In un capitolo della Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione promulgata dal Concilio Vaticano II, che riguarda «la Sacra Scrittura nella vita della Chiesa», si invitano vivamente tutti i fedeli cristiani alla lettura frequente del Libro Sacro.
È un fatto che ai tempi di Don Bosco in Piemonte, nella catechesi parrocchiale e scolastica, la lettura personale del testo biblico non era ancora sufficientemente praticata. Più che ricorrere direttamente a esso si usava fare una catechesi sulla dottrina cattolica con esempi ricavati da Compendi di Storia Sacra.
E così si faceva anche a Valdocco.
Tutto questo non vuol dire che Don Bosco non leggesse e meditasse personalmente la Bibbia. Già nel Seminario di Chieri egli poteva trovare a sua disposizione la Bibbia del Martini, oltre a noti commentari come quelli del Calmet. Ma è un fatto che quando egli era in Seminario venivano prevalentemente sviluppati trattati di carattere dottrinale più che studi biblici propriamente detti, anche se i trattati dogmatici includevano evidentemente citazioni bibliche. Il chierico Bosco non si accontentò di ciò e si fece autodidatta in materia.
Nell’estate del 1836 Don Cafasso, che ne era stato richiesto, gli propose di tenere scuola di greco ai convittori del Collegio del Carmine di Torino, sfollati a Montaldo per la minaccia del colera. Ciò lo spinse ad occuparsi seriamente della lingua greca per rendersi idoneo a insegnarla.
Con l’aiuto di un padre gesuita profondo conoscitore del greco, il chierico Bosco fece grandi progressi. In solo quattro mesi il colto gesuita gli fece tradurre quasi tutto il Nuovo Testamento, e poi, per quattro anni ancora ogni settimana controllava qualche composizione o versione greca che il chierico Bosco gli spediva ed egli puntualmente rivedeva con le opportune osservazioni. «In questa maniera, – dice Don Bosco stesso -, potei giungere a tradurre il greco quasi come si farebbe del latino».
Il suo primo biografo assicura che il 10 febbraio del 1886, ormai vecchio e malato, Don Bosco alla presenza dei suoi discepoli andava recitando per intero alcuni capitoli delle Lettere di San Paolo in greco e in latino.
Dalle stesse Memorie Biografiche veniamo a sapere che il chierico Giovanni Bosco, d’estate, al Sussambrino, dove abitava con il fratello Giuseppe, soleva salire in cima alla vigna di proprietà Turco e lì si dedicava a quegli studi ai quali non aveva potuto attendere nel corso dell’anno scolastico, specialmente allo studio della Storia del Vecchio e del Nuovo Testamento del Calmet, della geografia dei Luoghi Santi, e dei principi della lingua ebraica, acquistandone sufficienti cognizioni.
Ancora nel 1884 si ricordava dello studio fatto dell’ebraico e fu sentito in Roma entrare con un professore di lingua ebraica sulla spiegazione di certe frasi originali dei profeti, facendo confronti con i testi paralleli di vari libri della Bibbia. E si occupava pure di una traduzione del Nuovo Testamento dal greco.
Don Bosco, quindi, come autodidatta, fu uno studioso attento degli scritti della Bibbia e se ne venne a fare una sicura conoscenza.
Un giorno, ancora studente di teologia, volle andare a trovare il suo vecchio insegnante e amico Don Giuseppe Lacqua che abitava a Ponzano. Questi, informato della proposta visita, gli scrisse una lettera nella quale gli diceva, tra l’altro, «giunto che sarà il tempo di venire a trovarmi, ricordatevi di portarmi i tre volumetti della Sacra Bibbia».
Prova questa, evidente, che il chierico Bosco li studiava.
Giovane sacerdote, discorrendo con il suo parroco, Teologo Cinzano, venne con lui a parlare della mortificazione cristiana. Don Bosco allora gli citò le parole del Vangelo: «Si quis vult post me venire, abneget semetipsum, et tollat crucem suam quotidie et sequatur me». Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua). Il teologo Cinzano lo interruppe dicendogli:
— Tu aggiungi una parola, quel quotidie (= ogni giorno) che nel vangelo non c’è».
E Don Bosco:
Questa parola non si trova in tre evangelisti, ma c’è nel vangelo di San Luca. Consulti il capo nono, versetto 23 e vedrà che io non aggiungo nulla.
Il buon Parroco, che pur era valente nelle discipline ecclesiastiche, non aveva notato il versetto di San Luca, mentre Don Bosco vi aveva fatto attenzione. Più volte Don Cinzano raccontò con gusto tale incidente.
L’impegno di Don Bosco a Valdocco
Don Bosco poi dimostrò in tanti altri modi questo suo profondo interesse e studio della Sacra Scrittura, e molto fece poi a Valdocco per farne conoscere i contenuti ai suoi figli.
Si pensi alla sua edizione della Storia Sacra, uscita la prima volta nel 1847 e poi ristampata in 14 edizioni e decine e decine di ristampe sino al 1964.
Si pensi a tutti gli altri suoi scritti correlati con la storia biblica, come Maniera facile per imparare la Storia Sacra, pubblicato la prima volta nel 1850; la Vita di San Pietro, uscita nel gennaio 1857 come fascicolo delle «Letture Cattoliche»; la Vita di San Paolo, uscita nel mese di aprile dello stesso anno come fascicolo delle «Letture Cattoliche»; la Vita di San Giuseppe, uscita nel fascicolo delle «Letture Cattoliche» del marzo 1867; ecc.
Don Bosco poi teneva per segnacoli nel suo Breviario massime della Sacra Scrittura, come la seguente: «Bonus Dominus et confortans in die tribulationis».
Fece dipingere sulle pareti del porticato di Valdocco sentenze della Sacra Scrittura come la seguente: «Omnis enim, qui petit accipit, et qui quaerit invenit, et pulsanti aperietur».
Sin dal 1853 volle che i suoi chierici studenti di filosofia e di teologia studiassero ogni settimana dieci versetti del Nuovo Testamento e lo recitassero letteralmente al mattino del giovedì.
All’inaugurazione del corso tutti i chierici tenevano in mano il volume della Bibbia Volgata latina e lo avevano aperto sulle prime linee del Vangelo di San Matteo. Ma Don Bosco, recitata la preghiera, prese a dire in latino il versetto 18 del capo 16° di Matteo: «Et ego dico tibi quia tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam, et portae inferi non praevalebunt adversus eam»: Ed io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. Voleva proprio che i suoi figli tenessero sempre nella mente e nel cuore questa evangelica verità.
Artemide ZATTI – Santo
VITA E OPERE
San Artemide Zatti nacque a Boretto (Reggio Emilia) il 12 ottobre 1880. Sperimentò presto la durezza del sacrificio, tanto che a nove anni già si guadagnava la giornata da bracciante. Costretta dalla povertà, la famiglia Zatti, agli inizi del 1897 (Artemide aveva quindi 17 anni), emigrò in Argentina e si stabilì a Bahía Blanca.
Il giovane Artemide cominciò subito a lavorare, prima in un albergo e poi in una fabbrica di mattoni. Prese a frequentare la parrocchia retta dai Salesiani. A quel tempo era parroco il salesiano don Carlo Cavalli, uomo pio e di una bontà straordinaria. Artemide trovò in lui il suo direttore spirituale e il parroco trovò in Artemide un collaboratore eccellente. Non tardò ad orientarsi verso la vita salesiana. Aveva 20 anni quando partì per l’aspirantato di Bernal. Quelli furono anni molto duri per Artemide, che era più avanti dei suoi compagni per età ma più indietro di loro per i pochi studi fatti. Vinse però tutte le difficoltà, grazie alla sua volontà tenace, alla sua acuta intelligenza e ad una solida pietà.
Assistendo un giovane sacerdote tubercolotico, egli ne contrasse purtroppo la malattia. L’interessamento paterno di don Cavalli – che lo seguiva da lontano – fece sì che si scegliesse per lui la Casa salesiana di Viedma dove c’era un clima più adatto e soprattutto un ospedale missionario con un bravo infermiere salesiano che in pratica fungeva da “medico”: Padre Evasio Garrone. Questi si rese subito conto del grave stato di salute del giovane e nello stesso tempo intuì le sue virtù non comuni. Invitò Artemide a pregare Maria Ausiliatrice per ottenere la guarigione, ma suggerì anche di fare una promessa: “Se Lei ti guarisce, tu ti dedicherai per tutta la tua vita a questi infermi”. Artemide fece volentieri questa promessa e misteriosamente guarì. Accettò con umiltà e docilità la non piccola sofferenza di rinunziare al sacerdozio (a causa della malattia contratta). Dalla sua bocca né allora né in seguito, uscì mai un lamento per questa meta non raggiunta.
Emise come confratello laico la sua prima Professione l’11 gennaio 1908 e quella Perpetua il 18 febbraio 1911. Coerentemente alla promessa fatta alla Madonna, egli si consacrò subito e totalmente all’ospedale, occupandosi in un primo tempo della farmacia annessa dopo aver conseguito il titolo di “idoneo in farmacia”. Quando nel 1913 morì padre Garrone, tutta la responsabilità dell’ospedale cadde sulle sue spalle. Ne divenne infatti vicedirettore, amministratore, esperto infermiere stimato da tutti gli ammalati e dagli stessi sanitari che gli lasciavano man mano sempre più libertà d’azione. L’ospedale fu per tutta la sua vita il luogo dove esercitò, giorno dopo giorno, la sua virtù fino al grado eroico.
Il suo servizio, non si limitava all’ospedale ma si estendeva a tutta la città anzi alle due località situate sulle rive del fiume Negro: Viedma e Patagones. Usciva abitualmente con il suo camice bianco e il borsello delle medicine più comuni. Una mano al manubrio e l’altra col rosario. Preferiva le famiglie povere, ma era chiamato anche dai ricchi. In caso di necessità si muoveva ad ogni ora del giorno e della notte, con qualunque tempo. Non si fermava al centro della città, ma andava anche nei tuguri della periferia. Faceva tutto gratuitamente, e se riceveva qualcosa, andava per l’ospedale.
San Artemide Zatti amò i suoi ammalati in modo davvero commovente, vedeva in loro Gesù stesso. Fu sempre ossequiente verso i medici e i titolari dell’ospedale. Ma la situazione non era sempre facile, sia per il carattere di alcuni di loro sia per i contrasti che potevano sorgere tra i dirigenti legali e lui che lo era di fatto. Egli però li seppe conquistare tutti e col suo equilibrio riusciva a risolvere anche le situazioni più delicate. Solo un profondo dominio di sé poté rendergli possibile la vittoria sull’affanno e sulla facile irregolarità di orario.
