Don Bosco, La Salette, Lourdes

In questo mese che ci ricorda le apparizioni di Lourdes, ci permettiamo di cogliere l’occasione per puntualizzare l’errore in cui, qualche tempo fa, è caduto l’autore di un’anti-agiografia di don Bosco nel suo tentativo di ridicoleggiare la divozione a Maria Ausiliatrice.
Scrisse, adunque quel saggista:
«In tanta impregnazione di culto mariano, di storia quasi sub specie Mariae, stupisce non trovare tracce, nella vita di don Bosco, di fatti così importanti come le apparizioni de La Salette (1846) e di Lourdes (1858); eppure tutto quello che accadeva in Francia era a Torino risentitissimo, molto più di quel che si srotolava in Italia. Non capisco questa assenza d’echi. Era il mantello di Maria Ausiliatrice e della Consolata a formare come una gelosa barriera contro altre protezioni e discese della stessa Figura?».

Ciò che qui davvero stupisce è la sorpresa di uno scrittore non ignaro delle fonti salesiane, perché don Bosco parlò e scrisse ripetutamente delle apparizioni di La Salette e di Lourdes. Nel 1871, e cioè ben tre anni dopo la consacrazione della chiesa di Maria Ausiliatrice e del relativo impegno di don Bosco per diffonderne la divozione, egli stesso compilò e pubblicò come fascicolo di maggio delle sue «Letture Cattoliche», il libretto intitolato: Apparizione della Beata Vergine sulla montagna di La Salette. In questo volumetto di 92 pagine, che ebbe una terza edizione nel 1877, don Bosco descrive l’Apparizione in tutti i suoi particolari, per passare poi ad altri fatti prodigiosi attribuiti alla Vergine.
Due anni dopo, nel 1873, pubblicava, come fascicolo di dicembre delle stesse «Letture Cattoliche», il libretto intitolato: Le Meraviglie della Madonna di Lourdes. Il fascicolo uscì anonimo ma era preceduto da un annunzio «Ai benefattori nostri corrispondenti e lettori» firmato da don Bosco.
Nelle Memorie Biografiche
E non è tutto. Nelle Memorie Biografiche, descrivendo la prima festa dell’Immacolata celebrata in Casa Pinardi a Valdocco l’8 dicembre 1846, il biografo, don G.B. Lemoyne, asserisce che la festa fu «rallegrata eziandio dalla fama di un’apparizione della Madonna in Francia alla Salette»; e continua: «Fu questo l’argomento prediletto di don Bosco, ripetuto da lui cento volte».

Agli ipercritici l’espressione «cento volte» sembrerà esagerata, ma chi conosce la nostra lingua sa che da noi significa semplicemente «molte volte» («te l’ho ripetuto cento volte»). E «molte volte» non significa «poche», tanto meno «mai».
Nelle stesse Memorie troviamo scritto dell’8 dicembre 1858:
«Lieto don Bosco di tali incoraggiamenti celebrava la festa dell’Immacolata Concezione di Maria SS. Tanto più che in quest’anno un portentoso avvenimento aveva in tutto il mondo fatto risuonare la gloria e la bontà della celeste Madre e don Bosco l’aveva narrato più volte ai suoi giovani e più tardi ne consegnava alla stampa la relazione». Si trattava, evidentemente di Lourdes.
C’è dell’altro ancora. Una cronaca dell’anno 1865 riferisce la «Buona Notte», o sermoncino serale ai giovani, fatto da don Bosco l’11 gennaio di quell’anno:
«Vi voglio contare cose magnifiche stasera. La Madonna si degnò di comparire molte volte in pochi anni ai suoi devoti. Comparve in Francia nel 1846 a due pastorelli, dove, fra le altre cose, predisse la malattia delle patate e dell’uva, come avvenne; e si doleva che la bestemmia, il lavorare alla festa, lo stare in chiesa come cani, avessero acceso l’ira del suo Divin Figlio. Comparve nel 1858 alla piccola Bernardetta presso Lourdes, raccomandandole che si pregasse per i poveri peccatori…».
Si noti che in quell’anno si erano cominciati i lavori per la costruzione della chiesa di Maria Ausiliatrice; eppure don Bosco non dimenticò le apparizioni mariane in Francia.
Poi basta cercare nel Bollettino Salesiano per trovare tanti riferimenti a Lourdes e Salette.
Come si può insinuare, allora, che «il mantello di Maria Ausiliatrice» formasse come «una gelosa barriera contro altre protezioni e discese della stessa Figura»? Come si può affermare che manchino nella vita di don Bosco tracce di fatti così importanti come l’Apparizione de La Salette (1846) e di Lourdes (1858)?
Noi che andiamo sempre in cerca di «curiosità», abbiamo voluto registrare anche questa, che rivela come certa saggistica abbia ben poco da spartire con un’autentica e seria conoscenza storica.




Connettersi alla mentalità dei Millennials e della “Generazione Z”

La comunicazione coinvolge diverse componenti che dobbiamo seriamente prendere in considerazione: prima di tutto, il mittente che codifica il messaggio scegliendo il mezzo attraverso il quale questo viene trasmesso dal mittente al ricevitore. Il ricevitore, a sua volta, analizza il messaggio nel suo contesto e lo interpreta secondo l’intenzione del mittente o in una maniera diversa. Infine, il feedback indica la qualità del messaggio ricevuto. Qualsiasi tentativo di comunicare Cristo oggigiorno, parte dalla comprensione della mentalità della generazione dei giovani di oggi. Il presente articolo tratterà proprio questo tema.

Una generazione è un gruppo che potrebbe essere identificato dall’anno di nascita e da eventi significativi che ne abbiano modellato la personalità, i valori, le aspettative, le qualità comportamentali e le capacità motivazionali. I sociologi chiamano la generazione dei nati tra il 1943 e il 1960 “Baby Boomer”. La GenerazioneX comprende i nati tra il 1961 e il 1979. I Millennials (chiamati anche Generazione Y) include i nati tra il 1980 e il 2000. Della Generazione Z fanno parte i nati dopo il 2000.

I mittenti sono i pastori-educatori salesiani e gli animatori giovanili. I ricevitori sono i giovani ed i giovani adulti di oggi che sono costituiti principalmente dai Millennials e dalla Generazione Z. Perciò, questa presentazione si focalizzerà sul cercare di capire la loro mentalità per scoprire i modi di comunicare a loro il nostro messaggio, Gesù Cristo. Non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà del “divario digitale”, che riflette l’enorme e crescente disuguaglianza sociale tra coloro che hanno facile accesso a Internet e coloro che non ce l’hanno, specialmente molti giovani. Quindi, i fattori socio-economici del divario digitale sono varianti importanti da considerare; tuttavia qui vengono evidenziate le caratteristiche che si ritrovano comunemente in tutti i contesti. Una risposta importante a questo articolo è il confronto tra ciò che viene descritto qui e il contesto specifico del lettore.

I MILLENNIALS
Oggi i Millennials hanno tra i 20 e i 41 anni circa. Hanno imparato ad usare la tecnologia e ne sono diventati dipendenti in un’età più precoce rispetto alle generazioni precedenti. I più giovani Millennials non potrebbero nemmeno immaginare la vita senza smartphone e internet. Appartengono a una generazione che è estremamente connessa attraverso i social media. Vivono in un’epoca in cui un post può raggiungere innumerevoli persone e attraversare barriere linguistiche, culturali e geografiche. Questo ha creato in loro il desiderio di poter accedere a tutte le informazioni che vogliono e che forniscano loro risposte e feedback istantanei.

