, ma non denari, né onori né dignità».
            Don Bosco dovette egli stesso per tutta la vita andare alla ricerca di denaro ma voleva che i suoi figli non si affannassero nel cercare danaro, non si preoccupassero quando veniva loro a mancare, non perdessero la testa quando ne trovavano, ma fossero pronti ad ogni umiliazione e sacrificio nella ricerca del necessario, con piena fiducia nella Divina Provvidenza che non lo avrebbe mai lasciato mancare. E ne diede loro l’esempio.

«Il Santo dei milioni!»
            Don Bosco nella sua vita maneggiò grandi somme di denaro, raccolte a prezzo di enormi sacrifici, umilianti questue, laboriose lotterie, incessanti peregrinazioni. Con questo denaro egli diede pane, vestito, alloggio e lavoro a tanti poveri ragazzi, comperò case, aprì ospizi e collegi, costruì chiese, avviò grandi iniziative tipografiche ed editoriali, lanciò le missioni salesiane in America e, infine, già affranto dagli acciacchi della vecchiaia, eresse ancora a Roma, in obbedienza al Papa, la Basilica del Sacro Cuore.
            Non tutti compresero lo spirito che lo animava, non tutti apprezzarono le sue multiformi attività e la stampa anticlericale si sbizzarrì in ridicole insinuazioni. Il 4 aprile 1872 il periodico satirico torinese «Il Fischietto» disse don Bosco fornito di «fondi favolosi», mentre in sua morte sul giornale «Il Birichin» Luigi Pietracqua pubblicava un sonetto blasfemo in cui chiamava don Bosco uomo astuto «capace di cavar sangue da una rapa» e lo definiva «il Santo dei milioni» perché avrebbe contato i milioni a palate senza guadagnarli con il proprio sudore.
            Chi conosce lo stile di povertà in cui visse e morì il Santo, può facilmente capire di qual ingiusta fosse la satira del Pietracqua. Don Bosco fu, sì, un abile amministratore del denaro che la carità dei buoni gli procurava, ma non tenne mai nulla per sé. Il mobilio della sua cameretta a Valdocco consisteva in un lettuccio di ferro, un tavolino, una sedia e, più tardi, un sofà, senza tendine alle finestre, senza tappeti, senza neanche uno scendiletto. Nell’ultima malattia, tormentato dalla sete, quando gli provvidero acqua di seltz per dargli sollievo, non voleva berla credendola una bevanda costosa. Fu necessario assicurarlo che costava solo sette centesimi la bottiglia. Pochi giorni prima di morire ordinò a don Viglietti di osservare nelle tasche dei suoi abiti e consegnare a don Rua il portamonete, per poter morire senza un soldo in tasca.

Nobiltà filantropica
            Le Memorie Biografiche e l’Epistolario di don Bosco danno una ricca documentazione sui suoi benefattori. Vi troviamo i nomi di quasi 300 nobili famiglie delle quali ci è qui impossibile dare l’elenco.

            Certo non si deve commettere l’errore di limitare i benefattori di don Bosco alla sola nobiltà. Egli ottenne aiuto e collaborazione disinteressata da migliaia di altre persone del ceto ecclesiastico e civile, della borghesia e del popolo, a cominciare da quella benefattrice incomparabile che fu Mamma Margherita.
            Ci fermiamo su una figura della nobiltà che si distinse nel sostegno all’opera di don Bosco, facendo notare l’atteggiamento semplice e delicato e, nello stesso tempo, coraggioso ed apostolico, che egli seppe tenere per ricevere e fare del bene.
            Nel 1866 don Bosco indirizzava una lettera alla Contessa Enrichetta Bosco di Ruffino, nata Riccardi, già da anni in relazione con l’Oratorio di Valdocco. Era una delle Signore che si riunivano settimanalmente per riparare i vestiti dei giovani ricoverati. Ecco il testo:

            «Benemerita Sig.ra Contessa,
Non posso andar a far visita a V.S. benemerita come desidero, ma ci vado colla persona di Gesù Cristo nascosto sotto a questi cenci che a Lei raccomando perché nella sua carità li voglia rappezzare. E roba grama nel tempo; ma spero che per Lei sarà un tesoro per l’eternità.
Dio benedica Lei, le sue fatiche e tutta la sua famiglia, mentre ho l’onore di potermi con pienezza di stima professare
di V.S.B. Obbl.mo servitore»
Sac. Bosco Gio. Torino, 16 maggio 1866

Lettera di Don Bosco ai benefattori

            In questa lettera don Bosco si scusa di non potere andare di persona a far visita alla Signora Contessa. In compenso le invia un fagotto di cenci dei ragazzi dell’Oratorio da… rattoppare… roba grama (piemontese per: robaccia) davanti agli uomini, ma tesoro prezioso a chi veste gli ignudi per amore di Cristo!
            C’è chi ha voluto vedere nelle relazioni di don Bosco con i ricchi un’interessata cortigianeria. Ma qui c’è autentico spirito evangelico!




Padre Carlo Crespi apostolo dei poveri

Nel 23 marzo 2023, la Chiesa – dopo l’esame delle virtù teologali della Fede, Speranza e Carità verso Dio e verso il prossimo, e delle virtù cardinali della Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza e le altre virtù connesse, praticate in grado eroico – ha riconosciuto il Servo di Dio Carlo Crespi Croci, Sacerdote Professo della Società Salesiana di San Giovanni Bosco come Venerabile.

Come Giovannino Bosco un sogno gli segna la vita
Recandosi a Cuenca, nella piazza di fronte al santuario di Maria Ausiliatrice lo sguardo si sofferma immediatamente su un interessante quanto imponente gruppo scultoreo dedicato ad un italiano che i cuencani ancora oggi ricordano come «apóstol de los pobres». Si tratta più specificamente di un monumento raffigurante un sacerdote ed un bambino al suo fianco che lo guarda con affetto filiale. Quest’uomo straordinario che ha segnato la rinascita umana, spirituale e culturale di un popolo in precedenza messo in ginocchio da povertà, arretratezza e conflitti politici è padre Carlo Crespi, salesiano missionario. Originario di Legnano (Milano), nasce nel 1891 come terzo di tredici figli, da una famiglia benestante ed influente. Fin da piccolo manifesta intelligenza, curiosità e generosità particolari che mette anzitutto al servizio del padre, fattore in una tenuta locale e della madre Luigia, dalla quale impara molto presto a sgranare il rosario ed a tenere il nome di Maria sempre «a fior di labbra», come avrebbe testimoniato molti anni dopo un suo ex allievo. Come il fratello Delfino, anche lui futuro missionario, manifesta un particolare interesse per la bellezza del creato, inclinazione che gli tornerà utile molti anni più tardi quando si troverà nelle foreste inesplorate dell’Ecuador a classificare nuove specie di piante. Frequenta la scuola locale e all’età di dodici anni fa il suo primo incontro con la realtà salesiana all’interno dell’Istituto S. Ambrogio Opera don Bosco di Milano. Durante gli anni del collegio, seguendo l’insegnamento di san Giovanni Bosco, impara a mettere in pratica il binomio inseparabile della gioia e del lavoro. In questo stesso periodo un “sogno rivelatore” segna il primo importante punto di svolta nella sua vita. Scrive all’interno di alcuni quadernetti: «apparve in sogno la Vergine che mi mostrò una scena: da un lato, il demonio che voleva afferrarmi e trascinarmi; dall’altro, il Divin Redentore, con la croce, m’indicava un’altra via. Ero vestito da sacerdote e avevo la barba; stavo su un vecchio pulpito, attorno a me una moltitudine di persone desiderose di udire le mie parole. Il pulpito non si trovava in una chiesa, ma in una capanna». Sono i primi passi della chiamata alla vita salesiana che si fa sempre più forte. Nel 1903 completa gli studi al liceo salesiano di Valsalice. Al padre, preoccupato per il suo avvenire, risponde confermando la propria vocazione sacerdotale nella Società di san Giovanni Bosco: «Vedi, papà, la vocazione non te la impone nessuno; è Dio che chiama; io mi sento chiamato a diventare salesiano». L’8 settembre 1907 emette la prima professione religiosa, nel 1910 la professione perpetua. Nel 1917 viene ordinato sacerdote. Sono questi gli anni dedicati allo studio appassionato della filosofia, della teologia e all’insegnamento delle scienze naturali, della musica e della matematica. Presso l’Università di Padova si segnala per una importante scoperta in campo scientifico: l’esistenza di un microorganismo fino ad allora ignoto. Nel 1921 riceve il dottorato in scienze naturali, con specializzazione in botanica e poco dopo il diploma di musica.