Egli fu un edificante testimone della fedeltà alla vita comune. Meravigliava tutti come potesse questo santo religioso, così indaffarato nei suoi molteplici impegni all’ospedale, essere nello stesso tempo il rappresentante esemplare della regolarità. Era lui a suonare la campana, era lui a precedere tutti gli altri confratelli negli appuntamenti comunitari. Fedele allo spirito salesiano e al motto – “lavoro e temperanza” – lasciato in eredità da Don Bosco ai suoi figli, egli svolse un’attività prodigiosa con abituale prontezza d’animo, con spirito di sacrificio specie durante il servizio notturno, con distacco assoluto da ogni soddisfazione personale, senza mai prendersi vacanze e riposo. Da buon salesiano seppe fare dell’allegria, una componente della sua santità. Appariva sempre simpaticamente sorridente: così lo ritraggono tutte le foto pervenuteci. Fu un uomo di facile rapporto umano, con una visibile carica di simpatia, sempre lieto di potersi intrattenere con l’umile gente. Ma fu soprattutto un uomo di Dio. Lo irraggiava. Uno dei medici dell’ospedale ha detto: “Quando vedevo il Sig. Zatti la mia incredulità vacillava”. E un altro: “Credo in Dio da quando ho conosciuto il Sig. Zatti”.
Nel 1950 il santo cadde da una scala e fu in occasione di questo incidente che si manifestarono i sintomi di un cancro che egli stesso lucidamente diagnosticò. Continuò tuttavia ad attendere alla sua missione ancora per un anno, finché dopo sofferenze eroicamente accettate, si spense il 15 marzo 1951 in piena coscienza, circondato dall’affetto e gratitudine di una popolazione che da quel momento cominciò a invocarlo come intercessore presso Dio. Al suo funerale accorsero tutti gli abitanti di Viedma e Patagones in un corteo senza precedenti.
La fama di santità si estese rapidamente e la sua tomba cominciò ad essere molto venerata. Ancora oggi, quando la gente va al cimitero per i funerali, passa sempre a visitare la tomba di Artemide Zatti. Beatificato da S. Giovanni Paolo II il 14 aprile 2002, san Artemide Zatti fu il primo salesiano coadiutore non martire ad essere elevato agli onori degli altari.
MESSAGGIO
La cronaca del collegio salesiano di Viedma ricorda che, secondo l’usanza, il 15 marzo 1951 al mattino il campanone annuncia il volo al cielo del confratello coadiutore Artemide Zatti con queste parole profetiche: «Un fratello in meno in casa e un santo in più in cielo».
La canonizzazione di Artemide è un dono di grazia che il Signore ci dona attraverso questo fratello, salesiano coadiutore, che ha vissuto la sua vita nello spirito di famiglia tipico del carisma salesiano, incarnando la fraternità verso i confratelli e la comunità, e la prossimità verso i poveri e gli ammalati e verso chiunque incontrava sulla sua strada.
Le tappe e le stagioni della vita di Artemide Zatti: l’infanzia e la prima giovinezza in Italia a Boretto; l’emigrazione della famiglia e la permanenza a Bahía Bianca (Argentina); l’aspirantato salesiano a Bernal; la malattia e il trasferimento a Viedma, che sarà la patria del cuore; la formazione e la professione religiosa come Salesiano coadiutore; la missione per 40 anni nell’Ospedale San José prima e presso la Quinta San Isidro poi; gli ultimi anni e la morte vissuta come incontro con il Signore della vita, mettono in evidenza l’esercizio eroico delle virtù e l’azione purificatrice e trasformante dello Spirito Santo, artefice di ogni santità.
Sant’Artemide Zatti risulta modello, intercessore e compagno di vita cristiana, vicino a ciascuno. Infatti, la sua avventura ce lo presenta come persona che ha sperimentato la fatica quotidiana dell’esistenza con i suoi successi e i suoi fallimenti. Basta ricordare il distacco dal paese natale per emigrare in Argentina; la malattia della tubercolosi che irrompe come un uragano nella sua giovane esistenza frantumando ogni sogno e ogni prospettiva di futuro; il vedere demolire l’ospedale che aveva costruito con tanti sacrifici e che era diventato santuario dell’amore misericordioso di Dio. Ma Zatti trova sempre nel Signore la forza di rialzarsi e proseguire il cammino.
La testimonianza di Artemide Zatti ci illumina, ci attrae e ci mette anche in discussione, perché è “Parola di Dio” incarnata nella storia e vicina a noi. Egli ha trasformato la vita in dono, operando con generosità e intelligenza, superando difficoltà di ogni genere con la sua incrollabile fiducia nella Provvidenza divina. La lezione di fede, speranza e carità che ci lascia diventa, se opportunamente conosciuta e motivata, un’opera coraggiosa di salvaguardia e di promozione dei più autentici valori umani e cristiani.
Attraverso la parabola della vita di Artemide Zatti risalta anzitutto la sua esperienza dell’amore incondizionato e gratuito di Dio. In primo luogo, non ci sono le opere che lui ha compiuto, ma lo stupore di scoprirsi amato e la fede in questo amore provvidenziale in ogni stagione della vita. È da questa certezza vissuta che sgorga la totalità di donazione al prossimo per amore di Dio. L’amore che riceve dal Signore è la forza che trasforma la sua vita, dilata il suo cuore e lo predispone ad amare. Con lo stesso Spirito, lo Spirito di santità, amore che ci guarisce e ci trasforma, fin da ragazzo fa scelte e compie gesti di amore in ogni situazione e con ogni fratello e sorella che incontra, perché si sente amato e ha la forza di amare:
ancora adolescente in Italia egli sperimenta i disagi della povertà e del lavoro, ma pone il fondamento di una solida vita cristiana, dando le prime prove della sua carità generosa;
emigrato con la famiglia in Argentina sa custodire e far crescere la sua fede resistendo ad un ambiente spesso immorale e anticristiano e maturando, grazie all’incontro con i Salesiani e all’accompagnamento spirituale del padre Carlo Cavalli, l’aspirazione al sacerdozio, accettando di ritornare sui banchi di scuola con ragazzini di dodici anni, lui che di anni ne aveva già venti;
si offre con pronta disponibilità ad assistere un sacerdote malato di tubercolosi e ne contrae il male, senza dire una parola di lamento o di recriminazione, ma vivendo la malattia come un tempo di prova e di purificazione, portandone con fortezza e serenità le conseguenze;
guarito in modo straordinario, per intercessione di Maria Ausiliatrice, dopo aver fatto la promessa di dedicare la sua vita agli ammalati e ai poveri, accetta generosamente la rinuncia al sacerdozio e si dedica con tutte le sue forze alla nuova missione come Salesiano laico;
vive in forma straordinaria il ritmo ordinario delle sue giornate: pratica fedele ed edificante della vita religiosa in gioiosa fraternità; servizio sacrificato a tutte le ore e con tutte le prestazioni più umili ai malati e ai poveri; lotta continua contro la povertà, nella ricerca di risorse e di benefattori per far fronte ai debiti, confidando esclusivamente nella Provvidenza; disponibilità pronta a tutte le sventure umane che chiedono il suo intervento; resistenza ad ogni difficoltà e accettazione di ogni caso avverso; dominio di sé e serenità gioiosa e ottimistica che si comunica a tutti coloro che lo avvicinano.
Settantun anni di questa vita di fronte a Dio e di fronte agli uomini: una vita consegnata con gioia e fedeltà fino alla fine, testimoniando una santità accessibile e alla portata di tutti, come insegnano San Francesco di Sales e Don Bosco: non una meta impervia, separata dalla vita di tutti i giorni, ma incarnata nella quotidianità, nelle corsie dell’ospedale, in bicicletta per le strade di Viedma, nei travagli della vita concreta per far fronte a esigenze e bisogni di ogni genere, vivendo le cose di ogni giorno in spirito di servizio, con amore e senza clamore, senza rivendicare niente, con la gioia della donazione, abbracciando con entusiasmo la vocazione di Salesiano laico e diventando riflesso luminoso del Signore.
Volontariato internazionale a Benediktbeuern
Don Bosco Volunteers: l’impegno dei giovani per un futuro migliore
Da più di vent’anni l‘Ispettoria tedesca dei Salesiani di Don Bosco è impegnata nel campo del volontariato giovanile. Tramite il programma “Don Bosco Volunteers” i Salesiani in Germania offrono ogni anno a circa 90 giovani un’esperienza formativa e di vita nelle case salesiane dell’Ispettoria e in diversi paesi del mondo.
Per molti giovani tedeschi è consuetudine, una volta completato il percorso formativo scolastico, dedicare un anno della loro vita ad attività nel sociale. Il profilo dei Salesiani rappresenta per molti giovani tedeschi una fonte d’ispirazione nella scelta di un’organizzazione, che li accompagni durante questa esperienza. Nonostante la secolarizzazione della società tedesca e una costante perdita di fedeli da parte della Chiesa negli ultimi anni, molti giovani bussano alla porta dei Salesiani con la chiara intenzione di aiutare il prossimo e dare un piccolo contributo per un mondo migliore. Questi giovani trovano nella figura di don Bosco una forma di fede e un esempio di vita.
Non tutti coloro i quali fanno richiesta d’ammissione al programma di volontariato presso gli uffici competenti dell’Ispettoria a Benediktbeuern e a Bonn hanno avuto nel corso della loro vita esperienze in gruppi giovanili legati alla Chiesa e in particolar modo con i Salesiani. Alcuni di loro non sono battezzati, ma riconoscono nell’offerta formativa dei Salesiani una possibilità di crescita personale, basata su valori fondamentali per il proprio sviluppo. È per questo che ogni anno tantissimi giovani cominciano un’esperienza di volontariato con il programma “Don Bosco Volunteers”: nell’ambito di weekend formativi, i giovani apprendono non solo utili informazioni sui progetti, ma si confrontano con il sistema preventivo e la spiritualità salesiana, preparandosi in questo modo al periodo che metteranno a servizio di altri giovani.
I volontari e le volontarie vengono accompagnati durante la loro esperienza da un team di coordinatori e coordinatrici, che si prende cura non solo degli aspetti organizzativi, ma soprattutto del supporto prima, durante e dopo l’esperienza di volontariato. E sì, perché l’anno di volontariato non finisce l’ultimo giorno di servizio presso la casa salesiana ospitante, ma continua per tutta la vita. Quest’anno al servizio degli altri rappresenta una base di valori che ha un forte impatto sullo sviluppo futuro delle volontarie e dei volontari. Don Bosco educava i giovani per far di loro degli onesti cittadini e dei buoni cristiani: l’offerta di volontariato del programma Don Bosco Volunteers s’ispira proprio a questo principio fondamentale della pedagogia salesiana e cerca di gettare le basi per una società migliore, in cui i valori cristiani ritornino a caratterizzare la nostra vita.
L’Ispettoria tedesca mette a disposizione possibilità d’incontro per i giovani in tutte le fasi dell’esperienza di volontariato: incontri d’orientamento, offerte informative online, corsi di formazione, feste e incontri annuali di scambio d’esperienze sono attività di base su cui si costruisce il successo del programma “Don Bosco Volunteers”.