I Millennials vogliono essere coinvolti avendo l’opportunità di condividere i loro pensieri poiché amano socializzare le idee e scegliere la migliore fra queste. Vogliono essere parte della conversazione ascoltando e parlando. Quando le loro opinioni vengono ascoltate, si sentono apprezzati e saranno pronti ad impegnarsi in qualcosa di cui si sentono parte. I Millennials vogliono che la loro fede sia olisticamente integrata nella loro vita, compreso l’ambito della tecnologia. Sono la generazione delle app. Le app sono diventate per loro uno strumento per comunicare, elaborare informazioni, acquistare beni o anche leggere le Scritture e pregare. Sono esperti di tecnologia e usano le app fino a due ore al giorno. Desiderano essere visibili. Sono ottimisti e vogliono condividere, preferendo comunicare attraverso messaggi di testo. Sono concentrati sull’“adesso” ma tendono ad essere idealisti.

LA GENERAZIONE Z
Oggi i ragazzi della Generazione Z sono quelli che hanno 21 anni o meno. Sono i primi ad avere internet a portata di mano. Sono nativi digitali perché sono stati esposti a internet, ai social network e ai cellulari fin dalla più tenera età. Usano internet per socializzare senza distinguere gli amici che incontrano online da quelli del mondo fisico. Per loro, il mondo virtuale è tanto reale quanto il mondo in presenza. Sono sempre connessi: per loro non esiste più l’offline. Sono attivi creatori e grandi consumatori di contenuti online. Preferiscono i siti internet per comunicare e interagire con le persone, specialmente usando le immagini; prediligono partecipare e rimanere connessi tramite la tecnologia a portata di mano. Sono creativi, realistici e concentrati sul futuro.

Hanno una profonda consapevolezza su questioni ed eventi importanti e hanno un grande desiderio di cercare la verità, ma vogliono scegliere e scoprire la verità da soli. Infatti, la ricerca della verità è al centro del loro comportamento tipico e dei loro modelli di consumo.
Quelli della Generazione Z usano i social network come Facebook, WhatsApp, Twitter, Instagram, Tiktok, Tumblr per ottenere informazioni sulle questioni sociali, sulla salute e l’alimentazione, sulla spiritualità ecc. Ma sono anche grandi utilizzatori di piattaforme sociali anonime come Snapchat, Secret, Whisper, dove qualsiasi immagine compromettente scompare quasi istantaneamente. Con una grande quantità di informazioni a loro disposizione, sono più pragmatici e meno idealisti dei Millennials. Il loro continuo ricorrere all’online potrebbe condurli al rischio di condividere eccessivamente le informazioni personali nel mondo virtuale e a diventare dipendenti da internet. Il loro carattere viene plasmato da ciò che pubblicano su se stessi online e da ciò che gli altri pubblicano e commentano sul loro conto. Tra di essi, una grande maggioranza in tutti i continenti si dichiara religiosa ma non si identifica necessariamente in una religione: credono senza appartenere, altri appartengono senza credere. Coloro che dichiarano di non appartenere a nessuna religione specifica provengono normalmente da famiglie senza fede religiosa o da cristiani tiepidi. Sono molto meno religiosi rispetto ai Millennials.

I SOCIAL MEDIA
È vero che i social media potrebbero in qualche modo ostacolare le relazioni interpersonali autentiche. Potrebbero anche essere usati come piattaforma per la distribuzione e l’accesso a materiali che potrebbero causare danni morali, sociali e spirituali. In verità, qualsiasi mezzo ha il potenziale per essere usato per il male. È vero che i social media sono stati usati, per esempio, per globalizzare populismi e per scatenare rivoluzioni come la primavera araba e le proteste dei gilet gialli in Francia.

Eppure, i social media hanno anche permesso alle persone di rimanere connesse a livello globale, hanno dato a ciascuno di noi la capacità di aggiornarsi a vicenda su ciò che sta accadendo nelle nostre vite, di condividere idee potenti e di invitare le persone a conoscere Gesù Cristo. I social media sono diventati il nostro cortile virtuale. Perciò, è importante che passiamo dalla demonizzazione del mezzo, all’educazione dei giovani al suo uso corretto e allo sviluppo delle sue potenzialità per evangelizzare.

COMUNICARE CRISTO
La testimonianza credibile è una condizione importante per comunicare Cristo. Nel mondo virtuale, la testimonianza implica visibilità (manifestiamo in maniera visibile la nostra identità cattolica), verità (ci assicuriamo di essere portatori della verità e non di notizie false) e credibilità (le immagini che presentiamo rafforzano il messaggio che vogliamo comunicare). La fede deve essere presentata ai Millennials e alla Generazione Z in modi nuovi e coinvolgenti. Questo, a sua volta, offrirà loro la possibilità di condividere la fede con i propri coetanei. Dovremmo resistere alla tentazione di bombardare i social media con messaggi e immagini religiose. Questo, in realtà, allontanerà un gran numero di giovani.
Il Primo annuncio non riguarda le dottrine cristiane da insegnare. L’aggettivo “primo” non va inteso in senso strettamente lineare o cronologico come il primo momento dell’annuncio, perché in realtà ne impoverisce la ricchezza.  È piuttosto “primo” nel senso in cui il termine arché era inteso dagli antichi filosofi greci come il principio o l’elemento fondamentale da cui tutto ha origine, o quello da cui tutte le cose sono formate. È il fondamento di una nuova evangelizzazione e di tutto il processo di evangelizzazione.
Il primo annuncio cerca di promuovere un’esperienza travolgente ed entusiasmante capace di suscitare il desiderio di cercare la verità e l’interesse per la persona di Gesù. Questa, eventualmente, porta ad una prima adesione a Lui, o alla rivitalizzazione della fede in Lui. Il primo annuncio è quella scintilla che porta alla conversione. Questa scelta per Cristo è il feedback del messaggio. Ad esso segue poi il processo di evangelizzazione attraverso il catecumenato e la catechesi sistematica. Senza il primo annuncio che porta ad un’opzione personale per Cristo, qualsiasi sforzo di evangelizzazione sarà sterile. Invece, la sfida per ogni pastore-educatore salesiano, per ogni animatore giovanile, per ogni discepolo missionario è quella di aiutare gli stessi Millennials e la Generazione Z a creare sui social media contenuti basati sulla fede che possano suscitare nei loro coetanei un interesse a conoscere la persona di Gesù Cristo. Non si tratta di creare contenuti per i social media. Questa è una tentazione a cui bisogna resistere con forza. Il nostro compito è quello di formare e accompagnare gli stessi Millennials e la Generazione Z in modo che possano creare per se stessi e per i loro coetanei dei contenuti basati sulla fede, condivisi sui social media, che possano risvegliare l’interesse a conoscere la persona di Gesù Cristo. Davvero, oggi i social media sono una piattaforma privilegiata per comunicare Cristo ai giovani. Sta a ciascuno di noi usarli con creatività missionaria!

GLI AMBIENTI VIRTUALI GIOVANILI DI OGGI
Nuove intuizioni da una prospettiva missionaria
Sondaggio effettuato da Juan Carlos Montenegro e don Alejandro Rodriguez sdb, Ispettoria San Francisco (SUO), Stati Uniti d’America.

Il comando di Gesù “Andate e fate discepoli” (Mt 28,19) continua a risuonare per noi oggi. Il nostro amore per Cristo ci sfida ad andare oltre i nostri confini e raggiungere ogni persona, in particolare i giovani della società attuale. Per fare questo abbiamo bisogno di osservare la realtà dal loro punto di vista, capire in che modo essi elaborano le informazioni e come queste informazioni influenzino il loro comportamento. Tuttavia, la nostra missione principale come educatori-evangelizzatori salesiani è di avvicinarli a Cristo e avvicinare Cristo a loro.