Missionario in Ecuador
È il 1923 quando parte missionario e sbarca a Guayaquil, in Ecuador. Raggiunge Quito e infine si stabilisce definitivamente a Cuenca, dove rimarrà fino alla morte. «Mi benedica nel Signore e preghi per me affinché possa farmi santo, affinché possa immolare sull’altare del dolore e del sacrificio tutti gli istanti della mia vita» scrive nel 1925 all’allora Rettor Maggiore don Filippo Rinaldi, manifestando la volontà di sacrificarsi completamente per la causa missionaria. Padre Crespi passa i primi sei mesi del 1925 nelle foreste della zona di Sucùa-Macas. Si propone di conoscere in modo approfondito la lingua, il territorio, la cultura, la spiritualità dell’etnia Shuar. Avvalendosi delle proprie conoscenze nei diversi ambiti della cultura, inizia un’opera di evangelizzazione rivoluzionaria ed innovativa, fatta di scambio ed arricchimento reciproco di culture molto diverse. Viene accolto con iniziale diffidenza, ma padre Carlo porta con sé oggetti interessanti come stoffa, munizioni, specchi, aghi e ha il modo di fare di chi vuol bene. Conosce i miti indigeni e li ripropone secondo una lettura nuova, trasformata ed arricchita alla luce della fede cattolica. Padre Carlo diventa presto un amico ed il messaggio cristiano, trasmesso con cura e rispetto, non è più la religione dello straniero, ma qualcosa che la popolazione riconosce come proprio. Padre Crespi intuisce che «solo l’uomo che accetta di avvicinarsi alle altre persone nel loro stesso movimento, non per trattenerle nel proprio, ma per aiutarle a essere maggiormente sé stesse, si fa realmente padre» (Papa Francesco, Lettera Enciclica “Fratelli tutti”, 3 ottobre 2020).

Un bambino di cento anni!

La dimensione del sogno segna nuovamente la sua vita nel 1936 quando, ammalatosi di tifo e, nonostante le previsioni dei medici, si ristabilisce e racconta: «Verso le tre di notte si apre la porta ed entra santa Teresa e mi dice: puer centum annorum, infirmitas haec non est ad mortem, longa tibi restat vita (bambino di cento anni: queta malattia non è per la morte, ti resta una lunga vita)». Padre Carlo ha ora 45 anni, vivrà altri 46 anni. Ormai stabilitosi definitivamente a Cuenca, il Servo di Dio attua una vera e propria “Revoluciòn blanca”. Mette in piedi un lavoro di promozione umana senza precedenti, fondando diverse opere: l’oratorio festivo, il Normal Orientalista per la formazione dei missionari salesiani, la scuola elementare “Cornelio Merchán”, la scuola di arti e mestieri (poi Collegio tecnico salesiano), la Quinta Agronomica ovvero il primo istituto di agraria della regione, il Teatro salesiano, la Gran Casa della comunità, l’Orfanotrofio “Domenico Savio”, il museo “Carlo Crespi”, ancora oggi celebre per i suoi numerosi reperti scientifici. Dall’Italia fa arrivare mezzi e personale specializzato da investire nei suoi progetti. Sfruttando le proprie straordinarie conoscenze in campo scientifico e musicale, organizza conferenze e concerti in ambasciate, teatri e stringe amicizie con le principali famiglie di Guayaquil e della capitale. Crea un rapporto disteso con il governo locale, sebbene questo sia fortemente anticlericale. Ottiene lo sdoganamento gratuito e la copertura delle spese di trasporto fino a Cuenca di centinaia di casse di materiali. Le sue opere diventano in breve tempo il cuore pulsante di cambiamenti sociali e culturali epocali a tutto vantaggio della popolazione, specie quella più povera.