Un gruppo di coordinamento formato da collaboratori e collaboratrici del centro di formazione giovanile Aktionszentrum di Benediktbeuern e della Procura Missionaria di Bonn, affiancato dall’economo ispettoriale padre Stefan Stöhr e dall’incaricato per la pastorale giovanile padre Johannes Kaufmann, gestisce e dirige ciascuna attività, sviluppando il programma in tutte le sue componenti. L’esperienza dei volontari inizia con la richiesta d’ammissione all’iniziativa: i giovani che prendono parte al programma nazionale cominciano il servizio a settembre e partecipano a 25 giornate formative durante l’anno di volontariato. Per i volontari e le volontarie che intendono andare all’estero il percorso è un po’ più articolato: dopo un incontro d’orientamento, in autunno vengono effettuate le selezioni e le candidate e i candidati ricevono informazioni da ex volontarie e volontari che hanno già preso parte al programma in passato. La fase formativa comincia nei primi mesi dell’anno e prevede in tutto 12 giorni di preparazione, durante i quali le volontarie e i volontari ricevono informazioni sulla pedagogia di don Bosco, sul lavoro dei Salesiani nel mondo, su temi importanti come la comunicazione interculturale e le procedure da seguire in caso d’emergenza durante l’esperienza all’estero. A luglio le volontarie e i volontari ricevono la benedizione e una medaglia di don Bosco come simbolo dell’appartenenza alla Famiglia Salesiana.
La partenza dei giovani è prevista a settembre e, verso la metà del servizio, nelle diverse regioni in cui operano i volontari vengono offerti degli incontri di riflessione tenuti dal team di coordinamento dell’Ispettoria tedesca. L’esperienza si chiude con un seminario conclusivo, poco dopo il rientro dall’attività all’estero, in cui vengono gettate le basi per un impegno futuro nella Famiglia Salesiana. A cadenza annuale nell’Ispettoria vengono organizzati due incontri per tutti coloro che hanno preso parte al programma sin dall’inizio delle attività negli anni Novanta. Il team di coordinamento dell’Ispettoria si prende cura di tutti gli aspetti organizzativi tra i quali: ricerca di case salesiane interessate a collaborare nel campo del volontariato; finanziamento delle attività tramite i fondi ministeriali ed europei; supporto in caso d’emergenza; organizzazione degli aspetti legati all’assicurazione sanitaria dei volontari; comunicazioni con le famiglie delle volontarie e dei volontari.
Negli ultimi 25 anni, sono già più di mille i giovani che hanno preso parte al programma “Don Bosco Volunteers” in Germania e all’estero.
Nell’ambito di uno studio condotto alcuni mesi fa dall’Ispettoria tedesca, a cui hanno partecipato circa 180 ex volontarie e volontari, si è potuto riscontrare un costante impegno nel sociale dei giovani anche molti anni dopo l’esperienza di volontariato. In modo particolare, è evidente l’attenzione degli intervistati riguardo a temi come l’ingiustizia sociale, il razzismo, l’ecologia e lo sviluppo sostenibile. Tale studio ha confermato tutta la bontà di questo programma, non solo per l’aiuto immediato che le volontarie e i volontari possono fornire alle comunità ospitanti durante il proprio anno di servizio, ma anche per gli effetti positivi che si possono registrare a lungo termine, una volta conclusi gli studi accademici o dopo aver intrapreso il proprio cammino professionale.
Un aspetto importante del programma “Don Bosco Volunteers” è il suo inquadramento in programmi nazionali ed europei, come ad esempio il “Corpo europeo di solidarietà” della Commissione Europea, i programmi di volontariato nazionale del Ministero per la famiglia e la gioventù o del programma “weltwärts” del Ministero Federale per la Cooperazione Economica, in modo da poter rendere più visibile alle istituzioni l’offerta formativa dei Salesiani. Costanti controlli di qualità, condotti da associazioni competenti, certificano su base biennale l’efficienza e la trasparenza dell’offerta formativa del programma “Don Bosco Volunteers”. Un aspetto di questi controlli di qualità riguarda in particolare la cooperazione tra i nostri uffici competenti e le strutture ospitanti in Germania e nei diversi Paesi del mondo. Questo particolare distingue l’offerta dei Salesiani da molte altre agenzie private di volontariato, che collaborano con diverse organizzazioni dai profili più svariati.
Le nostre volontarie e i nostri volontari operano esclusivamente in strutture salesiane e vengono preparati in modo specifico per questa esperienza di vita. Non ha importanza se un volontario sia impiegato in un piccolo villaggio nel sud dell’India o in una metropoli europea. C’è qualcosa che unisce tutti questi giovani e li fa sentire a casa durante la loro esperienza: don Bosco con la sua presenza nelle comunità ospitanti offre loro un punto di riferimento nella quotidianità e dà loro conforto e protezione nei momenti più difficili. Ovviamente sarebbe semplicistico raccontare che un’esperienza di volontariato si svolge sempre senza intoppi o problemi: la fase d’ambientamento, in particolare, può creare diversi problemi d’integrazione per le volontarie e i volontari. Ma è proprio in queste situazioni che si può constatare una crescita dei giovani, i quali imparano a conoscere meglio se stessi, i propri limiti e le proprie risorse. L’accompagnamento fornito dalle comunità salesiane ospitanti e dal personale dei centri di coordinamento dell’Ispettoria tedesca ha il fine di trasformare anche le fasi più difficili di questo cammino in opportunità di riflessione e crescita personale. Molte sfide ci attendono nel futuro: gli ultimi due anni ci hanno mostrato che il mondo sta cambiando e il timore che la guerra cancelli la prospettiva di una società più equa sembra crescere nelle nuove generazioni. Il programma “Don Bosco Volunteers” vuole essere un barlume di luce e una fonte di speranza, affinché i nostri giovani possano costruire, attraverso il loro impegno, un futuro migliore per il nostro pianeta.
Francesco BAGIOLINI Benediktbeuern, Germania
Galleria fotografica Voluntariato internazionale a Benediktbeuern
Messaggio del Rettor Maggiore. Quel giovane mi disse: “la mia passione è Cristo”
Erano passati molti anni dall’ultima volta che avevo sentito quell’espressione da un giovane in un contesto così scanzonato, alla presenza di tutti i suoi compagni che si accalcavano intorno a noi.
Cari amici del Bollettino Salesiano, abbiamo “doppiato il capo” dell’anno, si dice in linguaggio marinaresco, e affrontiamo il nuovo anno. Ogni inizio possiede qualcosa di magico e il nuovo ha sempre un suo fascino particolare. Il 2023 mi sembrava un tempo lontano, eppure eccolo qui. L’anno nuovo è ogni volta una promessa che anche per noi arrivi qualche bella novità. Il nuovo anno sgorga dalla luce e dall’entusiasmo che ci sono stati donati nel Natale.
«C’è un tempo per nascere» dice Qoelet nella Bibbia. Non è mai troppo tardi per ricominciare. Dio comincia sempre da capo con noi, colmandoci della sua benedizione.
Una lezione ho imparato da questi ultimi anni: prepararci alle sorprese e all’inatteso. Come dice san Paolo in una lettera: «mai cuore umano ha potuto gustare ciò che Dio ha preparato a coloro che lo amano» (1 Cor 2, 9). Il contenuto della speranza cristiana è vivere abbandonato nelle braccia di Dio. Oggi molti modi di vivere, di esprimersi, di comunicare sono cambiati. Ma il cuore umano, soprattutto quello dei giovani, è sempre uguale, come un germoglio a primavera, ricco di vita pronta ad esplodere. I giovani “sono” speranza che cammina. Quello che vi confido ora mi sembra molto appropriato per questo saluto del Bollettino Salesiano del mese di gennaio, il “mese di don Bosco”.
Qualche settimana fa, ho visitato le presenze salesiane negli Stati Uniti d’America (USA) e un giorno, al mattino presto, sono arrivato nella scuola media e superiore “San Dominic Savio” di Los Angeles. Ho trascorso diverse ore con centinaia di studenti, seguite da una tavola rotonda con quarantacinque giovani del liceo. Abbiamo parlato dei loro progetti e sogni personali. Sono state alcune ore molto piacevoli e arricchenti.
Alla fine della mattinata, ho condiviso un panino con i giovani nel cortile. Ero seduto a un tavolo di legno nel cortile con il mio panino e una bottiglia d’acqua. In quel momento c’erano con me altri quattro salesiani; avevo salutato molti giovani, alcuni seduti ai tavoli, altri in piedi. Era un pranzo condito di allegria. Al mio tavolo c’erano due posti liberi e a un certo punto due giovani si sono avvicinati e si sono seduti con noi. Naturalmente ho incominciato a parlare con loro. Dopo un paio di minuti, uno dei giovani mi disse: «Voglio farti una domanda». «Ma certo, dimmi».
Il giovane disse: «Cosa devo fare per diventare Papa? Voglio essere Papa».
Sembrai sorpreso, ma sorrisi. Gli risposi che non mi era mai stata fatta una domanda del genere e che ero sorpreso dalla sua chiarezza e determinazione. Mi venne spontaneo spiegargli che tra tanti milioni di cattolici c’è molta concorrenza e non è così facile essere eletto Papa.
Rettor Maggiore nel Centro Giovanile della Famiglia Salesiana situato nel quartiere di Boyle Heights, East Los Angeles, Stati Uniti, nov. 2022
Gli proposi: «Senti, potresti cominciare a diventare salesiano».
Il giovane in modo sorridente disse: «Beh, io non dico di no» e aggiunse, serissimo: «perché quello che è certo è che la mia passione è Cristo». Devo dire che rimasi colpito e piacevolmente sorpreso. Credo che fossero passati molti anni dall’ultima volta che avevo sentito quell’espressione da un giovane in un contesto così spensierato, alla presenza di tutti i suoi compagni, che ora si accalcavano intorno a noi.
Il giovane aveva un bel sorriso genuino e gli dissi che la sua risposta mi era piaciuta molto, perché avevo capito che era assolutamente sincera. Aggiunsi che, se era d’accordo, avrei voluto raccontare il nostro dialogo in un altro momento e in un altro luogo, e così sto facendo.
Ma già in quel momento il mio pensiero era volato a don Bosco. Sicuramente don Bosco avrebbe apprezzato molto un dialogo con un giovane come questo. Non c’è dubbio che in molti dialoghi avuti con Savio, Besucco, Magone, Rua, Cagliero, Francesia e molti altri c’era molto di questo, il desiderio di quei giovani di fare qualcosa di bello con la loro vita.
E ho pensato a quanto sia importante oggi, a 163 anni dall’inizio della Congregazione Salesiana, continuare a credere profondamente che i giovani sono buoni, che hanno tanti semi di bontà nel cuore, che hanno sogni e progetti che spesso portano in sé tanta generosità e donazione.
Quanto è importante continuare a credere che è Dio ad agire nel cuore di ciascuno di noi, ciascuno dei suoi figli e figlie.
Mi sembra che oggi, nel nostro tempo, rischiamo di diventare così pratici ed efficienti nel guardare tutto ciò che ci accade e ciò che sperimentiamo che rischiamo di perdere la capacità di sorprenderci di noi stessi e degli altri e, cosa più preoccupante, di non lasciarci “sorprendere da Dio”.
La speranza è come un vulcano dentro di noi, come una sorgente segreta che zampilla nel cuore, come una primavera che scoppia nell’intimo dell’anima: essa ci coinvolge come un vortice divino nel quale veniamo inseriti, per grazia di Dio. Penso che come ieri con don Bosco, oggi ci siano migliaia e migliaia di giovani che vogliono vedere Gesù, che hanno bisogno di sperimentare l’amicizia con lui, che cercano qualcuno che li accompagni in questo bel viaggio. Vi invito ad unirvi a loro, cari amici del Bollettino, e vi auguro tanto tempo per stupirvi e tempo per fidarvi, tempo per guardare le stelle, tempo per crescere e maturare, tempo per sperare nuovamente e per amare. Vi auguro tempo per vivere ogni giorno, ogni ora come un dono. Vi auguro anche tempo per perdonare, tempo da donare agli altri e tanto tempo per pregare, sognare ed essere felici.