Le differenze generazionali potrebbero essere una sfida che non aiuta a metterci in cammino per essere “pienamente” presenti in questo nuovo cortile dove i giovani hanno costruito il proprio linguaggio, hanno sviluppato le proprie regole e hanno creato nuove espressioni e diversi tipi di relazioni significative. Questo nuovo cortile è un mondo virtuale dove i giovani di oggi vivono, interagiscono, sognano, si impegnano e soffrono. L’amore e il sigillo missionario di don Bosco ci spingono ad abbracciare questa nuova realtà con speranza, fede e carità pastorale.

Se non conosciamo la nuova realtà che i giovani stanno affrontando nel mondo virtuale, la nostra proposta e il nostro accompagnamento come educatori-evangelizzatori saranno insignificanti e irrilevanti. Il Quadro di Riferimento della Pastorale Giovanile Salesiana (2015) ci chiama ad essere presenti nel “nuovo cortile”. Ora più che mai, dobbiamo innovare e adattare il nostro stile salesiano di presenza tra i giovani.

Per capire che cosa sta succedendo in questo nuovo cortile virtuale, il Settore Missioni ha condotto un sondaggio online a livello congregazionale cercando di capire i nostri giovani, che cosa pensano, che cosa fanno, che cosa si aspettano riguardo ai contenuti, alle possibilità e all’uso dei social media. Il sondaggio online in 6 lingue ha coinvolto 1731 giovani delle nostre comunità educativo-pastorali salesiane che hanno tra i 13 e i 18 anni provenienti da 37 paesi e 6 diversi continenti. Questo è importante da tenere presente perché le risposte dei giovani che non provengono dall’ambiente salesiano possono essere diverse.

Punti rilevanti:
            • È noto che l’aumento dell’utilizzo di internet è associato nei giovani ad una diminuzione nella comunicazione con i membri della famiglia, ad un calo della partecipazione alla vita sociale e ad un aumento della depressione e della solitudine. Questi sono temi importanti da tenere a mente per quanto riguarda l’accompagnamento nella nostra pianificazione pastorale.
            • Il 91% dei nostri giovani usa i telefoni cellulari per accedere ai social media. Questi dispositivi sono associati a problemi comportamentali e anche a possibili problemi di salute. Il 75% degli intervistati è connesso a Internet per oltre 6 ore a settimana, ma può superare le 20 ore in alcuni casi. L’essere connessi ha molte implicazioni, come lo spostamento dello sviluppo delle abilità sociali, delle relazioni, della conoscenza ecc.

            • I giovani intervistati ritengono che le più grandi minacce derivanti dall’uso dei social media siano il bullismo online, la pedofilia, le fake news, i molestatori e gli hacker. Mentre il 26% dei nostri giovani afferma di essere stato vittima di bullismo.
            • Per mancanza di supervisione e/o formazione e accompagnamento i giovani sono esposti a contenuti per adulti; la presenza educativa più urgente degli adulti inizia con i ragazzi all’età di 11-13 anni perché è il momento in cui, secondo l’indagine, sono più vulnerabili ai contenuti di questo tipo sulle pagine web.
            • Per quanto riguarda la nostra presenza con contenuti religiosi, il 73% dei giovani che hanno partecipato a questo sondaggio hanno avuto qualche tipo di contatto con contenuti religiosi. Il 48% crede che internet aiuti a sviluppare la loro relazione con Dio.
            • I nostri giovani visitano siti web che sono legati a video e musica, giochi, tutorial ecc. L’88% degli intervistati preferisce i video come tipo di contenuto.
            • I giovani preferiscono WhatsApp (64%), Instragram (61%), Youtube (41%), TikTok o Facebook (37%) e Messenger (33%). Questa informazione ci aiuta a migliorare le nostre modalità di comunicazione con loro perché gli adulti potrebbero sforzarsi di più per essere presenti in piattaforme dove i giovani non ci sono. Forse i migliori canali di comunicazione potrebbero essere Facebook per i genitori e Instagram per i nostri giovani.

Questa indagine è un potente richiamo che sfida noi educatori ed evangelizzatori dei giovani ad essere presenti tra i nostri giovani in modo rilevante e significativo nei social media.




Il figlio più intelligente

Molto tempo fa c’era un uomo che aveva tre figli ai quali voleva molto bene. Non era nato ricco, ma con la sua saggezza e il duro lavoro era riuscito a risparmiare un bel po’ di soldi e a comprare un fertile podere.
Quando divenne vecchio, cominciò a pensare a come dividere tra i suoi figli ciò che possedeva. Un giorno, quando ormai era molto vecchio e malato, decise di fare una prova per capire quale dei suoi figli fosse il più intelligente.
Chiamò allora i tre figli al suo capezzale.
Diede a ciascuno cinque soldi e chiese loro di comprare qualcosa che riempisse la sua stanza, che era vuota e spoglia.
Ciascuno dei figli prese i soldi e uscì per esaudire il desiderio del padre.
Il figlio più grande pensò che fosse un lavoro facile. Andò al mercato e comprò un fascio di paglia, ossia la prima cosa che gli capitò sotto gli occhi. Il secondo figlio, invece, rifletté per qualche minuto. Dopo aver girato tutto il mercato e aver cercato in tutti i negozi, comprò delle bellissime piume.
Il figlio più piccolo considerò per un lungo tempo il problema. «Cosa c’è che costa solo cinque soldi e può riempire una stanza?» si chiedeva. Solo dopo molte ore passate a pensare e ripensare, trovò qualcosa che faceva al suo caso, e il suo volto si illuminò. Andò in un piccolo negozio nascosto in una stradina laterale e comprò, con i suoi cinque soldi, una candela e un fiammifero. Tornando a casa era felice e si domandava cosa avessero comprato i suoi fratelli.
Il giorno seguente, i tre figli si riunirono nella stanza del padre. Ognuno portò il suo regalo, l’oggetto che doveva riempire una stanza. Per primo il figlio grande sparse la sua paglia sul pavimento, ma purtroppo questa riempì solo un piccolo angolo. Il secondo figlio mostrò le sue piume: erano molto graziose, ma riempirono appena due angoli.
Il padre era molto deluso degli sforzi dei suoi due figli maggiori.
Allora il figlio più piccolo si mise al centro della stanza: tutti gli altri lo guardavano incuriositi chiedendosi: «Cosa può aver comprato?».
Il ragazzo accese la candela con il fiammifero e la luce di quel l’unica fiamma si diffuse per la stanza e la riempì.
Tutti sorrisero.
Il vecchio padre fu felice del regalo del figlio più piccolo. Gli diede tutta la sua terra e i suoi soldi, perché aveva capito che quel ragazzo era abbastanza intelligente da farne buon uso e si sarebbe preso saggiamente cura dei suoi fratelli.

Con un sorriso puoi illuminare il mondo, oggi. E non costa nulla.




Bullismo. Una cosa nuova? C’era anche nei tempi di don Bosco

Non è certamente un mistero per i più attenti conoscitori della “realtà viva” di Valdocco e non solo “ideale” o “virtuale”, che la vita quotidiana in una struttura decisamente ristretta per accogliere 24 ore su 24 e per molti mesi all’anno varie centinaia di bambini, ragazzi e giovani eterogenei per età, provenienza, dialetto, interessi, poneva problemi educativi e disciplinari non indifferenti a don Bosco e ai suoi giovani educatori. Riportiamo due episodi significativi al riguardo, per lo più sconosciuti.