Padre Carlo crea nuove possibilità di vita e lo fa attraverso un progetto di evangelizzazione e sviluppo che dona alla popolazione cuencana anzitutto autonomia di crescita. Come avrebbe autorevolmente affermato san Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica Centesimus annus del 1991, «non si tratta, infatti, solo di dare il superfluo, ma di aiutare interi popoli, che ne sono esclusi o emarginati, ad entrare nel circolo dello sviluppo economico ed umano». A Cuenca giunge il volto di una Chiesa capace di inserire l’insegnamento evangelico in un modello esperienziale: l’insegnamento della scrittura e delle attività lavorative fondamentali (agricoltura, allevamento e tessitura) è il canale di accesso per far conoscere Gesù a tutti. In perfetta aderenza all’insegnamento di san Giovanni Bosco, il Servo di Dio applica il “sistema preventivo”, offrendo soprattutto ai giovani una sorta di “grazia preventiva”, un anticipo di fiducia per donare possibilità di cambiamento, di conversione, di crescita. Guardando a don Bosco, sa armonizzare pedagogia e teologia, animando i giovani con giochi, pellicole, attività teatrali, feste e non da ultimo il catechismo. Per padre Carlo è già possibile intravedere dei futuri buoni padri di famiglia. La sua spiritualità squisitamente eucaristico-mariana lo guida in altre imprese eccezionali, come l’organizzazione del Primo Congresso Eucaristico Diocesano a Cuenca nel 1938, per celebrare il cinquantenario della morte di san Giovanni Bosco. In virtù della propria devozione al Santissimo Sacramento, in quegli anni Cuenca si conferma nuovamente Città Eucaristica. Immerso nelle fatiche apostoliche e negli affari ufficiali padre Carlo però non dimentica mai i suoi poveri. Generazioni di cuencani trovano in lui un cuore generoso, capace di accoglienza e di paternità. In una mano tiene una campanella per “risvegliare” con un colpetto sulla testa qualche giovane bisognoso di correzione; nell’altra stringe cibo e denaro da donare ai suoi poveri. L’abito talare vecchio e stinto, le scarpe consunte, l’alimentazione frugale, la dedizione speciale per i bambini e i poveri non passano inosservati agli occhi dei cuencani. Padre Crespi è povero tra i poveri. La gente lo accoglie come cuencano d’elezione e inizia a chiamarlo «san Carlo Crespi». Le autorità civili, conquistate dall’operato di padre Crespi, rispondono con numerose onorificenze: viene dichiarato “abitante più illustre di Cuenca nel XX secolo”. Riceve il dottorato Honoris Causa post mortem da parte dell’Università Politecnica Salesiana.