In memoriam. Don Davide FACCHINELLO, sdb
Una vita spesa per gli altri. Don Davide FACCHINELLO, sdb
Nato nella millenaria città di Treviso il 21 maggio 1974, è stato battezzato nella chiesa parrocchiale di Loria (Treviso) dove risiedeva la sua famiglia. Frequenta la scuola dell’obbligo nei suoi luoghi natali e continua da interno il biennio della scuola grafica dell’Istituto San Giorgio di Venezia dove conosce i salesiani. Inizia un’esperienza nella Comunità Proposta salesiana di Mogliano Veneto, continuando gli studi grafici a Noventa Padovana da dove riceve i suoi titoli di studio. Questa esperienza lo porta a conoscere le attività dell’oratorio parrocchiale di Mogliano, l’animazione estiva, i gruppi formativi, che diventeranno catalizzatori per la sua risposta ad una chiamata divina, entrando in noviziato nel 1993. La sua prima destinazione pastorale fu nella casa di Mogliano Veneto Astori con l’incarico di catechista della scuola media, dove fino al 2011. Di seguito riceve una nuova destinazione nella casa di Este con i compiti di vicario in comunità e di animatore pastorale tra gli allievi del Centro di Formazione Professionale. Nel suo cuore nasce il desiderio di svolgere un’esperienza pastorale in terra di missione e si mette alla disposizione delle necessità della Congregazione Salesiana a questo scopo. Come i superiori gli indicano come destinazione il Perù, subito comincia a studiare la lingua spagnola, lingua che continua ad approfondire nella realtà della missione, nello stesso tempo che si inserisce nella cultura locale.
Dal suo arrivo a Perù nel 2017, dopo un periodo di accomodamento, è stato inviato alla comunità missionaria di Monte Salvado, nella regione di Cusco. Lì ha iniziato come vicario parrocchiale della Parrocchia Maria Ausiliatrice di Quebrada Honda, nella Valle di Yanatile, nella selva alta, dove i salesiani accompagniamo le missioni andine. Dopo quasi due anni è stato nominato parroco della stessa il 12 aprile 2019.
Appena arrivato, si è dedicato a conoscere le persone e mettersi al loro servizio pastorale, essendo fedele alle indicazioni dell’Arcidiocesi di Cusco e in collaborazione don la comunità locale. Essendo una parrocchia missionaria, ha voluto e ha visitato periodicamente tutte le settantatré comunità, si è recato nei villaggi più remoti e ha raggiunto le case più umili e lontane di una vasta regione. Desideroso di avvicinarsi ancora di più alle anime che serviva, si era messo a imparare la lingua quechua.
Ha avviato progetti di assistenza e promozione, come la mensa parrocchiale e un programma completo di assistenza psicologica, e, da buon salesiano, ha dato impulso a molti oratori nei vari villaggi. Ha sviluppato intensamente il rinnovamento della catechesi sulla linea dell’Iniziazione alla Vita Cristiana, in profonda sintonia con il Progetto Educativo-Pastorale dell’Ispettoria. Il suo impegno nella Chiesa locale era così grande che fu nominato dall’Arcivescovo di Cuzco decano della regione. Tra le testimonianze del popolo, spicca la particolare cura che egli ebbe per alcune persone (i più poveri tra i poveri) che David accompagnò e promosse in modo speciale e molto discreto.
Le testimonianze ricevute, confermano che era gentile e attento ai fratelli della comunità, un religioso esemplare e un apostolo laborioso e impegnato. Fin dal primo momento ha conquistato il cuore di tutti con la sua gentilezza e la sua serena allegria; ha saputo conquistare la stima e la fiducia delle persone: compagni, collaboratori, parrocchiani e giovani, grazie al suo ottimismo, buon senso, prudenza e disponibilità.
Oltre a tutto questo lavoro apostolico, Davide era un fratello molto amato: amava stare nella comunità salesiana, i fratelli apprezzavano il suo buon umore e la sua capacità di creare legami stretti.
I giovani di Monte Salvado (la scuola per i giovani della giungla che frequentano la comunità missionaria salesiana) gli volevano molto bene, apprezzavano il fatto che fosse felice di passare del tempo con loro durante la pausa e rimanevano colpiti dal suo entusiasmo quando insegnava la catechesi: era un vero sacramento della presenza.
Il suo percorso terreno finisce là: dopo aver condiviso con la comunità parrocchiale la festa della Madre Ausiliatrice nel 24 maggio 2022, nel viaggio di ritorno, parte per il cielo da un incidente stradale successo intorno alla mezzanotte. L’ultima sua celebrazione alla Madonna lo accompagni nel Paradiso.
Due tratti fondamentali che Don Bosco avevo visto in San Francesco di Sales – carità apostolica e amorevolezza – sono quelli cha ha incarnato di più. È quasi un riflesso di quello che diceva un suo compaesano, don Antonio Cojazzi: “Faccia allegra, cuore in mano, ecco fatto il salesiano”.
Speriamo che dal Cielo, ci ottenga molte e sante vocazioni per accompagnare i giovani nel loro cammino terreno. Intanto, preghiamo per lui.
L’eterno riposo dona a lui, o Signore, e splenda a lui la luce perpetua. Riposi in pace.
Video commemorativo
San Francesco di Sales. Vita (1/8)
VITA DI SAN FRANCESCO DI SALES (1/8)
1. I primi anni
Francesco nasce nel castello di famiglia a Thorens (20 km circa da Annecy). È settimino e “fu un miracolo che, in un parto così pericoloso, la mamma non avesse perso la vita”. È il primogenito cui faranno seguito sette tra fratelli e sorelle. La mamma, Francesca de Sionnaz, ha appena 15 anni mentre il papà, il Sig. de Boisy, ne ha 43! All’epoca il matrimonio, nelle classi nobili, era un’occasione per salire nella scala sociale (mettere insieme titoli nobiliari, terre, castelli…). Il resto, amore compreso, veniva dopo!
Chiesa di San Maurizio di Thorens, Francia
È battezzato nella piccola chiesa di San Maurizio di Thorens. Francesco anni dopo sceglierà quell’umile chiesetta per la sua consacrazione episcopale (8 dicembre 1602). I primi anni Francesco li vive insieme ai suoi tre cugini nello stesso castello: con loro gioca, si diverte e contempla la splendida natura che lo circonda e che per lui diventa il grande libro da cui attingerà mille esempi per i suoi libri. L’educazione che riceve dai Genitori è di chiaro stampo cattolico. “Si deve sempre pensare a Dio ed essere uomini di Dio” ripeteva il padre e Francesco farà tesoro di questo consiglio. I genitori frequentano con assiduità la parrocchia e trattano con correttezza i dipendenti e sanno fare generosa carità quando occorre. I primi ricordi di Francesco non sono solo quelli legati alla bellezza di quella meravigliosa natura, ma sono anche gli spettacoli di distruzione e di morte, dovuti alle guerre fratricide in nome del Vangelo.
Arriva l’ora di andare a scuola: Francesco lascia la sua casa e si reca in collegio prima a La Roche per circa due anni e poi per tre ad Annecy in compagnia dei suoi cugini. Questo tempo è segnato da alcuni fatti importanti: – nella chiesa di S. Domenico (attuale chiesa di San Maurizio) riceve la prima Comunione e la Cresima e da allora in poi si comunicherà spesso. – si iscrive alla confraternita del Rosario e da allora prende l’abitudine a recitarlo ogni giorno. – chiede di ricevere la tonsura: il padre gli concede il permesso, dal momento che questo passo non implicava l’inizio della carriera ecclesiastica. Francesco è un ragazzo normale, studioso, obbediente con un tratto caratteristico: “non lo si vedeva mai prendere in giro nessuno!”. Ormai la Savoia gli aveva insegnato tutto quello che poteva. E così nel 1578 Francesco, con gli inseparabili cugini e sotto l’occhio vigile del precettore Déage, parte alla volta di Parigi, dove resterà per dieci anni, allievo del collegio del Clermont, gestito dai gesuiti.
2. I dieci anni che contano: 1578-1588
L’orario del Collegio è severo e anche le prescrizioni religiose sono esigenti. In questi anni Francesco studia il latino, il greco, l’ebraico, familiarizza con i classici, si perfeziona nella lingua francese. Ha ottimi insegnanti. Nel tempo libero frequenta ambienti altolocati, ha libero accesso alla Corte, eccelle nelle arti della nobiltà, segue alcuni corsi di teologia alla Sorbona. Ascolta, in particolare, il Commento al Cantico dei Cantici del P. Génébrard e ne esce sconvolto: scopre dentro l’allegoria dell’amore di un uomo per una donna la passione di Dio per l’umanità. Si sente amato da Dio! Ma in pari tempo matura nella sua mente l’idea di essere escluso da questo amore. Si sente dannato! Entra in crisi e per sei settimane non dorme, non mangia, piange, si ammala. Esce da questo stato affidandosi alla Madonna nella chiesa di S. Etienne des Grès con l’atto di abbandono eroico alla misericordia e bontà di Dio. Recita una Salve Regina e la tentazione svanisce. Finalmente, terminati gli esami conclusivi, può lasciare Parigi, non senza rincrescimento. Quale gioia per Francesco ritornare a casa e riabbracciare i genitori, i fratellini e le sorelline che nel frattempo erano arrivati a rallegrare la famiglia. Il tutto per pochi mesi soltanto, perché bisogna ripartire per completare “il sogno di papà”: diventare un grande nel campo del diritto.
3. Gli anni di Padova: 1588-1591
Sono gli anni decisivi per Francesco sul piano umano, culturale e spirituale. Padova è la capitale del Rinascimento italiano con migliaia di studenti che provengono da tutta Europa: nelle università si trovano i più celebri insegnanti, gli spiriti migliori del tempo. Qui Francesco studia diritto e al tempo stesso approfondisce la teologia, legge i Padri della Chiesa, si mette nelle mani di un saggio direttore spirituale, il gesuita P. Possevino. Probabilmente a causa di una febbre tifoidea, viene ridotto in fin di vita; riceve i sacramenti e fa testamento: “Il mio corpo, quando sarò spirato, consegnatelo agli studenti di medicina”. Era tale il fervore per lo studio e la sete di conoscere il corpo umano che gli studenti di medicina, a corto di cadaveri, andavano a dissotterrarli al cimitero! Importante questo testamento di Francesco perché dice la sensibilità, che conserverà per tutta la vita, nei confronti della cultura, delle novità scientifiche tipiche del Rinascimento. Guarisce, conclude brillantemente i suoi studi il 5 settembre 1591 e lascia Padova “laureato a pieni voti in utroque” (diritto civile ed ecclesiastico). Il padre ne è fiero.