La violenta colluttazione
Nell’autunno 1861 la vedova del pittore Agostino Cottolengo, fratello del famoso (san) Benedetto Cottolengo, dovendo collocare i suoi due figli, Giuseppe e Matteo Luigi, nella capitale del neonato Regno d’Italia per motivi di studio, chiese al cognato, can. Luigi Cottolengo di Chieri, di individuare un collegio adatto. Questi suggerì l’oratorio di don Bosco e così il 23 ottobre i due fratelli, accompagnati da un altro zio, Ignazio Cottolengo, frate domenicano, entrarono al Valdocco a 50 lire mensili di pensione. Prima di Natale il quattordicenne Matteo Luigi era però già ritornato a casa per motivi di salute, mentre il fratello maggiore Giuseppe, ritornato a Valdocco dopo le vacanze natalizie, un mese dopo fu allontanato per causa di forza maggiore. Che cosa era successo?
Era successo che il 10 febbraio 1862, Giuseppe, sedicenne, era venuto alle mani con un certo Giuseppe Chicco, di nove anni, nipote del can. Simone Chicco di Carmagnola, che probabilmente ne pagava la pensione.

Nella colluttazione, con tanto di bastone, il bambino ovviamente ebbe la peggio, restandone seriamente ferito. Don Bosco si premurò di farlo ricoverare presso la fidatissima famiglia Masera, onde evitare che la notizia dello spiacevole episodio si diffondesse in casa e fuori casa. Il bambino venne visitato da un medico, il quale redasse un referto piuttosto pesante, utile “per chi di ragione”.

L’allontanamento provvisorio del bullo
Per non correre rischi e per ovvi motivi disciplinari, don Bosco il 15 febbraio si vide costretto ad allontanare per qualche tempo il giovane Cottolengo, facendolo accompagnare non a Bra a casa della madre che ne avrebbe sofferto troppo, ma a Chieri, dallo zio canonico. Questi, due settimane dopo, chiese a don Bosco delle condizioni di salute del Chicco e delle spese mediche sostenute, onde risarcirle di tasca propria. Gli chiese altresì se era disposto a riaccettare a Valdocco il nipote. Don Bosco gli rispose che il fanciullo ferito era ormai quasi completamente guarito e che per le spese mediche non c’era in alcun modo da preoccuparsi perché “abbiamo da fare con onesta gente”. Quanto a riaccettargli il nipote, “s’immagini se mi ci posso rifiutare”, scriveva. Però a due condizioni: che il ragazzo riconoscesse il suo torto e che il can. Cottolengo scrivesse al can. Chicco, onde chiedergli scusa a nome del nipote e pregarlo di “dire una semplice parola” a don Bosco perché riaccogliesse a Valdocco il giovane. Don Bosco gli garantiva che il can. Chicco non solo avrebbe accolto le scuse – gli aveva già scritto al riguardo – ma aveva già fatto ricoverare il nipotino “in casa di un parente per impedire ogni pubblicità”. A metà marzo entrambi i fratelli Cottolengo venivano riaccolti a Valdocco “in modo gentile”. Matteo Luigi vi rimase però solo fino a Pasqua per i soliti disturbi di salute, mentre Giuseppe fino al termine degli studi.

Un’amicizia consolidata e un piccolo guadagno
Non ancora contento che la vicenda si fosse conclusa con comune soddisfazione, l’anno successivo il can. Cottolengo insistette nuovamente con don Bosco per pagare le spese del medico e delle medicine del bambino ferito. Il can. Chicco, interpellato da don Bosco, rispose che la spesa complessiva era stata di 100 lire, che però lui e la famiglia del bambino non chiedevano nulla; ma se il Cottolengo insisteva nel voler saldare il conto, devolvesse tale somma “a favore dell’Oratorio di S. Francesco di Sales”. Così dovette avvenire.
Dunque un episodio di bullismo si era risolto in modo brillante ed educativo: il colpevole si era ravveduto, la “vittima” era stata ben assistita, gli zii si erano uniti per il bene dei loro nipoti, le mamme non ne avevano sofferto, don Bosco e l’opera di Valdocco, dopo aver corso qualche rischio, avevano guadagnato in amicizie, simpatie… e, cosa sempre gradita in quel collegio di ragazzi poveri, un piccolo contributo economico. Far nascere il bene dal male non è da tutti, don Bosco ci è riuscito. C’è da imparare.

Un’interessantissima lettera che apre uno spiraglio sul mondo di Valdocco
Ma presentiamo un caso ancor più grave, che di nuovo può essere istruttivo per i genitori e gli educatori di oggi alle prese con ragazzi difficili e ribelli.
Ecco il fatto. Nel 1865 un certo Carlo Boglietti, schiaffeggiato per grave insubordinazione dall’assistente del laboratorio di legatoria, il chierico Giuseppe Mazzarello, denuncia il fatto alla pretura urbana di Borgo Dora, che avvia un’inchiesta, convocando l’accusato, l’accusatore e tre ragazzi quali testimoni. Don Bosco, nel desiderio di sciogliere la questione con minori disturbi delle autorità pensa bene di rivolgersi direttamente e preventivamente per lettera al pretore stesso. Come direttore di una casa educativa crede di poterlo e doverlo fare “a nome di tutti […] pronto a dare a chi che sia le più ampie soddisfazioni”.

Due importanti premesse giuridiche
Nella sua lettera anzitutto difende il suo diritto e la sua responsabilità di padre-educatore dei ragazzi a lui affidati: fa subito notare che l’articolo 650 del codice penale, chiamato in causa dall’atto di convocazione, “sembra interamente estraneo all’oggetto di cui si tratta, imperciocché interpretato nel senso preteso la pretura urbana si verrebbe ad introdurre nel Regime domestico delle famiglie, i genitori e chi ne fa le veci non potrebbero più correggere la propria figliolanza neppure impedire un’insolenza ed un’insubordinazione, [cose] che tornerebbero a grave danno della moralità pubblica e privata”.
In secondo luogo ribadisce che la facoltà “di usare tutti que’ mezzi che si fossero giudicati opportuni […] per tenere in freno certi giovanetti” gli era stata concessa dall’autorità governativa che gli inviava i ragazzi; solo nei casi disperati – invero “più volte” – aveva dovuto far intervenire “il braccio della pubblica sicurezza”.

L’episodio, i precedenti e le conseguenze educative
Quanto al giovane Carlo in questione, don Bosco scrive che, di fronte a continui gesti ed atteggiamenti di ribellione, “fu più volte paternamente, inutilmente avvisato; che egli si dimostrò non solo incorreggibile, ma insultò, minacciò ed imprecò il ch. Mazzarello in faccia a’ suoi compagni”, al punto che “quell’assistente d’indole mitissima, e mansuetissima ne rimase talmente spaventato, che d’allora in poi fu sempre ammalato senza aver mai più potuto ripigliare i suoi doveri e vive tuttora da ammalato”.
Il ragazzo era poi scappato dal collegio e tramite la sorella aveva informato i superiori della fuga solo “quando seppe che non si poteva più tenere nascosta la notizia alla questura”, cosa che non si era fatto prima “per conservargli la propria onoratezza”. Purtroppo i suoi compagni avevano continuato negli atteggiamenti di protesta violenta, tanto che – scrive ancora don Bosco – “fu mestieri cacciarne alcuni dallo stabilimento, altri con dolore consegnarli alle autorità della pubblica sicurezza che li condussero in prigione”.

Le richieste di don Bosco
A fronte di un giovane “discolo, che insulta e minaccia i suoi superiori” e che ha poi “l’audacia di citare avanti le autorità coloro che per il suo bene […] consacrano vita e sostanze” don Bosco in linea generale sostiene che “l’autorità pubblica dovrebbe sempre venire in aiuto dell’autorità privata e non altrimenti”. Nel caso specifico poi non si oppone al procedimento penale, ma a due precise condizioni: che il ragazzo presenti preventivamente un adulto che paghi “le spese che possono occorrere e che si faccia responsabile delle gravi conseguenze che forse ne potrebbero avvenire”.
Per scongiurare l’eventuale processo, che indubbiamente sarebbe stato strumentalizzato dalla stampa avversa, don Bosco calca la mano: chiede preventivamente che “siano riparati i danni che l’assistente ha sofferto nell’onore e nella persona almeno finché possa ripigliare le sue ordinarie occupazioni, “che le spese di questa causa siano a conto di lui” e che né il ragazzo né “il suo parente o consigliere” sig. Stefano Caneparo non vengano più a Valdocco “a rinnovare gli atti d’insubordinazione e gli scandali già altre volte cagionati”.