Mosso dalla speranza
Nel 1962, un incendio probabilmente di natura dolosa, distrugge l’Istituto “Cornelio Merchàn”, frutto del duro lavoro di molti anni. La certezza di padre Carlo Crespi che Maria Ausiliatrice lo aiuterà anche questa volta diventa contagiosa: gli abitanti di Cuenca riprendono fiducia e partecipano senza esitazione alla ricostruzione. Racconterà a distanza di anni un testimone: «il giorno dopo (l’incendio) padre Crespi fu visto con la sua campanella e il suo grande piattino raccogliere i contributi della città».
Ormai anziano e stanco è ancora nel santuario di Maria Ausiliatrice a divulgare con lo stesso entusiasmo di un tempo la devozione alla Vergine. Confessa e consiglia file interminabili di fedeli. Se si tratta di prestare loro ascolto, gli orari, i pasti e perfino il sonno non contano più. Non è infrequente nemmeno che padre Carlo si alzi nel cuore della notte per confessare un malato o un moribondo. La gente non ha dubbi: lui solo guarda il prossimo con gli occhi di Dio. Sa riconoscere il peccato e la debolezza, senza mai rimanerne scandalizzato o schiacciato. Non si fa giudice, ma comprende, rispetta, ama. Il suo confessionale diventa per i cuencani il luogo dove, riprendendo le parole di Papa Francesco, padre Carlo allevia le ferite dell’umanità «con l’olio della consolazione» e provvede «a fasciarle con la misericordia» (Misericordiae vultus, 2015). E mentre cura, viene a sua volta guarito dall’esperienza della misericordia accolta. Il programma preannunciato in gioventù con il “sogno rivelatore” dalla Vergine Maria ha finalmente trovato pieno compimento. Il 30 aprile 1982, all’età di 90 anni, padre Carlo Crespi, nel silenzio e nel nascondimento della Clinica Santa Inés di Cuenca, tiene il rosario tra le mani come sua madre gli aveva insegnato. È tempo di chiudere gli occhi a questo mondo per aprirli sull’eternità. Un fiume di persone commosse e addolorate partecipa alle esequie. Certi che a morire sia stato un santo, in molti si accalcano per toccare un’ultima volta il suo corpo con qualche oggetto; sperano di ricevere ancora la protezione di quel padre che li ha appena lasciati. Anche il suo confessionale viene preso d’assalto per conservarne qualche piccola parte.

Si chiude così la vita terrena di un uomo che, pur consapevole della vita notevolmente agiata che avrebbe potuto condurre in casa propria, accolse la chiamata salesiana e, come vero imitatore di don Bosco, si fece testimone di una Chiesa che esorta ad «uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (Papa Francesco, Evangelii gaudium, 2013). La vita di padre Carlo Crespi racconta ai cristiani di ieri e di oggi come la preghiera può e deve essere inserita nel concreto dell’azione quotidiana, incentivandola ed ispirandola. Egli, rimanendo totalmente salesiano e totalmente mariano, è testimone credibile di uno «stile evangelizzatore capace di incidere nella vita» (Papa Francesco, Discorso all’Azione Cattolica Italiana, 3 maggio 2014). Ad oggi la sua tomba e il suo monumento continuano ad essere perennemente abbelliti con fiori freschi e targhe di ringraziamento. Mentre la fama di santità di questo figlio illustre di Cuenca non accenna a diminuire, l’avvenuta stesura della Positio super virtutibus segna un importante passaggio per quel che riguarda la Causa di beatificazione. Non resta che attendere con fiducia il sapiente giudizio della Chiesa.

Mariafrancesca Oggianu
Collaboratrice della Postulazione Salesiana




Don Bosco in Cambogia

La collaborazione tra laici e religiosi a favore dell’educazione della gioventù della Cambogia.

Cambogia è un paese nel sud-est asiatico che conta oltre il 90% della popolazione buddhista e con una piccolissima minoranza cristiana.

La presenza dei Salesiani di Don Bosco in Cambogia risale al 1991, quando i Salesiani arrivarono dalla Thailandia, dove si stavano occupando dell’educazione tecnica dei profughi di guerra lungo il confine tra i due Paesi, sotto la guida dal salesiano coadiutore Roberto Panetto e degli ex-allievi salesiani di Bangkok.

Dopo aver formato circa 3.000 giovani, questi ultimi, che stavano per essere rimpatriati in Cambogia, chiesero ai Salesiani di andare con loro. I Salesiani non lasciarono cadere quell’invito nel vuoto, intuendo che era quello il posto in cui Dio li voleva in quel momento, quelli erano i giovani che stavano chiamando Don Bosco. Le sfide erano e sono tante, in un ambiente culturale non cristiano ed in una società molto povera.

Il 24 maggio 1991, festa di Maria Ausiliatrice, iniziò la presenza salesiana in Cambogia, con un orfanotrofio e la scuola tecnica Don Bosco di Phnom Penh, inaugurata ufficialmente nella festa di Don Bosco, il 31 gennaio 1994. Nel 1992 anche le Figlie di Maria Ausiliatrice hanno raggiunto il Paese e il loro lavoro offre speranze a molte ragazze povere e abbandonate in un Paese in cui più della metà della popolazione totale è di sesso femminile e in cui le donne sono vittime di violenze, abusi e traffico di esseri umani.