4. Verso il sacerdozio: 1593
Nel cuore di Francesco ci sono altri sogni, molto lontani da quelli di suo padre, ma come dirglielo? Il Signor di Boisy ha posto in Francesco tutte le sue speranze! Viene nominato Prevosto della cattedrale di Annecy. Forte di questo titolo onorifico si incontra con il padre per dirgli la sua intenzione di diventare sacerdote. Fu uno scontro durissimo e comprensibile. “Pensavo e speravo che sareste stato il bastone della mia vecchiaia e il sostegno della famiglia…Non condivido le vostre intenzioni, ma non vi nego la mia benedizione” concluse il padre. La via del sacerdozio è aperta: in pochi mesi Francesco riceve gli ordini minori, il suddiaconato, il diaconato e finalmente il 18 dicembre l’ordinazione sacerdotale. Si prepara tre giorni per celebrare la prima messa il 21 dicembre. Alcuni giorni dopo Natale, Francesco di Sales può essere ufficialmente “insediato” prevosto della cattedrale e in quell’occasione pronunciò uno dei suoi discorsi più famosi, una vera e propria arringa. Si sente già fin d’ora l’ardore e lo zelo del pastore, in sintonia con quanto il Concilio di Trento aveva indicato come via alla riforma.
5. Missionario nel Chiablese: 1594-1598
Il Chiablese è il territorio che si affaccia al lago di Ginevra. I sacerdoti di questa zona della Savoia erano stati cacciati dai Calvinisti di Ginevra e le chiese erano senza pastori. Ora però, nel 1594, il Duca Carlo Emanuele ha riconquistato quelle terre e sollecita il vescovo di Annecy ad inviare nuovi missionari. La proposta rimbalza sul clero, ma nessuno ha il coraggio di andare in quelle terre così ostili, rischiando la propria vita. Solo Francesco si dichiara disponibile e il 14 settembre, con il cugino Luigi, parte per questa missione. Prende dimora nel castello degli Allinges, dove il Barone Hermanance veglia sulla sua incolumità. Così ogni mattina, dopo la messa, scende alla ricerca dei Signori di Thonon. La domenica predica nella chiesa di S. Ippolito, ma i fedeli sono poche persone.
Capella del castello degli Allinges, Francia
Allora decide di scrivere e far stampare le sue prediche: le affigge nei luoghi pubblici e le fa scivolare sotto la porta di cattolici e protestanti. Il suo modello è Gesù per le strade della Palestina: si ispira alla sua dolcezza e bontà, alla sua franchezza e sincerità. Non mancano ostilità e chiusure, ma arrivano anche “le prime spighe”, cioè le prime conversioni. Era severo e inflessibile verso l’errore e verso coloro che diffondevano l’eresia, ma di una pazienza senza limiti nei confronti di tutti coloro che riteneva vittime delle teorie degli eretici. “Io amo la predicazione che si affida più all’amore del prossimo che all’indignazione, persino degli ugonotti, che occorre trattare con grande compassione, non già lusingandoli, bensì deplorandoli”. Lo spirito salesiano sembra concentrata in questa espressione di Francesco: “La verità che non è caritatevole sgorga da una carità che non è vera”. Di questo periodo straordinario per lo zelo, la bontà e il coraggio di Francesco va ancora ricordato l’iniziativa di celebrare nella chiesa di s. Ippolito le tre messe di Natale nel 1596. Ma l’iniziativa che maggiormente contribuì a smantellare l’eresia dal territorio del Chiablese fu quella delle Sante Quarantore, promosse e animate da un nuovo collaboratore di Francesco, padre Cherubino della Maurienne. Nel 1597 furono celebrate ad Annemasse, alle porte di Ginevra. L’anno seguente le Sante Quarantore si tennero a Thonon (inizio di ottobre 1598). A fine anno Francesco deve lasciare la “missione” e scendere a Roma per trattare vari problemi della Diocesi. A Roma contrae amicizie importanti (Bellarmio, Baronio, Ancina…) e incontra i preti dell’Oratorio di S. Filippo Neri e si innamora del loro spirito. Ritorna ad Annecy passando per Loreto, quindi in nave risale fino a Venezia; si ferma a Bologna e a Torino dove discute con il Duca quanto concesso dal Papa a favore delle parrocchie della diocesi. Nel 1602 si reca a Parigi sempre per trattare con il nunzio e con il Re delicate questioni diplomatiche concernenti la diocesi e i rapporti con i calvinisti. Qui si fermerà per nove lunghi mesi e tornerà a casa con un pugno di mosche. Se questo è il risultato diplomatico, molto ricco e importante è invece il profitto spirituale e umano che ne sa trarre. Decisivo per la vita di Francesco è l’incontro con il famoso “Circolo della Signora Acarie”: è una sorta di cenacolo spirituale dove si leggono le opere di S. Teresa d’Avila e di S. Giovanni della Croce e grazie a questo movimento spirituale verrà introdotto in Francia il Carmelo riformato. Sulla via del ritorno, Francesco riceve la notizia della morte del suo amato vescovo.
6. Francesco, vescovo di Ginevra: 1602 – 1622
L’8 dicembre 1602 nella piccola chiesetta di Thorens Francesco viene consacrato vescovo e resterà alla guida della sua diocesi per venti anni. “Quel giorno Dio mi aveva tolto da me stesso per prendermi per sé e quindi darmi al popolo, intendendo dire che mi aveva trasformato da ciò che ero per me in ciò che dovevo essere per loro”. Di questo periodo metto in risalto tre aspetti importanti:
6.1 Francesco pastore
In questi anni brilla il suo zelo concentrato nelle parole: “Da mihi animas” che diventano il suo programma. “Il prete è tutto per Dio e tutto per il popolo” soleva ripetere e lui ne era il modello, per primo! I problemi della diocesi sono tanti e molto gravi: riguardano il clero, i monasteri, la formazione dei futuri ministri, il seminario inesistente, la catechesi, la mancanza di risorse economiche. Francesco inizia subito la visita alle oltre quattrocento parrocchie, visita che si protrae per cinque o sei anni: parla con i sacerdoti, conforta, incoraggia, risolve i problemi più spinosi, predica, amministra il sacramento della cresima ai ragazzi o ai futuri sposi, celebra matrimoni… Per ovviare all’ignoranza del clero fa scuola di teologia in casa sua, ogni anno raduna i suoi preti in Sinodo, predica… “Per alcuni anni insegnò ad Annecy molti argomenti di indole teologica ai suoi canonici e dettava loro lezioni in latino. Erano molti coloro che aspiravano alla vita religiosa o al sacerdozio: non erano le vocazioni che mancavano. Molto spesso mancava la vocazione! Scrive un opuscolo Avvertimenti ai confessori, un gioiello di zelo pastorale dove si intrecciano dottrina, esperienza personale, consigli… Visita i numerosi monasteri della diocesi: alcuni li chiude, in altri sposta il personale, ne fonda di nuovi. Lotterà fino alla fine per avere un Seminario: mancano i fondi per l’egoismo dei Cavalieri di S. Lazzaro e di S. Maurizio, che trattengono le rendite dovute alla diocesi. La caratteristica dominante in Francesco pastore è la sua capacità di accompagnare le persone. “È una fatica guidare le anime singole, ma una fatica che fa sentire leggeri come quella dei mietitori e dei vendemmiatori, i quali non sono mai tanto contenti come quando hanno molto lavoro e molto da portare”. Caratteristiche di questa educazione individualizzata: Ricchezza di umanità: “Penso che nel mondo non vi siano anime che amino più cordialmente e più teneramente e, per dire tutto molto alla buona, più amorosamente di me, perché a Dio è piaciuto fare così il mio cuore”. Padre e fratello: sa essere molto esigente, ma sempre con dolcezza e serenità. Non abbassa la posta in gioco: basta leggere la prima parte della Filotea per rendersene conto. Prudenza e concretezza: “Usatevi molti riguardi durante questa gravidanza… se vi stancate a stare inginocchiata, mettetevi a sedere e se non avete l’attenzione sufficiente per pregare mezz’ora, pregate solo per un quarto d’ora…” (Madame de la Fléchère) Senso di Dio: “Occorre fare tutto per amore e nulla per forza; occorre amare l’obbedienza più di quanto si tema la disobbedienza”. “Dio sia il Dio del vostro cuore”. Francesco fu definito la copia più vera di Gesù in terra (S. Vincenzo di Paoli)
6.2 Francesco scrittore:
Nonostante gli impegni legati al suo essere vescovo, Francesco trova il tempo per dedicarsi a scrivere. Che cosa? Migliaia di lettere a persone che chiedono la sua guida spirituale, ai monasteri della Visitazione di recente fondazione, a personaggi di spicco della nobiltà o della Chiesa per tentare di risolvere problemi, ai suoi familiari ed amici. Nel 1608 viene pubblicata la Introduzione alla vita devota: è lo scritto più noto di Francesco. “È nel carattere, nel genio, ma soprattutto nel cuore di Francesco di Sales che occorre cercare la vera origine e la preparazione remota dell’Introduzione alla Vita Devota o Filotea”: così scrive nell’introduzione all’edizione critica di Annecy don Machey, un uomo che ha dedicato la vita allo studio delle opere del Santo. La prefazione porta la data dell’8 agosto 1608. Questo libro ricevette un’accoglienza entusiasta. La Chantal parla di questo libro come “di un libro dettato dallo Spirito Santo”. In 400 anni di vita, il libro ha avuto oltre 1300 edizioni con milioni di copie, tradotto in tutte le lingue del mondo. A distanza di quattro secoli queste pagine conservano intatto il loro fascino e la loro attualità.
Nel 1616 appare un altro scritto di Francesco: Il Trattato dell’amor di Dio, il suo capolavoro, scritto per coloro che vogliono puntare alle vette! Li guida con sapienza e con esperienza a vivere l’abbandono totale alla volontà di Dio fino al punto “dove si incontrano gli amanti!” cioè al Calvario. Solo i santi sanno guidare alla santità.
6.3 Francesco fondatore
Nel 1604 Francesco si reca a Digione a predicare la Quaresima, invitato dall’arcivescovo di Bourges, Andrea Fremyot. Fin dai primi giorni rimane colpito dall’attenzione e dal comportamento devoto di una dama presente. È la baronessa Giovanna Francesca Fremyot de Chantal, sorella dell’arcivescovo. Dal 1604, anno dell’incontro di Giovanna con Francesco, al 1610, data dell’entrata di Giovanna in noviziato ad Annecy, i due santi si incontrano quattro o cinque volte, ogni volta per una settimana o una decina di giorni. Gli incontri sono rallegrati dalla presenza di varie persone di famiglia (la mamma, la sorella di Francesco) o amiche (la Signora Brulart, la badessa di Puy d’Orbe…). Giovanna vorrebbe accelerare i tempi, ma Francesco procede con prudenza. Poco alla volta i vari nodi si allentano, giungono consensi, la serenità e la pace crescono e questo permette di risolvere meglio i problemi. Dio ha preso possesso del suo cuore e l’ha resa donna pronta a dare la sua vita per Lui. Il suo sogno, a lungo coltivato, si realizza il 6 giugno 1610: giornata storica! Giovanna e le sue due amiche (Giacomina Favre e Carlotta di Bréchard) entrano in una casetta, “la Galerie”, e iniziano l’anno di noviziato. Il 6 giugno dell’anno seguente le prime tre professioni nelle mani di Francesco. Intanto altre giovani e altre donne chiedevano di essere accolte. Prende così il via la famiglia religiosa che si ispira alla Visitazione di Maria. L’espansione del nuovo Ordine ha del prodigioso. Alcune cifre: dal 1611 (anno di fondazione) al 1622 (anno della morte di Francesco) le fondazioni sono tredici: Annecy, Lione, Moulins, Grenoble, Bourges, Parigi…. Alla morte di Giovanna, nel 1641, i monasteri saranno 87 con una media di oltre 3 all’anno! Tra questi anche due in Piemonte: a Torino e a Pinerolo!