Conclusione
Come sia andata a finire la triste vicenda non è dato sapere; con ogni probabilità si venne ad una previa conciliazione fra le parti. Resta però il fatto che è bene sapere che i ragazzi di Valdocco non erano tutti dei Domenico Savio, dei Francesco Besucco e neppure dei Michele Magone. Non mancavano giovani “avanzi di galera” che davano filo da torcere a don Bosco e ai suoi giovanissimi educatori. L’educazione dei giovani è sempre stata arte impegnativa non aliena da rischi; ieri come oggi, c’è bisogno di stretta collaborazione fra genitori, insegnanti, educatori, tutori dell’ordine, tutti interessati al bene esclusivo dei giovani.




Scoperta della vocazione missionaria

L’esperienza di Rodgers Chabala, giovane missionario zambiano in Nigeria, a partire dalla riscoperta di don Bosco nella visita ai suoi luoghi.

Il giovane salesiano Rodgers Chabala è parte della nuova generazione di missionari, secondo il paradigma rinnovato che va oltre i confini geografici o i precetti culturali: dallo Zambia è stato inviato come missionario in Nigeria. Il corso missionari vissuto lo scorso settembre è stato per lui un momento forte, in particolare l’atmosfera respirata nei luoghi di don Bosco: una vera esperienza spirituale.

Don Bosco iniziò il suo lavoro con i propri ragazzi accorgendosi che nessuno si occupava dell’anima di questi giovani piemontesi, che finivano spesso in carcere per furti, contrabbando o altri crimini. Se questi giovani avessero avuto un amico fidato, qualcuno che li avesse istruiti e dato loro il buon esempio, non sarebbero finiti lì e così don Bosco fu inviato da Dio a loro. Possiamo dire che tutto iniziò con il sogno dei nove anni, che don Bosco comprese gradualmente nel tempo, grazie all’aiuto di tante persone che lo aiutarono a fare discernimento. Il suo desiderio pastorale di curarsi delle anime dei giovani raggiunse tutto il mondo grazie ai missionari salesiani, iniziando da quel gruppo di undici inviato in Patagonia, Argentina, nel 1875. Inizialmente don Bosco non aveva chiara l’intenzione di inviare missionari, ma Dio nel tempo purificò questo desiderio e permise la diffusione del carisma salesiano in ogni angolo della nostra Terra.

La vocazione missionaria salesiana è una “vocazione dentro la vocazione”, una chiamata alla vita missionaria all’interno della propria vocazione salesiana. Rodgers, sin dagli inizi, sentiva forte il desiderio missionario, ma non era facile far capire agli altri quali fossero le sue motivazioni. Al tempo dell’aspirantato, quando ancora non conosceva bene la vita salesiana, fu colpito molto dalla testimonianza di un missionario polacco e iniziò a riflettere e lottare con sé stesso per decifrare le intenzioni del proprio cuore. Quando il missionario chiese “chi vuole essere missionario?”, Rodgers non dubitò ed iniziò il percorso del discernimento, partendo dalla risposta del salesiano polacco, ovvero di iniziare amando il proprio Paese. Ovviamente, tante sfide iniziarono ad emergere e non mancarono i momenti di scoraggiamento. Come per don Bosco, per Rodgers sono stati fondamentali l’aiuto e la mediazione di tante persone per distinguere la voce di Dio da altre influenze e purificare le proprie intenzioni. Dio parla attraverso le persone, il discernimento non è un processo meramente individuale, ha sempre una dimensione comunitaria.

Lo scorso settembre, Rodgers ha partecipato al corso di formazione per nuovi missionari, che precede l’invio ufficiale da parte del Rettor Maggiore. Arrivato qualche giorno dopo gli altri, ha ritrovato, dopo diversi anni, alcuni suoi compagni di noviziato e il suo vecchio direttore dello studentato di filosofia. Unitosi al gruppo, da subito ha notato un clima particolare, facce sorridenti e gioia vera. Le riflessioni sull’interculturalità e gli altri approfondimenti curati dal Settore per le Missioni sono stati strumenti utili per prepararsi alla partenza missionaria. Durante il corso, i partecipanti hanno avuto l’opportunità di visitare i luoghi di don Bosco, prima al Colle Don Bosco e poi a Valdocco. Don Alfred Maravilla, Consigliere generale per le Missioni, ha chiesto ai neomissionari: “Queste visite ai luoghi santi di don Bosco che effetto hanno nella tua vita?”. Quando si legge la vita di don Bosco sui libri, possono sorgere dubbi e si può addirittura essere scettici, ma vedere con i propri occhi quei luoghi e respirare l’atmosfera di don Bosco ripercorrendo la sua storia è qualcosa che difficilmente si può raccontare. Oltre alla memoria storica di quello che è capitato a don Bosco, a Domenico Savio e a Mamma Margherita, questi luoghi hanno la capacità di rinvigorire il carisma salesiano e fanno riflettere sulla propria vocazione. La semplicità e lo spirito di famiglia di don Bosco mostrano come la povertà non è un ostacolo alla santità e alla realizzazione del Regno di Dio. Parlando di don Bosco spesso corriamo il rischio di omettere la parte mistica, concentrandoci solo sulle attività e sulle opere. Don Bosco era veramente un mistico nello spirito, che coltivava un’intima relazione con il Signore ed è questo il punto di partenza per la sua missione giovanile.

Arriviamo così al 25 Settembre 2022: don Ángel Fernández Artime, il don Bosco di oggi, presiede la messa con l’invio dei salesiani della 153esima spedizione missionaria SDB e delle suore della 145esima spedizione FMA, nella Basilica di Maria Ausiliatrice, a Valdocco. Rodgers ricorda di aver incontrato, qualche giorno prima, il suo nuovo superiore dell’ispettoria ANN (Nigeria-Niger), ed aver sentito il peso della responsabilità della scelta missionaria fatta. Durante la messa, dice Rodgers, “ho ricevuto la croce missionaria e il desiderio di essere missionario è stato ampiamente attualizzato”.
“Una volta per tutte, la vocazione missionaria è una vocazione bellissima, una volta compiuto attentamente il cammino di discernimento. Richiede un’apertura mentale per apprezzare lo stile di vita degli altri popoli. Preghiamo quindi per tutti i missionari del mondo e per coloro che stanno discernendo la vocazione missionaria, affinché Dio li guidi e li ispiri nella loro vita.”

A consegnato,
Marco Fulgaro




San Francesco di Sales. Amicizia (2/8)

(continuazione dall’articolo precedente)

L’AMICIZIA IN SAN FRANCESCO DI SALES (2/8)

Dopo aver incontrato Francesco di Sales attraverso il racconto della sua vita, guardiamo alla bellezza del suo cuore e presentiamo alcune virtù con l’obiettivo di far nascere in tanti il desiderio di approfondire la ricca personalità di questo santo.

La prima fotografia, quella che affascina da subito chi si avvicina a Francesco di Sales, è l’amicizia! È il biglietto da visita con cui egli si presenta.

C’è un episodio di Francesco ventenne che pochi conoscono: dopo dieci anni di studio a Parigi è arrivato il momento di ritornare in Savoia, a casa, ad Annecy. Quattro suoi compagni lo accompagnano fino a Lione e si salutano in lacrime.