I Salesiani hanno creato istituti tecnici e scuole in cinque province del Paese: Phnom Penh, Kep, Sihanoukville, Battambang e Poipet. L’enorme lavoro educativo-pastorale è reso possibile solo grazie al preziosissimo contributo dei laici. Quasi la totalità del personale coinvolto nelle strutture salesiane è costituita da ex-allievi che si impegnano continuamente per dare il meglio agli studenti in formazione. Questa è un’applicazione concreta della corresponsabilità e dei tanti inviti a condividere la missione.

I Salesiani hanno costituito in Cambogia una ONG senza alcuna affiliazione religiosa. Conosciuti comunemente come i padri, i fratelli e le sorelle di Don Bosco, sono amati e rispettati da tutti. C’è un grande amore e una partnership tra i Salesiani e gli ex-allievi in Cambogia, che contribuisce alla popolarità e al 100% di inserimenti lavorativi degli studenti negli ultimi dieci anni, come ci dice don Arun Charles, missionario indiano in Cambogia dal 2010, di recente nomina come coordinatore dell’animazione missionaria nella regione Asia Est-Oceania. I Salesiani incoraggiano i minori a completare il ciclo di istruzione primaria, tramite progetti di sostegno per i bambini, costruzione di edifici scolastici elementari nei villaggi poveri, gestione di alcuni centri per l’alfabetizzazione. A Battambang le fabbriche di mattoni trattengono i bambini per farli lavorare come operai, lì l’educazione salesiana mira ad offrire un’alternativa e la speranza di un futuro diverso.

Una delle specialità della missione salesiana in Cambogia è la scuola alberghiera, che fornisce istruzione in ospitalità, cucina e gestione alberghiera, disponendo di un albergo completo per consentire agli studenti di fare un’esperienza pratica nel loro campo, oltre ai laboratori e alle esercitazioni.

È rimasta nella memoria la visita del Rettor Maggiore don Juan Edmundo Vecchi nel 1997, momento molto importante di incoraggiamento, incentrato sull’esortazione a costruire la comunità educativa pastorale e a mettere in pratica il Sistema Preventivo di Don Bosco.

Lo sguardo missionario di Don Bosco continua a vivere a quasi 10.000 km da Valdocco, sempre con e per i giovani, nelle presenze salesiane a Phnom Penh, Poipet e Sihanoukville.

Marco Fulgaro

Galleria foto – Don Bosco in Cambogia

1 / 18

2 / 18

3 / 18

4 / 18

5 / 18

6 / 18

7 / 18

8 / 18

9 / 18

10 / 18

11 / 18

12 / 18

13 / 18

14 / 18

15 / 18

16 / 16


Don Bosco in Cambogia
Don Bosco in Cambogia
Don Bosco in Cambogia
Don Bosco in Cambogia
Don Bosco in Cambogia
Don Bosco in Cambogia
Don Bosco in Cambogia
Don Bosco in Cambogia
Don Bosco in Cambogia
Don Bosco in Cambogia
Don Bosco in Cambogia
Don Bosco in Cambogia
Don Bosco in Cambogia
Don Bosco in Cambogia
Don Bosco in Cambogia
Don Bosco in Cambogia





San Francesco di Sales. L’Eucaristia (6/8)

(continuazione dall’articolo precedente)

L’EUCARISTIA, IN SAN FRANCESCO DI SALES (6/8)

Francesco riceve la prima Comunione e la Cresima all’età di nove anni circa. Da allora si comunicherà ogni settimana o almeno una volta al mese.
Dio prende possesso del suo cuore e Francesco rimarrà fedele a questa amicizia che diventerà progressivamente l’amore della sua vita.

La fedeltà a una vita cristiana continua e si rafforza nei dieci anni di Parigi. “Si comunica, se non può più spesso, almeno una volta al mese.” E questo per dieci anni!