7. Ultimi anni
Francesco negli ultimi anni di vita deve prendere per due volte la strada di Parigi: viaggi importanti sul piano diplomatico e spirituale, viaggi faticosi per lui stanco e malandato in salute. La fama della santità di Francesco è nota a Parigi al punto che il cardinale Henri de Gondi pensa a lui come a suo successore e glielo propone. Nota è la simpatica risposta di Francesco: “Io ho sposato una povera donna (la diocesi di Annecy); non posso divorziare per sposarne una ricca (la diocesi di Parigi)!” Nel suo ultimo anno di vita intraprende un nuovo viaggio a Pinerolo, in Piemonte, su richiesta del Papa per riportare la pace in un monastero di Foglianti (Cistercensi riformati) che non riescono a mettersi d’accordo sul superiore generale. Francesco riuscì a rappacificare menti e cuori con soddisfazione unanime. Un altro ordine del Duca impone a Francesco di accompagnare il cardinal Maurizio di Savoia ad Avignone per incontrare il re Luigi XIII. Al ritorno si ferma a Lione nel monastero delle Visitandine. Qui incontra per l’ultima volta Giovanna de Chantal. È stremato, ma predica ancora fino alla fine, che sopraggiunge il 28 dicembre 1622. Francesco è morto con un sogno: ritirarsi dagli affari della diocesi e trascorrere gli ultimi anni di vita nel quieto Monastero di Talloires, sulle sponde del lago, a scrivere il suo ultimo libro Trattato dell’amore del prossimo e a recitare il Rosario. Siamo certi che il libro l’aveva già scritto con l’esempio della sua vita; quanto alla recita del Rosario, ora non gli mancano né il tempo, né la tranquillità.
Essere missionari in Amazzonia significa lasciarsi evangelizzare dalla foresta
La bellezza degli indigeni del Rio Negro conquista i cuori e fa sì che il proprio cuore cambi, si espanda, si sorprenda e si identifichi con questa terra, al punto che è impossibile dimenticare la “cara Amazzonia”! Questa è l’esperienza di Leonardo, giovane salesiano nel cuore dell’Amazzonia.
Come è nata nel suo cuore l’idea di essere missionario? Per molti anni questo desiderio è maturato in me ascoltando le storie dei missionari salesiani, la loro testimonianza come portatori dell’amore di Dio al mondo. Ho sempre ammirato questi fratelli che, avendo sperimentato l’amore divino nella loro vita, non potevano rimanere in silenzio; anzi, si sentivano in dovere di annunciarlo agli altri, affinché anche loro potessero dimostrare quanto fossero amati da Dio. Fu così che chiesi di fare un’esperienza nelle missioni salesiane in Amazzonia tra le popolazioni indigene. Nel 2021 ho iniziato a vivere e a lavorare come “tirocinante” nella comunità missionaria di São Gabriel da Cachoeira, nello stato dell’Amazzonia. È stata una vera e propria “scuola missionaria”, ricca di nuove scoperte ed esperienze, di sfide mai immaginate, affrontando realtà fino ad allora totalmente sconosciute.
Quali sono state le sue prime impressioni all’arrivo in una terra sconosciuta? Dal primo momento in cui ho guardato fuori dal finestrino dell’aereo e ho visto l’immensità della foresta e i numerosi fiumi, la mia mente ha fatto “click”: sono davvero in Amazzonia! Come ho sempre visto in televisione, la regione amazzonica è di una bellezza esuberante, con splendidi paesaggi naturali, veri capolavori di Dio Creatore. Un’altra prima impressione molto bella è quella di vedere tanti fratelli e sorelle indigeni, con caratteristiche fisiche così evidenti, come il colore della pelle, gli occhi chiari e i capelli neri. Vedere la diversità e la ricchezza culturale dell’Amazzonia significa ricordare la nostra storia, ricordare la nostra origine come Brasile e capire meglio chi siamo come popolo.
E perché la scelta dell’Amazzonia? Che cosa ha di speciale per lei? La Chiesa, compresa la nostra Congregazione salesiana, è essenzialmente missionaria. Tuttavia, nella regione del Nord questo è ancora più vero perché i territori sono immensi; l’accesso, generalmente via fiume, è difficile e costoso; la diversità culturale e linguistica è vasta e c’è un’enorme mancanza di sacerdoti, religiosi e altri leader che possano portare avanti l’evangelizzazione e la presenza della Chiesa in queste terre. Pertanto, c’è molto lavoro e un lavoro “pesante”, impegnativo. Non è solo il servizio delle visite, della predicazione, della celebrazione dei sacramenti, come si potrebbe pensare della vita missionaria, ma significa condividere la vita e il lavoro del popolo, portare fardelli pesanti, sentire il bisogno, l’esclusione e l’abbandono del popolo da parte dei politici; passare ore sulla strada o sul fiume; sentire le punture degli insetti; mangiare il cibo della gente semplice, “condito” con le spezie dell’amore, della condivisione e dell’accoglienza; ascoltare le storie degli anziani, spesso con parole ed espressioni che non conosciamo bene; sporcarsi i piedi e i vestiti di fango, non riscaldare le auto; rimanere senza internet e, a volte, anche senza elettricità. .. Tutto questo è coinvolto nella vita missionaria salesiana in Amazzonia!
Ci racconti qualcosa di più sull’opera salesiana dove ha vissuto? Cosa fanno i Salesiani per i giovani della regione? Uno degli scopi della nostra comunità salesiana di Sao Gabriel è l’Oratorio e l’Opera sociale: è il parco giochi salesiano, il nostro lavoro diretto con i giovani del “Gabriel” che frequentano ogni giorno il nostro Oratorio e trovano nella nostra casa un luogo dove giocare, divertirsi e vivere in modo sano con i loro amici e colleghi. I giovani qui amano lo sport, soprattutto la passione nazionale che è il calcio. Poiché la città non offre molte opzioni per il tempo libero e lo sport, i bambini sono presenti nel nostro lavoro per tutto il tempo in cui siamo operativi e si lamentano molto quando è ora di concludere le attività della giornata. Ogni giorno passano dal nostro lavoro in media 150-200 giovani. Inoltre, il Centro Missionario Salesiano offre corsi per adolescenti e giovani, come informatica e panificazione.
E se un giovane, conoscendovi e apprezzando il carisma, esprime il desiderio di diventare salesiano, c’è un percorso di formazione? Sì, da qualche anno la nostra comunità gestisce anche il “Centro de Formación indígena” (CFI), che ha lo scopo di accompagnare e accogliere i giovani indigeni di tutte le nostre comunità missionarie che desiderano intraprendere un accompagnamento vocazionale ed essere aiutati nella stesura di un Progetto di vita. Questo accompagnamento costituisce l’Aspirazione Indigena dell’Ispettoria Salesiana Missionaria dell’Amazzonia (ISMA). Oltre a proporre questo itinerario formativo, il CFI offre corsi di portoghese, salesianità, informatica e pasticceria, accompagnamento spirituale e psicologico e inserimento graduale nella vita salesiana. È davvero un’esperienza molto apprezzata da loro, perché sono i primi passi del cammino formativo e si svolge nel loro ambiente, con la loro gente, con l’affetto e la vicinanza dei salesiani e degli animatori laici.
Ha detto che ci sono altre comunità missionarie oltre a San Gabriel? Come mai? Come funziona il lavoro missionario a Rio Negro? La nostra comunità di Sao Gabriel, poiché ha più collegamenti e servizi, è la base e quella che si occupa del collegamento e della logistica con le nostre missioni che si trovano nell’interno, in particolare Maturacá (con il popolo Yanomami) e Iauaretê (nel “triangolo tukano”). In queste realtà missionarie non esiste un commercio formale e, quando c’è, i prezzi sono estremamente alti. Pertanto, tutti gli acquisti di cibo, prodotti per l’igiene, materiali per le riparazioni e carburante per le imbarcazioni utilizzate nelle “itineranze” (visite pastorali alle comunità fluviali) e per la produzione di energia elettrica tramite generatore, vengono effettuati a São Gabriel e poi inviati da noi, tramite trasporto fluviale, in queste località. È un lavoro manuale molto intenso, perché dobbiamo comprare e poi trasportare molto peso sulle barche che porteranno questi prodotti ai nostri fratelli che vivono e lavorano nelle altre missioni. Portiamo sacchetti di cibo, scatole di polistirolo con la carne e diverse “carotes” (contenitori di plastica per il trasporto di liquidi) da 50 litri di carburante ciascuna. Inoltre, la nostra casa ha diverse stanze, sempre disponibili e preparate per ospitare i fratelli missionari che passano da São Gabriel, per andare o tornare dalle altre missioni. Si tratta di un vero e proprio lavoro di assistenza e di rete.
E di questi “itinerari” sui fiumi, ricorda qualche esperienza forte? Sì, certo, in relazione alle “itineranze”, un’esperienza che mi ha segnato profondamente è stata l’itineranza a Maturacá. Abbiamo vissuto giorni di profonda esperienza dell’incontro con Dio attraverso l’incontro con l’altro, con chi è diverso da noi, con il prossimo, perché abbiamo fatto la visita pastorale, detta itineranza, alle comunità del popolo Yanomami.
Oltre alla sede della Missione salesiana a Maturacá, abbiamo visitato altre sei comunità (Nazaré, Cachoeirinha, Aiari, Maiá, Marvim e Inambú). Sono stati giorni intensi e impegnativi. In primo luogo perché ogni comunità è molto distante l’una dall’altra e l’accesso è possibile solo attraverso i fiumi della nostra amata Amazzonia, percorsi in una barca a motore (chiamata “voadeira”), sotto il sole forte o la pioggia battente. In secondo luogo, si tratta di comunità tradizionali Yanomami, quindi lo shock culturale è inevitabile, poiché hanno abitudini, costumi e modi di vita completamente diversi da quelli di noi non indigeni. In terzo luogo, ci sono le sfide pratiche, come la mancanza di elettricità 24 ore su 24, l’assenza di segnale telefonico, la scarsa scelta e varietà di cibo, il bagno e il lavaggio dei vestiti nel fiume, la convivenza con gli insetti e gli altri animali della foresta… Una vera e propria “immersione” antropologica e spirituale. Abbiamo celebrato l’Eucaristia in tutte le comunità e diversi battesimi in alcune di esse, abbiamo visitato le famiglie e pregato con i bambini. È stata una fantastica esperienza di incontro, giorni speciali, giorni di gratitudine, giorni di ritorno all’essenziale della nostra fede e della nostra spiritualità giovanile salesiana: l’amore per Gesù, frutto dell’incontro personale con Lui, e l’amore per il prossimo che si manifesta nel desiderio di stare con lui e di diventare suo amico.