Questo fatto ci aiuta a comprendere e a gustare quanto Francesco scrive verso la fine della sua vita, consegnandoci una rara fotografia del suo cuore:
“Penso che nel mondo non vi siano anime che amino più cordialmente e più teneramente e, per dire tutto molto alla buona, più amorosamente di me, perché a Dio è piaciuto fare così il mio cuore. E tuttavia, amo le anime indipendenti, vigorose, perché la tenerezza troppo grande sconvolge il cuore, lo rende inquieto e lo distrae dalla meditazione amorosa di Dio. Quello che non è Dio, non è nulla per noi”.

E ad una signora parla della sua sete di amicizia:
“Vi devo dire in confidenza queste poche parole: non vi è al mondo un uomo che abbia un cuore più tenero e più assetato di amicizia che il mio o che senta più dolorosamente di me le separazioni”.

Antoine FAVRE – Ritratto, collezione privata
Fonte: Wikipedia

Tra le centinaia di destinatari delle sue lettere, ne ho scelti tre, scrivendo ai quali Francesco mette in risalto le caratteristiche dell’amicizia salesiana, quale l’ha vissuta e che propone a noi oggi.
Il primo grande amico che incontriamo è il suo concittadino Antoine Favre. Francesco, laureato brillantemente in giurisprudenza, ha una gran voglia di incontrare e di guadagnarsi la stima di questo luminare.

In una delle prime lettere troviamo un’espressione, che suona come una sorta di giuramento:
“Questo dono (l’amicizia), tanto apprezzabile anche per la sua rarità, è veramente impagabile e per me tanto più caro in quanto che non avrebbe mai potuto toccarmi per i miei meriti personali. Vivrà sempre nel mio petto l’ardente desiderio di coltivare diligentemente tutte le amicizie!”

La prima caratteristica dell’amicizia è la comunicazione, il dare notizie, il condividere stati d’animo.

A inizio dicembre 1593 nasce a Francesco l’ultima sorellina, Giovanna, e ne dà prontamente notizia all’amico:
“Vengo a sapere che mia carissima madre, che è nel suo quarantaduesimo anno d’età, darà presto alla luce il suo tredicesimo figlio. Corro da lei, sapendo che suole rallegrarsi moltissimo per la mia presenza”.

Siamo a pochi giorni dall’ordinazione sacerdotale e Francesco confida all’amico:
“Voi siete l’unico uomo ch’io stimo capace di comprendere pienamente il turbamento del mio spirito; è infatti tremendo presiedere la celebrazione della Messa ed è cosa molto difficile celebrarla con la dovuta dignità”.

Dopo neppure un anno dalla ordinazione troviamo Francesco “missionario” nel Chiablese; comunica la sua fatica e la sua amarezza all’amico:
“Oggi comincio a predicare l’Avvento a quattro o cinque umili persone: tutti gli altri ignorano maliziosamente che cosa voglia dire Avvento”.
Qualche mese dopo con gioia gli dà notizia dei suoi primi successi apostolici:
“Finalmente cominciano a biondeggiare le prime spighe!”

Un altro grande amico di Francesco fu Giovenale Ancina. I due si incontrano a Roma (1599); saranno entrambi consacrati vescovi alcuni anni dopo. Francesco gli scrive varie lettere; in questa prega l’amico, vescovo di Saluzzo, di tenerlo “strettamente unito seco nel suo cuore e anche si degni spesso darmi gli avvisi e i ricordi che lo Spirito Santo gli ispirerà”.

Tra gli amici incontrati a Parigi spicca quella con il celebre padre Pietro de Bérulle, incontrato al circolo di Madame Acarie. A lui Francesco scrive pochi giorni dopo la sua consacrazione episcopale:
“Io sono vescovo consacrato dall’8 di questo mese, giorno di Nostra Signora. Questo mi spinge a scongiurarvi d’aiutarmi tanto più cordialmente con le vostre preghiere. Non c’è rimedio: avremo sempre bisogno di lavarci i piedi, poiché camminiamo nella polvere. Il nostro buon Dio ci conceda la grazia di vivere e di morire nel suo servizio”.

Un altro grande amico di Francesco fu Vincenzo de’ Paoli. Tra loro nacque un’amicizia che continuò oltre la morte del fondatore della Visitazione, in quanto che Vincenzo prese a cuore l’Ordine e ne divenne il punto di riferimento fino alla fine dei suoi giorni (1660). Vincenzo rimase sempre riconoscente al santo vescovo dal quale aveva ricevuto salutari rimproveri sul suo carattere irruente e suscettibile. Ne fece tesoro e poco per volta si corresse e pensando al suo amico non esitava a definirlo “la persona che più di ogni altro aveva rappresentato al vivo l’immagine del Salvatore”.

Leggendo queste lettere scopriamo alcune qualità che devono reggere una vera amicizia: la comunicazione, la preghiera e il servizio (perdono, correzione …).

Ci imbattiamo ora in tanti uomini e donne, cui Francesco indirizza lettere di amicizia spirituale. Alcuni esempi:

Alla signora de la Fléchère scrive:
“Abbiate pazienza con tutti, ma principalmente con voi stessa. Voglio dire che non vi dovete punto turbare per le vostre imperfezioni e avere sempre il coraggio di riprendervi prontamente”.

San Vincenzo de’ Paoli – Fondatore della Congregazione della Missione (lazzaristi)
Ritratto, Simon François de Tours; Fonte: Wikipedia

Alla signora di Charmoisy scrive:
“Dovete stare attenta a cominciare con dolcezza, e di quando in quando dare uno sguardo al vostro cuore per vedere se si è conservato dolce. Se non si è conservato così, raddolcirlo prima di fare qualsiasi cosa”

Queste lettere sono un trattato di amicizia, non perché si parli di amicizia, ma perché chi scrive vive una relazione di amicizia, sapendo creare un clima e uno stile in modo che questa si percepisca e porti frutti di vita buona.

La stessa cosa vale per la corrispondenza con le sue Figlie, le Visitandine.

Alla Madre Favre che sente il peso della sua carica scrive:
“Occorre armarsi di una coraggiosa umiltà e rigettare tutte le tentazioni di scoraggiamento nella santa fiducia che abbiamo in Dio. Siccome questa carica vi è stata imposta per volontà di coloro ai quali dovete obbedire, Dio si metterà alla vostra destra e la porterà con voi, o meglio, la porterà Lui, ma la porterete anche voi”

Alla Madre di Bréchard scrive:
“Chi sa conservare la dolcezza fra i dolori e le infermità e la pace fra il disordine delle sue molteplici occupazioni è quasi perfetto. Questa costanza d’umore, questa dolcezza e soavità di cuore è più rara che la perfetta castità, ma ne è tanto più desiderabile. Da questa, come dall’olio della lampada, dipende la fiamma del buon esempio, perché non vi è altra cosa che edifichi tanto come la bontà caritatevole”.

Santa Giovanna Francesca FRÉMIOT DE CHANTAL, cofondatrice dell’Ordine della Visitazione di Santa Maria
Autore sconosciuto, Monastero della Visitazione di Maria Santissima a Toledo, Ohio (USA); Fonte: Wikipedia

Tra le varie Madri fondatrici un posto particolare spetta alla Fondatrice, Giovanna di Chantal alla quale fin dall’inizio Francesco scrive:
“Credete fermamente che io ho una viva e straordinaria volontà di servire il vostro spirito con tutta la capacità delle mie forze. Mettete a profitto il mio affetto e usate di tutto quello che Dio mi ha dato per il servizio del vostro spirito. Eccomi qui tutto vostro”

E lo dichiara a Giovanna:
“Amo questo amore. Esso è forte, ampio, senza misura né riserva, ma dolce, forte, purissimo e tranquillissimo; in una parola è un amore che vive solo in Dio. Dio che vede tutte le pieghe del mio cuore, sa che in questo non v’è nulla che non sia per Lui e secondo Lui, senza il quale non voglio essere nulla per nessuno”.