Sul periodo di Padova sappiamo che andava a messa tutti i giorni e che si comunicava una volta alla settimana. L’Eucaristia unita alla preghiera diventa l’alimento della sua vita cristiana e della sua vocazione. È in questa profonda unità con il Signore che percepisce la Sua volontà: qui matura il desiderio di essere “tutto di Dio”.

Francesco viene ordinato sacerdote il 18 dicembre 1593 e l’Eucaristia sarà il cuore delle sue giornate e la forza del suo spendersi per gli altri.
Ecco alcune testimonianze, tratte dai Processi di beatificazione:
“Era facile notare come si tenesse in profondo raccoglimento e attenzione davanti a Dio: gli occhi modestamente abbassati, il suo volto era tutto raccolto con una dolcezza e una serenità così grande che coloro che lo osservavano attentamente ne erano colpiti e commossi”.

“Quando celebrava la S. Messa era completamente diverso da com’era di solito: volto sereno, senza distrazioni e, al momento della comunione, quelli che lo vedevano erano profondamente colpiti dalla sua devozione.”

San Vincenzo de Paoli aggiunge:
“Richiamando alla mente le parole del servo di Dio, provo una tale ammirazione che sono portato a vedere in lui l’uomo che più di tutti ha riprodotto il Figlio di Dio vivente sulla terra”.

Sappiamo già della sua partenza nel 1594 come missionario per il Chiablese.
I primi mesi li trascorre al riparo della fortezza degli Allinges. Visitando quello che resta di questa fortezza, si rimane impressionati dalla cappella, rimasta intatta: piccola, buia, gelida, rigorosamente in pietra. Qui Francesco ogni mattino, verso le quattro, celebra l’Eucaristia e sosta in preghiera, prima di scendere a Thonon con il cuore colmo di carità e di misericordia, attinte al divino sacramento.
Francesco trattava la gente con rispetto, anzi con compassione e “se gli altri miravano a farsi temere, egli desiderava farsi amare ed entrare negli animi per la porta del compiacimento” (J.P. Camus).

È l’Eucaristia che sostiene le fatiche iniziali: non risponde agli insulti, alle provocazioni, al linciaggio; si relaziona con tutti con cordialità.
La sua prima predica da suddiacono era stata sul tema dell’Eucaristia e gli sarà certamente servita soprattutto ora, perché “questo augusto sacramento” sarà il suo cavallo di battaglia: nei sermoni tenuti nella chiesa di sant’Ippolito, sovente affronterà questo tema ed esporrà con chiarezza e passione il punto di vista cattolico.

Questa testimonianza, indirizzata all’amico A. Favre, dice la qualità e l’ardore della sua predicazione su un tema così importante:
“Ieri poco mancò che le persone più in vista della città venissero pubblicamente ad ascoltare la mia predica, avendo sentito dire che avrei parlato dell’augusto sacramento dell’Eucaristia. Avevano tanta voglia di sentirmi esporre il pensiero cattolico circa questo mistero che quelli che non avevano osato venire pubblicamente, mi ascoltarono da un posto segreto nel quale non potevano essere visti.”

Il Corpo del Signore trasfonde a poco a poco nel suo cuore di pastore dolcezza, mitezza, bontà per cui anche la sua voce di predicatore ne risente: tono tranquillo e benevolo, mai aggressivo o polemico!
“Sono convinto che chi predica con amore, predica a sufficienza contro gli eretici, anche se non dice una sola parola né discute con loro”.

Eloquente più di un trattato questa esperienza avvenuta il 25 maggio 1595.
Alle tre del mattino, mentre meditava profondamente sul santissimo e augustissimo sacramento dell’Eucaristia, si sentì rapito da una così grande abbondanza di Spirito Santo che il suo cuore si lasciò andare in un effluvio di delizie, in tal modo da essere costretto alla fine a gettarsi per terra ed esclamare: “Signore, ritirati da me perché non posso più sostenere la sovrabbondanza della tua dolcezza”.

Nel 1596, dopo più di due anni di catechesi, decide di celebrare le tre Messe di Natale. Furono celebrate tra l’entusiasmo e la commozione generale. Francesco era felice! Questa messa di mezzanotte del Natale 1596 fu uno dei vertici della sua vita. In questa Messa c’era la Chiesa, la Chiesa cattolica ristabilita nel suo fondamento vivente.