Questa straordinaria “itineranza” ha indubbiamente lasciato molto da imparare nella sua vita, non è vero? L’itineranza è una vera e propria “scuola” e ci dà lezioni di vita: il distacco, perché più “cose” si accumulano, più “pesante” diventa il viaggio; vivere il presente, perché nel mezzo dell’Amazzonia, senza accesso ai mezzi di informazione, l’unico contatto è con la realtà presente, quella che ci circonda, la foresta, il fiume, il cielo, la barca; la gratuità, perché si affrontano le difficoltà e la stanchezza senza aspettarsi gesti di umana gratitudine. Infine, l’itineranza geografica ci porta a una “itineranza interiore”, alla conversione, al ritorno all’essenziale della vita e della fede. Navigare sui fiumi dell’Amazzonia significa navigare verso i fiumi interni. Essere in missione significa essere costantemente provocati a liberarsi da idee preconcette e rigide per essere più liberi di amare e accogliere l’altro e annunciargli la gioia del Vangelo.
Una lezione molto speciale che imparo ogni giorno in missione è che per essere un buon missionario devo essere una persona profondamente segnata e toccata dall’amore misericordioso di Dio, e solo a partire da questa esperienza posso essere pronto a “portare” e “mostrare” ovunque come Dio ci ama e può trasformare tutta la nostra vita. Imparo anche che, essendo missionario, porto e mostro questo amore, prima di tutto con la mia stessa vita donata alla missione. Senza dire una parola, per il semplice fatto di lasciare le mie origini e abbracciare nuove culture, posso rivelare che l’amore di Dio vale molto di più di tutte le cose che consideriamo preziose nella nostra vita. Pertanto, la vita del missionario è la sua prima e più grande testimonianza e annuncio!
Avete vissuto questa esperienza missionaria, ma si può dire che anche voi siete stati evangelizzati? Cosa vi ha dato soddisfazione nel cuore? Infine, trovandomi a São Gabriel, il comune più indigeno del Brasile, “casa” di 23 gruppi etnici, multiculturale e multilingue, mi rendo conto ogni giorno che, nel chiamarci a essere missionari, Dio ci chiama a essere capaci di lasciarci incantare dalla bellezza e dal mistero che è ogni persona e ogni cultura del nostro mondo. Per questo, sull’esempio del Maestro Gesù, missionario del Padre, siamo chiamati a “svuotarci” di tutto per “riempirci” delle bellezze e delle meraviglie presenti in ogni angolo della terra e associarle alla preziosità del Vangelo. Questa è stata una delle esperienze più profonde per me.
Alla fine di tutto questo, credo che la soddisfazione venga dai sorrisi e dalle grida dei nostri bambini e bambine che giocano, corrono, saltano, tirano una palla, raccontano le loro barzellette; viene dagli sguardi curiosi e brillanti degli uomini e delle donne della foresta; la gioia viene dalla contemplazione della bellezza della natura, dalla generosità della gente e dalla perseveranza dei cristiani che rimangono, a volte, per mesi senza la presenza di un sacerdote, ma che guardano e toccano con amore e devozione i piedini dell’immaginetta della Madonna o la croce sull’altare. Nelle missioni salesiane di Rio Negro si impara a vivere senza eccessi, a valorizzare la semplicità e a gioire delle piccole cose della vita. Qui tutto diventa festa, danza, musica, celebrazione, fede? Qui si vive nella stessa povertà e semplicità dell’inizio di Valdocco, dove hanno vissuto e si sono santificati don Bosco, mamma Margherita, il bambino Savio, don Rua e tanti altri. Essere in Amazzonia ci arricchisce certamente come persone, cristiani e salesiani di Don Bosco!
Intervista di don Gabriel ROMERO al giovane salesiano Leonardo Tadeu DA SILVA OLIVEIRA, dell’Ispettoria di São João Bosco, con sede a Belo Horizonte, Minas Gerais, Brasile.
La prima volta fu indimenticabile. Era la festa di San Martino del 1875. Il mondo non lo sapeva, ma in quell’angolo di Torino chiamato Valdocco cominciava un’impresa straordinaria: dieci giovani salesiani partivano per l’Argentina. Erano i primi missionari salesiani.
Le Memorie Biografiche raccontano quel momento con accenti epici: «Scoccavano le 4 ed echeggiavano le prime note del concerto campanario, quando sorse nella Casa un impetuoso rumore con un violento sbattersi di porte e di finestre. Erasi levato un vento così forte, che sembrava volesse atterrare l’Oratorio. Sarà stato un caso; ma il fatto è che un vento uguale soffiò nell’ora in cui si pose la pietra angolare della chiesa di Maria Ausiliatrice; un vento simile si ripeté alla consacrazione del Santuario».
La Basilica era affollata. Don Bosco salì sul pulpito. «Al suo apparire si fece in quel mare di gente profondo silenzio; un fremito di commozione passò per tutta l’udienza, che ne bevette avidamente le parole. Ogni volta che accennava direttamente ai Missionari, la voce gli si velava fin quasi a morirgli sulle labbra. Egli con isforzi virili frenava le lagrime, ma l’uditorio piangeva».
La voce mi manca, le lagrime soffocano la parola. Soltanto vi dico che se l’animo mio in questo momento è commosso per la vostra partenza, il mio cuore gode di una grande consolazione nel mirare rassodata la nostra Congregazione; nel vedere che nella nostra pochezza anche noi mettiamo in questo momento il nostro sassolino nel grande edifizio della Chiesa. Sì, partite pure coraggiosi; ma ricordatevi che vi è una sola Chiesa che si estende in Europa ed in America e in tutto il mondo, e riceve gli abitanti di tutte le nazioni che vogliono venire a rifugiarsi nel suo materno abbraccio. Come Salesiani, in qualunque rimota parte del globo vi troviate, non dimenticate che qui in Italia avete un padre che vi ama nel Signore, una Congregazione che ad ogni evenienza a voi pensa, a voi provvede e sempre vi accoglierà come fratelli. Andate adunque; voi dovrete affrontare ogni genere di fatiche, di stenti, di pericoli; ma non temete, Dio è con voi. Andrete, ma non andrete soli; tutti vi accompagneranno. Addio! Forse tutti non potremo più vederci su questa terra» (MB XI,381-390).
Abbracciandoli, don Bosco consegnò a ciascuno un foglietto con venti ricordi speciali, quasi un paterno testamento a figli che forse non avrebbe più riveduti. Li aveva scritti a matita nel suo taccuino durante un recente viaggio in treno.
L’albero cresce
Il 25 settembre abbiamo rivissuto quel momento di grazia per la 153esima volta. Oggi Si chiamano Oscar, Sébastien, Jean-Marie, Tony, Carlos… Sono 25, giovani, preparati ma portano negli occhi e nel cuore la consapevolezza e il coraggio dei primi. Sono le avanguardie di quanto ho chiesto a tutta la famiglia salesiana per questo sessennio: audacia, profezia e fedeltà.
Don Bosco aveva fatto una piccola profezia: «Noi diamo principio ad una grand’opera, non perché si abbiano pretensioni o si creda di convertire l’universo intero in pochi giorni, no; ma chi sa, che non sia questa partenza e questo poco come un seme da cui abbia a sorgere una grande pianta? Chi sa, che non sia come un granellino di miglio o di senapa, che a poco a poco vada estendendosi e non sia per fare un gran bene? Chi sa che questa partenza non abbia svegliato nel cuore di molti il desiderio di consacrarsi a Dio nelle Missioni, facendo corpo con noi e rinforzando le nostre file? Io lo spero. Ho visto il numero stragrande di coloro che chiesero di essere prescelti» (MB XI, 385).
«Essere missionario. Che parola!» testimonia un salesiano dopo quarant’anni di vita missionaria. «Una persona anziana mi disse: «Non parlarmi di Cristo; siediti qui accanto a me, voglio sentire il tuo odore e se questo è il Suo odore allora mi potrai battezzare».
Il quinto dei consigli di don Bosco ai missionari era: “prendete cura speciale degli ammalati, dei fanciulli, dei vecchi e dei poveri”.
Viviamo un tempo da affrontare con una mentalità rinnovata, che “sappia superare le frontiere”. In un mondo in cui le frontiere rischiano di chiudersi sempre più, la profezia della nostra vita consiste anche in questo: mostrare che per noi non ci sono frontiere. L’unica realtà che abbiamo è Dio, il Vangelo e la missione.
Sogno che dire oggi e nei prossimi anni “Salesiani di Don Bosco” significhi, per le persone che ascoltano il nostro nome, che siamo consacrati un po’ “pazzi”, cioè “pazzi” perché amano i giovani, soprattutto i più poveri, i più abbandonati e indifesi, con un vero cuore salesiano. Questa mi sembra la definizione più bella che si possa dare oggi dei figli di don Bosco. Sono convinto che il nostro Padre vorrebbe proprio questo.
Ancora partono per donare la vita a Dio. Non solo a parole. La Congregazione ha pagato anche il tributo del sangue. Il motto sacerdotale che il martire Rudolf Lunkenbein aveva scelto per l’Ordinazione era “Sono venuto per servire e dare la vita”. Nella sua ultima visita in Germania, nel 1974, sua madre lo pregava di fare attenzione, perché l’avevano informata dei rischi che correva suo figlio. Lui rispose: «Mamma, perché ti preoccupi? Non c’è niente di più bello che morire per la causa di Dio. Questo sarebbe il mio sogno”.
Ho la ferma convinzione che la nostra Famiglia deve camminare nei prossimi sei anni verso una maggiore universalità e senza frontiere. Le nazioni hanno confini. La nostra generosità, che sostiene la missione, non può né deve conoscere limiti. La profezia di cui dobbiamo essere testimoni come Congregazione non comprende i confini.
Un missionario raccontava di aver celebrato la messa per gli indigeni delle montagne vicine a Cochabamba, in Bolivia. Era un giovane prete e quasi non conosceva la lingua quechua, e alla fine, mentre si incamminava verso casa, sentì di essere stato un fiasco e di non essere riuscito per nulla a comunicare. Ma si presentò un vecchio contadino, vestito poveramente, e ringraziò il giovane missionario per essere venuto.
Poi fece una mossa incredibile: «Prima che io riesca ad aprire bocca, il vecchio campesino mette le mani nelle tasche del suo mantello e ne trae due manciate di variopinti petali di rosa. Si alza in punta di piedi e a gesti mi chiede di aiutarlo abbassando la testa. Così mi fa cadere i petali sulla testa, e io resto senza parole. Fruga di nuovo nelle tasche e riesce a estrarne altre due manciate di petali. Continua a ripetere il gesto, e la scorta di petali di rosa rossi, rosa e gialli sembra infinita. Io sto semplicemente lì e lo lascio fare, guardando i miei huaraches (sandali di cuoio), bagnati dalle mie lacrime e coperti di petali di rosa. Alla fine si congeda e io resto solo. Solo con la fresca fragranza delle rose».