Questo Dio che Francesco e Giovanna intendono servire è sempre presente, è la garanzia, perché questo amore resti sempre una consacrazione a Lui solo:
“Vorrei potervi esprimere il sentimento che oggi, mentre mi comunicavo, ho avuto della nostra cara unità, perché è stato un sentimento grande, perfetto, dolce, potente e tale da potersi quasi dire un voto, una consacrazione”.
“Chi mai avrebbe potuto fondere due spiriti in modo così perfetto, che non fossero più che un solo spirito indivisibile e inseparabile, se non Colui che è unità per essenza? […]. Mille e mille volte ogni giorno il mio cuore si trova vicino a voi con mille e mille auguri che presenta a Dio per vostra consolazione”.
“La santa unità che Dio ha operata è più forte che tutte le separazioni, e la distanza dei luoghi non le può nuocere minimamente. Dunque Dio ci benedica sempre con il suo santo amore. Egli ci ha fatti un cuore unico nello spirito e nella vita”.

Termino con un augurio, quello che Francesco scrive ad una delle prime Visitandine, Jacqueline Favre:
“Come sta il povero cuore tanto amato? È sempre coraggioso e vigilante per evitare le sorprese della tristezza? Vi prego: non tormentatelo, neppure quando vi ha giocato qualche piccolo brutto tiro, ma riprendetelo dolcemente e riconducetelo sulla sua strada. Questo cuore diventerà un grande cuore, fatto secondo il cuore di Dio”.

(continua)







Animazione vocazionale nel cuore della pastorale giovanile

La difficoltà maggiore nel servizio di animazione vocazionale oggi non sta tanto nella chiarezza delle idee, quanto in tre aspetti: in primo luogo, la modalità della prassi pastorale; in secondo luogo, il coinvolgimento, la testimonianza e la preghiera di tutta la Comunità educativo-pastorale e, al suo interno, della comunità religiosa nella «cultura vocazionale».

Con il «cambiamento climatico» nelle nostre società, i valori si spostano, vengono trasmessi e talvolta camuffati. Questo cambiamento sembra inevitabile e irreversibile. Tuttavia, sentiamo la responsabilità di essere propositivi e di generare proposte educativo-pastorali ai giovani che favoriscano la risposta al progetto di Dio con libertà, autenticità e determinazione. Negli ultimi anni si è parlato e scritto molto di animazione vocazionale per rivitalizzare i nostri sforzi, riconoscere i nuovi movimenti dello Spirito, aprirci alla riflessione della Chiesa e sviluppare nuove comprensioni dell’accompagnamento e del discernimento vocazionale.

Oggi molti giovani si pongono le stesse domande e non sempre trovano lo spazio per esaminarle e approfondirle. Le domande provengono dal loro intimo, come movimenti interiori che spesso non sanno come interpretare o riconoscere. Ognuno di noi ha avuto più di una volta bisogno della presenza di una persona che ci desse gli strumenti necessari per passare da queste turbolenze interiori alla fiducia in un progetto di vita significativo.
Allo stesso modo, intendiamo per «cultura vocazionale» quell’ambiente, creato dai membri di una Comunità Educativo-Pastorale (non solo la comunità religiosa), che promuove la concezione della vita come vocazione. È un ambiente che permette a ogni individuo, sia egli credente o non credente, di entrare in un processo in cui viene messo in grado di scoprire la propria passione e i propri obiettivi nella vita. «Sentire la vocazione a qualcosa» significa sentirsi chiamati da una realtà preziosa, dalla quale posso leggere e dare un senso alla mia vita. Implica non tanto fare ciò che vogliamo, ma scoprire ciò che siamo chiamati a essere e a fare.

Si può dire che questa cultura vocazionale ha alcune componenti fondamentali: la gratitudine, l’apertura al trascendente, l’interrogazione sulla vita, la disponibilità, la fiducia in sé stessi e negli altri, la capacità di sognare e di desiderare, lo stupore per la bellezza, l’altruismo… Queste componenti sono certamente la base di qualsiasi approccio vocazionale.

Ma dovremmo anche parlare delle componenti specifiche di questa cultura vocazionale salesiana. Si tratta di quegli elementi che favoriscono, tra l’altro: la conoscenza e l’apprezzamento della chiamata personale di Dio (alla vita, alla sequela e a una missione concreta) e i percorsi di vita cristiana (secolare e di speciale consacrazione); la pratica del discernimento come atteggiamento di vita e mezzo per fare una scelta di vita; gli aspetti rilevanti del carisma salesiano stesso.

Ma quali sono le condizioni per una «cultura vocazionale»?
1. La preghiera insistente è alla base di tutta la pastorale vocazionale. Da un lato, per gli operatori pastorali e per tutta la comunità cristiana: se le vocazioni sono un dono, dobbiamo chiedere al Signore della messe (cfr. Mt 9,38) di continuare a suscitare cristiani con vocazioni alle diverse forme di vita cristiana. D’altra parte, un compito fondamentale di tutta la pastorale sarà quello di aiutare i giovani a pregare.

2. Sono le persone a promuovere le vocazioni, non le strutture. Non c’è nulla di più provocatorio della testimonianza appassionata della vocazione che Dio dona a ciascuno, solo così chi è chiamato scatena, a sua volta, la chiamata negli altri. Noi Salesiani dobbiamo sforzarci di rendere comprensibile il nostro modo di vivere con il Signore. Tutti noi Salesiani siamo cuore, memoria e garanti non solo del carisma salesiano, ma anche della propria vocazione.

3. Un altro punto nevralgico della «cultura delle vocazioni» è il rinnovamento e la rivitalizzazione della vita comunitaria. Laddove si vive e si celebra la propria vocazione, le relazioni fraterne, l’impegno nella missione e l’accoglienza di tutti e di ciascuno, possono sorgere vere e proprie domande di carattere vocazionale.

4. Con i tre punti precedenti, abbiamo voluto esprimere che un’azione pastorale in questo campo che non sia sostenuta dalla preghiera e dalla testimonianza di vita, è afflitta da incoerenza, come avverrebbe in qualsiasi altro ambito della pastorale. Inoltre, poiché la vocazione richiede resistenza e persistenza, impegno e stabilità, dobbiamo andare oltre la mentalità o la sensibilità vocazionale e possedere una prassi vocazionale, una pedagogia vocazionale con gesti che la rendano credibile e la sostengano nel tempo e nello spazio. Questa pedagogia ha a che fare con la centralità degli itinerari di fede nell’iniziazione cristiana, con le proposte di vita comunitaria accompagnata e con l’accompagnamento personale; un’animazione vocazionale all’interno della pastorale giovanile.

5. Se la fiducia in Dio che chiama funziona come un polmone che ossigena la pastorale vocazionale, l’altro polmone è la fiducia nel cuore generoso dei giovani. I cuori dei nostri giovani sono fatti per grandi cose, per la bellezza, per la bontà, per la libertà, per l’amore…, e questa aspirazione appare continuamente come un richiamo interiore nel profondo del loro cuore. Da questa prospettiva, siamo stati in grado di confrontarci con due approcci vocazionali: il primo approccio si concentra sui giovani più vicini al nostro carisma, cioè quelli che, per il loro legame con le comunità e le opere salesiane, sono aperti a un’esperienza di Dio, a relazioni comunitarie significative e al servizio con i giovani; il secondo approccio si concentra su coloro che possono essere attratti dall’approfondimento della vocazione salesiana come scelta di vita fondamentale.