Il Concilio di Trento aveva caldeggiato la pratica delle sante Quarantore, che consistevano nell’adorazione del Santissimo Sacramento per tre giorni consecutivi da parte di tutta la comunità cristiana.
A inizio settembre 1597 si svolsero ad Annemasse, alle porte di Ginevra, con la presenza del vescovo, di Francesco e di altri collaboratori, con un frutto molto più grande di quello che si sperava. Furono giorni intensi di preghiera, processioni, prediche, messe. Oltre quaranta parrocchie vi parteciparono con un numero incredibile di persone.

Visto il successo, l’anno seguente si svolsero a Thonon. Fu una festa di vari giorni che superò ogni attesa. Tutto finì a notte inoltrata, con l’ultimo sermone tenuto da Francesco. Predicò sull’Eucaristia.

Molti studiosi della vita e delle opere del santo sostengono che solo il suo grande amore per l’Eucaristia può spiegare il “miracolo” del Chiablese, cioè come questo giovane prete in soli quattro anni abbia potuto ricondurre tutta la vasta regione alla Chiesa.
E questo amore durò tutta la vita, fino alla fine. Nell’ultimo incontro che ebbe a Lione con le sue Figlie, le Visitandine, ormai in fin di vita, parlò loro della confessione e della comunione.

Che cos’era l’Eucarestia per il nostro santo? Era anzitutto:

Il cuore della sua giornata, che lo faceva vivere in un’intima comunione con Dio.
“Non ti ho ancora parlato del sole degli esercizi spirituali: il santissimo e sommo Sacrificio e Sacramento della Messa, centro della religione cristiana, cuore della devozione, anima della pietà”.

È la consegna fiduciosa della sua vita a Dio al quale chiede forza per continuare la sua missione con umiltà e carità.
“Se il mondo vi chiede perché vi comunicate così spesso, rispondete che è per imparare ad amare Dio, per purificarvi dalle vostre imperfezioni, per liberarvi dalle vostre miserie, per trovare forza nelle vostre debolezze e consolazioni nelle vostre afflizioni. Due tipi di persone devono comunicarsi sovente: i perfetti, perché essendo ben disposti farebbero un torto a non accostarsi alla fonte e sorgente della perfezione; e gli imperfetti per poter tendere alla perfezione. I forti per non indebolirsi e deboli per rafforzarsi. I malati per guarire e i sani per non ammalarsi”.

L’Eucaristia crea in Francesco una profonda unità con tante persone.
“Questo sacramento non solo ci unisce a Gesù Cristo, ma anche al nostro prossimo, con quelli che partecipano allo stesso cibo e ci rende una cosa sola con loro. E uno dei principali frutti è la mutua carità e la dolcezza di cuore gli uni verso gli altri dal momento che apparteniamo allo stesso Signore e in Lui siamo uniti cuore a cuore gli uni gli altri”.

È una progressiva trasformazione in Gesù.
“Coloro che fanno una buona digestione corporale risentono un rafforzamento per tutto il corpo, per la distribuzione generale che si fa del cibo. Così, Figlia mia, quelli che fanno una buona digestione spirituale risentono che Gesù Cristo, che è il loro cibo, si diffonde e comunica a tutte le parti della loro anima e del loro corpo. Essi hanno Gesù Cristo nel cervello, nel cuore, nel petto, negli occhi, nelle mani, nelle orecchie, nei piedi. Ma che fa questo Salvatore dappertutto? Raddrizza tutto, tutto purifica, tutto mortifica, vivifica ogni cosa. Ama nel cuore, capisce nel cervello, anima nel petto, vede negli occhi, parla nella lingua, e così via: fa tutto in tutti e allora viviamo, non noi, ma è Gesù Cristo che vive in noi.
Trasforma anche i giorni e le notti, per cui “Le notti sono giorni quando Dio è nel nostro cuore e i giorni diventano notti quando Lui non c’è”.

(continua)