Vi posso dire per esperienza che milioni di famiglie in tutto il mondo sono pieni di riconoscenza verso i Salesiani che sono diventati “vangelo” in mezzo a loro.
Lettera Rettor Maggiore. Appello missionario 2023
Ricordiamo il giorno in cui 163 anni fa – 18 dicembre 1859 – Don Bosco fondò la nostra “Pia Società di San Francesco di Sales”. Da allora essa non ha mai smesso di diffondersi. Grazie ai nostri missionari oggi il carisma di Don Bosco è presente in 134 paesi, e stiamo preparando ad iniziare nuove presenze in Niger e Algeria per l’anno prossimo. Già il 6° successore di Don Bosco, Don Luigi Ricceri, ci ha ricordato che lo spirito e l’impegno missionario non erano solo un interesse personale del nostro fondatore ma un vero charisma fundationis che egli ha trasmesso a noi e a tutta la Famiglia Salesiana (ACG 267, p.14). Ecco perché oggi è una bella occasione per inviarvi questo appello missionario.
All’invio della prima spedizione missionaria nel 1875 Don Bosco aveva fatto una profezia: “… Chi sa, che non sia questa partenza e questo poco come un seme da cui abbia a sorgere una grande pianta? … Chi sa che questa partenza non abbia svegliato nel cuore di molti il desiderio di consacrarsi a Dio nelle Missioni, facendo corpo con noi e rinforzando le nostre file? Io lo spero. …” (MB XI, 385). Infatti, nonostante che nel 1875 ci fossero solo 171 salesiani (64 professi perpetui di cui 49 sacerdoti, e 107 professi temporanei) e 81 novizi, Don Bosco aveva inviato 11 salesiani in Argentina. Alla sua morte c’erano 773 salesiani di cui 137 erano missionari inviati da Don Bosco stesso in 11 spedizioni missionarie.
Oggi ci troviamo in un contesto molto diverso dal tempo di Don Bosco. Oggi le missioni’ non possono essere comprese solo come movimento verso le terre di missione’, come una volta. Oggi i missionari salesiani provengono dai cinque continenti e sono inviati dal Rettor Maggiore ai cinque continenti. In un mondo in cui le frontiere rischiano di chiudersi sempre più, i missionari salesiani sono inviati non solo per rispondere al bisogno di personale ma, soprattutto, per testimoniare che per noi non ci sono frontiere, per contribuire al dialogo interculturale, all’inculturazione della fede e del nostro carisma e per innescare processi che possano generare nuove vocazioni locali.
Nella mia prima lettera come Rettor Maggiore ho manifestato la mia convinzione che “una grande ricchezza della nostra Congregazione sia proprio la sua capacità missionaria” (ACG 419, p. 24). Ho la ferma convinzione che noi salesiani abbiamo bisogno di camminare verso una maggiore consapevolezza della nostra internazionalità. E la generosità missionaria dei confratelli è una testimonianza profetica che la nostra Congregazione è senza frontiere. Infatti, la presenza dei missionari nell’Ispettoria aiuta a riflettere meglio l’internazionalità della nostra Congregazione e a capire che il carisma salesiano non è monocolore e che le differenze e la multiculturalità arricchiscono l’Ispettoria e tutta la nostra Congregazione.
Al contrario, un’Ispettoria composta solo da confratelli della stessa cultura rischia di ridursi a un’enclave etnica, meno sensibile alla sfida d’interculturalità e meno capace di vedere oltre i confini del proprio mondo culturale. E per questo che ho insistito varie volte che noi non facciamo professione religiosa per un paese o per un’Ispettoria. Siamo Salesiani di Don Bosco nella Congregazione e per la missione, là dove ci sia più bisogno di noi e dove sia possibile il nostro servizio.
Già nel 1972 il nostro Capitolo Generale Speciale aveva considerato il rilancio missionario come “un termometro della vitalità pastorale della Congregazione e un mezzo efficace contro il pericolo dell’imborghesimento” (CGS, 296). La capacità dei confratelli di accogliere e accompagnare i nuovi missionari inviati nella propria Ispettoria è altrettanto un termometro del proprio spirito missionario.
Grazie allo spirito missionario nella nostra Congregazione, ci sono ancora confratelli che partono per donare la propria vita a Dio come missionari. Al mio appello del 18 dicembre 2021 scorso 36 salesiani hanno risposto inviandomi la lettera della loro disponibilità missionaria. Dopo un attento discernimento, 25 sono stati scelti come membri della 153a spedizione missionaria quest’anno. Gli altri continuano il loro discernimento.
Dunque, con questa lettera, invito voi, cari confratelli, a pregare e fare un attento discernimento per scoprire se il Signore vi chiama, dentro la nostra comune vocazione salesiana, ad essere missionari, scelta che implica un impegno per tutta la vita (ad vitam).
Invito gli Ispettori, con loro Delegati per l’animazione missionaria (DIAM), ad essere i primi ad aiutare i confratelli a coltivare il desiderio missionario e a facilitare il loro discernimento, invitandoli, dopo il dialogo personale, a mettersi a disposizione del Rettor Maggiore per rispondere ai bisogni missionari della Congregazione. Poi il Consigliere Generale per le Missioni, a nome mio, continuerà il discernimento che porterà alla scelta dei missionari per la 154 spedizione missionaria che si terrà, Dio volendo, domenica 24 settembre 2023, nella Basilica di Maria Ausiliatrice di Valdocco, come si è fatto sin dal tempo di Don Bosco.
Il dialogo con il Consigliere Generale per le Missioni e la riflessione condivisa all’interno del Consiglio Generale mi permette di precisare le urgenze individuate per il 2023, dove vorrei che un numero significativo di confratelli potesse essere inviato: • in Sudafrica, Mozambico e nelle nuove frontiere nel continente Africano; • in Albania, Kosovo, Slovenia e in altre nuove frontiere del Progetto Europa; • in Azerbaijan, Bangladesh, Nepal, Mongolia e Yakutia; • nelle nostre numerose presenze nelle isole dell’Oceania; • nelle frontiere missionarie dell’America Latina e con i popoli indigeni.
Vi saluto, cari confratelli, con vero affetto e con un ricordo davanti l’Ausiliatrice e Don Bosco qui a Valdocco.
Torino Valdocco, 18 dicembre 2022
Pastorale giovanile e famiglia
Investire sull’educazione dei giovani per costruire le famiglie di oggi e di domani
L’educazione dei giovani è compito originale dei genitori, connesso alla trasmissione della vita, e primario rispetto al compito educativo di altri soggetti; quindi il ruolo della Comunità Educativo-Pastorale si propone come complementare, non sostitutivo, del ruolo educativo dei genitori dei giovani. Il contributo della vocazione familiare, genitoriale e di coppia è stato individuato in almeno tre temi centrali: l’amore, la vita e l’educazione.
La cura della famiglia suscita un grande interesse in tutto il mondo. Una particolare attenzione è dedicata alla questione attraverso articoli, pubblicazioni scientifiche e atti dei convegni. Nello stesso tempo, alla famiglia è chiesto di prendersi cura dei legami che costituiscono la fitta trama che sostiene la persona dei giovani nel processo di crescita e che incrementano la qualità della vita di una comunità. Perciò, bisogna promuovere adeguate strategie educativo-pastorali di sostegno alla famiglia, sul ruolo che ha nella costruzione dei rapporti interpersonali e intergenerazionali, nonché nella complessiva concezione dell’educazione e dell’accompagnamento delle nuove generazioni.
Nella sua complessità, ogni famiglia è come un libro che ha bisogno di essere letto, interpretato e compreso con molta cura, attenzione e rispetto. Nella nostra società contemporanea, la vita familiare presenta, di fatto, alcune condizioni che la espongono a fragilità.
Incontrare don Bosco è un viaggio sempre attuale. Seguire i suoi sogni; comprendere la sua passione educativa; conoscere il suo talento nel tirare fuori i giovani da “strade cattive” per farli diventare “buoni cristiani e onesti cittadini”, per educarli alla fede cristiana e alla coscienza sociale, per guidarli a una professione onesta, è un’esperienza di straordinaria intensità umana e familiare. L’esperienza di Don Bosco ha radici lontane. La sua vita, infatti è popolata da famiglie, da molteplicità di relazioni, da generazioni, da giovani senza famiglia, da storie di amore e di crisi familiari, fin dalla prima pagina della sua vita, quando deve affrontare molto giovane la perdita del padre.
La Comunità Educativo-Pastorale (CEP) è una delle forme, se non la forma, in cui si concretizza lo spirito di famiglia. In esso il Sistema Preventivo diventa operativo in un progetto comunitario. In quanto grande famiglia che si occupa dell’educazione e dell’evangelizzazione dei giovani su uno specifico territorio, la CEP è l’attualizzazione di quella intuizione che, all’origine del carisma salesiano, Don Bosco ripeteva spesso: “Ho sempre avuto bisogno di tutti”. A partire da questa convinzione, costituisce attorno a sé, fin dai primi tempi dell’Oratorio, una comunità-famiglia che non tiene conto delle diverse condizioni culturali, sociali ed economiche dei collaboratori e nella quale gli stessi giovani sono protagonisti.
L’educazione dei giovani è compito originale dei genitori, connesso alla trasmissione della vita, e primario rispetto al compito educativo di altri soggetti; quindi il ruolo della CEP si propone come complementare, non sostitutivo, del ruolo educativo dei genitori dei giovani. La teologia pastorale, in questo processo di responsabilizzazione, afferma che la famiglia è oggetto, contesto e soggetto dell’azione pastorale. Questa riflessione ci ha portato ad interrogarci sull’originalità della famiglia all’interno della CEP, la quale può occupare un posto specifico. Il contributo della vocazione familiare, genitoriale e di coppia è stato individuato in almeno tre temi centrali: l’amore, la vita e l’educazione.
Per questo, sia a livello locale che ispettoriale, occorre che si inizino a progettare percorsi formativi per gli operatori/formatori, integrando le famiglie nel PEPS, dove la proposta educativa e pastorale sia strutturata intorno ad azioni che vedano la famiglia protagonista a favore dei giovani. Tali percorsi devono avere come nucleo centrale il confronto, la metodologia della pedagogia familiare e la Spiritualità Salesiana. Per questo motivo diventa essenziale riprogettarsi insieme in senso vocazionale; contestualmente entrare nel quotidiano delle famiglie, parlare il loro linguaggio, stare accanto alle fragilità delle relazioni e riconoscere le fatiche presenti nel vissuto di tante di loro avendo cura dei giovani senza famiglia, delle giovani famiglie, delle situazioni familiari più fragili (dalla povertà, disuguaglianza e vulnerabilità) promuovendo la solidarietà tra famiglie. Diventa poi necessario accompagnare l’amore delle giovani coppie/famiglie avendone cura e progettando una buona e costante formazione all’amore per lo sviluppo di ogni vocazione.
Tutto ciò che è stato detto su Pastorale Giovanile Salesiana e Famiglia esige, per essere realizzato, l’avvio di processi di formazione per tutti i membri del CEP e quindi sia per i salesiani consacrati che per i laici che sostengono lo sviluppo del PEPS e della Famiglia Salesiana.