6. Infine, per completare la mappa, non dimentichiamoci della promozione della vocazione di speciale consacrazione. In questa proposta, viene definito un aspetto concreto della promozione vocazionale che cerca di risvegliare e accompagnare le persone chiamate a una forma di vita concreta (il ministero ordinato, la propria congregazione o movimento), come modo concreto di seguire Gesù.

Anche la Chiesa di oggi ha bisogno della vocazione del salesiano consacrato. Forse dovremmo ricordare che il dinamismo del discernimento vocazionale è un compito spirituale illuminato dalla speranza di conoscere la volontà di Dio; è un compito umile, perché implica la consapevolezza di non sapere, ma esprime il coraggio di cercare, di guardare e di camminare in avanti, liberandosi da quella paura del futuro che è ancorata al passato e che nasce dalla presunzione di sapere già tutto.

La vocazione è un processo che dura tutta la vita, percepito come una successione di chiamate e risposte, un dialogo nella libertà tra Dio e ogni essere umano, che assume la forma di una missione da scoprire continuamente nelle varie fasi della vita e a contatto con nuove realtà. Una vocazione, quindi, è il modo particolare in cui una persona struttura la propria vita in risposta a una chiamata personale ad amare e servire; il modo di amare e servire che Dio vuole per ciascuno.
A partire dalla citazione di papa Francesco (Evangelii Gaudium, 107), possiamo indicare tre percorsi da seguire per una coerente animazione vocazionale: vivere un fervore apostolico contagioso, pregare con insistenza e osare la proposta. In sintesi: che cosa possiamo fare? Pregare, vivere e agire.

Per sapere di più, fatte click QUI.




C’e molta piu sete di Dio di quanto si possa pensare

Oggi c’è tanto bisogno di ascolto, di dialogo libero e gratuito, di incontri personali che non giudicano e non condannano, e tanto bisogno di silenzio e di presenza in Dio.

Cari amici del Bollettino Salesiano, appena un’ora fa, ho partecipato ai funerali del Papa Emerito Benedetto XVI. Fu lui stesso che, un anno dopo l’inizio del suo servizio come Pontefice, scrisse la magnifica Enciclica “Deus Caritas est”, e in essa questa affermazione che mi sembra l’essenza della magnifica fragranza del pensiero cristiano: “Non si comincia a essere cristiani con una decisione etica o una grande idea, ma con l’incontro con un evento, con una Persona, che dà un nuovo orizzonte alla vita e, con esso, un orientamento decisivo” (Deus Caritas est, 1). Certamente quella Persona è Gesù Cristo.
E partendo da questa affermazione Benedetto XVI ci lascia affermazioni come queste:
            – «Gesù Cristo è la Verità fatta Persona, che attira il mondo a sé.
            – La luce irradiata da Gesù è la luce della verità. Ogni altra verità è un frammento della Verità che è lui e a cui si riferisce.
            – Gesù è la stella polare della libertà umana: senza di lui essa perde il suo orientamento, perché senza la conoscenza della verità, la libertà si denatura, si isola e si riduce a sterile arbitrio.
            – Con lui si riscopre la libertà, la si riconosce come creata per il bene e la si esprime attraverso azioni e comportamenti caritatevoli.
            – Per questo Gesù dà all’uomo la piena familiarità con la verità e lo invita continuamente a vivere in essa.
            – E niente più dell’amore per la verità può spingere l’intelligenza umana verso orizzonti inesplorati.
            – Gesù Cristo, che è la pienezza della verità, attira a sé il cuore di ogni uomo, lo dilata e lo riempie di gioia».
In poche frasi, solide e dense, c’è tutto un insegnamento cristiano che è ben lontano dall’essere una “morale” o un insieme di regole fredde e rigide prive di vita. La vita cristiana è innanzitutto un vero incontro con Dio.

Ed è questo che ho affermato nel titolo di questo messaggio. Secondo la mia opinione e profonda convinzione, c’è molta più “sete di Dio” di quanto immaginiamo, di quanto sembra. Non è che voglio cambiare le statistiche degli studi sociologici o disegnare una realtà fittizia. Non intendo certo farlo, ma desidero far capire che nel “vis a vis“, nell’incontro “faccia a faccia” con la vita reale di tante persone, di tanti padri e madri, di tante famiglie, di tanti adolescenti e giovani, quello che si trova, molto spesso, è una vita non facile, una vita che deve essere “guarita” ogni giorno, relazioni umane in cui l’amore è desiderato e necessario e che devono essere curate in ogni piccolo gesto, in ogni piccolo dettaglio, in ogni azione. E in questo “faccia a faccia” c’è tanto bisogno di ascolto, di dialogo libero e gratuito, di incontri personali che non giudicano e non condannano, e tanto bisogno di silenzio e di presenza in Dio.

Lo dico con grande convinzione. Proprio qui, a Valdocco-Torino, dove mi trovo, mi sorprende e mi riempie di gioia quando un gruppo di giovani prende l’iniziativa di invitare altri giovani per un’ora di presenza, di silenzio e di preghiera davanti a Gesù Eucaristia, cioè un’ora di adorazione eucaristica, e un centinaio di persone – tanti sono i giovani – rispondono all’appuntamento. Oppure a Roma, nel Sacro Cuore ci riunivamo il giovedì sera, e giovani e giovani coppie, alcuni con i loro bambini, e anche coppie di fidanzati erano presenti a questo momento perché sentivano che la loro vita aveva bisogno di questo incontro con una Persona che dà senso alla nostra vita.

E l’ho sperimentato come esempio in tante nazioni e luoghi. Ecco perché con questa pagina vi invito a fare come farebbe Don Bosco. Non ha esitato un attimo a proporre ai suoi ragazzi l’esperienza dell’incontro con Gesù. E quel Dio che è presenza, che è Dio-con-noi, come abbiamo celebrato a Natale, è ancora lo stesso Dio che chiama, che invita, che rassicura in ogni incontro personale, in ogni momento di riposo in Lui.
Ricordo una delle tante “sorprese” di don Bosco.

Racconta nelle Memorie: «Entravo in chiesa dalla sacrestia e vidi un giovane innalzato all’altezza del santo Tabernacolo dietro del coro, in atto di adorare il Santissimo Sacramento, inginocchiato nell’aria, colla testa inclinata ed appoggiata contro la porta del Tabernacolo, in dolce estasi d’amore come un Serafino del Cielo. Lo chiamai per nome ed egli tosto si riscosse e discese per terra tutto turbato, pregandomi di non palesarlo ad alcuno. Ripeto che potrei contare molti altri fatti simili per far conoscere che tutto il bene che fa Don Bosco, lo deve specialmente ai suoi figli».
È possibile che Gesù sia ancora lo stesso Dio che vuole incontrare tutti noi oggi e molti altri, oppure ci vergogniamo e abbiamo paura di percorrere questa strada? È possibile che molti di noi non osino invitare gli altri a sperimentare ciò che stiamo vivendo e che ci è stato gratuitamente donato e offerto? È possibile che, poiché ci viene detto che tutto questo non è di moda e poco attuale, crediamo ai troppi messaggi negativi e perdiamo la forza di testimoniare che molti di noi, continuano a godere di ogni incontro personale con Colui che è il Signore della vita?

Papa Benedetto era convinto che la sua vita e la sua fede fossero “giuste” e questo è grande, un incontro con il suo Signore, ed è così che Papa Francesco lo ha congedato nelle ultime parole della sua omelia: “Benedetto, fedele amico dello Sposo, sia perfetta la tua gioia nell’ascoltare definitivamente e per sempre la sua voce”.
Continuiamo quindi a promuovere, amici miei, quegli incontri di Vita che ci danno vita profonda, perché c’è più “sete di Dio” di quanto si dica, di quanto si faccia credere.